Articolo pubblicato in “Alice and the mirror”, La Deleuziana, n.2 (http://www.ladeleuziana.org/issue2/)
Viviamo nell’era del potenziamento biologico-macchinico, difficile ignorarlo. I livelli della
mediazione tecnologica e dell’intervento scientifico sono talmente immanenti alle nostre vite che è
diventato impossibile distinguere dei chiari confini tra natura e tecnica, desiderio e necessità.
Saltano i binomi classici con i quali ci eravamo abituate a interpretare il mondo: avrebbe senso oggi
parlare di realtà materiale come polo opposto della realtà virtuale?
Viviamo l’epoca della realtà aumentata e siamo tutte/i già dei tecno-corpi. Permanentemente
connesse/i alla rete, disponiamo di sempre più tecnologie in grado di modificare tutto di noi stesse/i,
dall’aspetto al sesso. Investiamo sempre più in ricerca medico-farmacologica e si potrebbe dire che
soprattutto grazie a essa, nella parte di mondo chiamata Occidente, l’età media della vita umana, in
poco più di un secolo, si è allungata di circa 20-30 anni. Tuttavia non si potrebbe sostenere
altrettanto facilmente che la sua qualità sia ovunque e per tutte/i la stessa. La nostra “realtà
aumentata” è umana, troppo umana: anche se sempre più simile a un ibrido di carne e fibra ottica,
rimane così a portata di dita e occhi che finisce per renderci incapaci di vedere oltre. Vediamo noi
stessi allo specchio – yes we like it – e non sentiamo le conseguenze del surriscaldamento globale:
«La produzione automatizzata e informatizzata non riceve più la sua consistenza da un fattore
umano di base, ma da un elemento di continuità macchinico, che attraversa, contorna, disperde,
miniaturizza, recupera tutte le funzioni, tutte le attività umane» (Guattari 1997: 10).
Con queste parole di Felix Guattari entriamo nel vivo della questione: nello stesso momento in cui
il “continuum naturacultura”1 viene messo a valore dal tecno-capitalismo, il soggetto (l’uomo – il
partito – Dio – Il padre) si trova a essere sempre più eroso dai cambiamenti in corso. Gli sviluppi
bio-info-tecnologici da un lato, le spinte dei movimenti sociali dall’altro, le cicliche crisi
economico-politiche, l’economia globale del debito e della catastrofe: tutti questi fattori fanno
esplodere il soggetto, che si ritrova esposto, frammentato, precario, migrante, sempre meno
nominato come “soggetto unico” e sempre più come “soggettività nomade”. Tuttavia la
frammentazione del soggetto non conduce immediatamente alla sua scomparsa, se stiamo agli
insegnamenti dei poststrutturalisti il capitalismo ci si mostra in tutta la sua schizofrenia,
riproponendo forme inedite e iperboliche di individualismo. L’io si gonfia online e offline, dai
social network alle sedute di personal shopping: «La soggettività postindustriale consiste in
1 Espressione ricorrente in D. Haraway, Testimone_modesta@FemaleMan_incontra_ OncoTopo. Femminismo e
tecnoscienza (2000).
consumismo, perpetua gestione di crisi e sfruttamento delle sue contraddizioni. Innalzando il
consumismo alla funzione di consumazione orgiastica della paura, l’Occidente è diventato i suoi
mostri» (Braidotti 2005: 41).
1. Quel soggetto che non è l’uomo
Il binomio “neoliberismo – nuove tecnologie della vita e dell’informazione” ha effetti contrastanti,
che si sostanziano in differenti posizionamenti e metamorfosi delle soggettività. Oggi prendono
corpo trasformazioni macchiniche teratologiche, mostruose, che possono valere come
“soggettivazioni al negativo” (in termini foucaultiani “assoggettamenti”), ma anche come
controsoggettivazioni, collocazioni alternative e sostenibili che vedono la soggettività modellarsi
autonomamente in percorsi collettivi e condivisi. Tuttavia, la storia della filosofia occidentale, per
molto tempo, non ha fatto altro che collezionare spiegazioni del mondo, diverse solo
apparentemente, incentrate sull’uomo come soggetto chiuso, molare e portante. Potremmo pensare
alle svariate formazioni di sapere/potere moderne come a blocchi di rappresentazioni/
interpretazioni del “soggetto uomo”. La filosofia, in particolare, si è preoccupata di coltivare
l’umano fino a estrarre da lui un soggetto e una verità, che nel tardo capitalismo vanno a coincidere
con l’homo oeconomicus e l’iperproduttivismo consumista. Coscienti di ciò, Foucault, Deleuze e
Guattari avevano affermato che la filosofia doveva prima di tutto disintossicarsi, dismettere le
tradizionali lenti dualiste e antropocentriche, per diventare capace di concettualizzare le zone
intermedie tra l’umano, il naturale e il macchinico.
I nuovi studi femministi, recuperando il monito poststrutturalista, indagano oggi lo sviluppo
reciprocamente proporzionale di scienze della vita e dell’informazione, interrogandosi sulle
conseguenze negative vissute dalle soggettività in carne e ossa, così come sulla loro capacità di
affermazione e riappropriazione del presente. Non è detto, infatti, che le nuove tecnologie non
possano venire impiegate per fini militari, che non danneggino l’ambiente, che non arrechino danni
a terzi, soprattutto a soggettività che umane non sono, quali la terra e gli animali: Melinda Cooper
(2013) e Donna Haraway (2000) hanno redatto accurate cartografie sulla genesi militare delle nuove
tecnologie. Esse ci vengono presentate spesso come tecnologie della vita, nonostante producano
schizofrenicamente morte. Haraway, in particolare, definisce l’informatica del dominio2 un gioco
mortale che ci conduce dalla società del lavoro a quella dell’info-intrattenimento e che si articola sui
quattro assi principali di comando-controllo-comunicazione-intelligence, affermando che essa è
caratterizzata dal «massiccio intensificarsi dell’insicurezza e dell’impoverimento culturale e dal
2 Espressione ricorrente in D. Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo (1995).
frequente insuccesso delle reti di sussistenza per i più vulnerabili» (Haraway 1995: 71).
La diffusione capillare del senso d’insicurezza e l’assenza di speranza, che caratterizzano i nostri
giorni, conducono troppo spesso a intendere il soggetto come isolato, statico, impotente, relegato ai
margini di una storia che si svolge altrove. Eppure una differente lettura del presente è possibile,
esistono percorsi filosofico-politici in grado di funzionare come efficaci antidoti in grado di
capovolgere la rassegnazione politica in desiderio di cambiamento e partecipazione. La griglia
interpretativa cui ci si riferisce è quella del materialismo postidentitario, elaborato dalla generazione
filosofica del poststrutturalismo francese e, in seguito, ampliata dalla seconda e terza ondata teorica
del femminismo materialista, che ha nei termini coniati da Foucault (1978; 2005) per descrivere i
nuovi rapporti di forza configuratisi dalla fine del XIX sec, biopolitica e biopotere, i suoi snodi
teorico-critici fondamentali. Rosi Braidotti e Donna Haraway, esperte dei più disparati ambiti,
accomunate da una nuova concezione della soggettività e dei suoi diritti nel nuovo contesto
biotecnologico, ci hanno consegnato nuove e significative figurazioni e cartografie, che rendono
conto di una soggettività molteplice e aperta, piuttosto che “unica” e chiusa in sé stessa. Le loro
ricerche partono dall’assunto che la categoria di soggettività nomade, non quella di soggetto, è la
chiave per la ricerca di una soluzione etica e non relativistica per le nuove sfide che il diverso
assetto del biocontrollo ci chiama ad affrontare. Grazie a queste coordinate filosofiche si comprende
in che misura corpi e soggettività siano stati catturati da differenti dispositivi di disciplinamento,
dalla comparsa delle prime scienze mediche alle prime istituzioni in cui esse operavano come poteri
capaci di assoggettare i singoli individui. A partire da esse si possono descrivere le modalità di
normazione e controllo che, dalle prime tecnologie del sé ai più sofisticati dispositivi bio-infomediati,
si vedono all’opera ai tempi del biopotere. Inoltre, grazie alla prospettiva femminista
neomaterialista è possibile intendere la postmodernità come caratterizzata dal ritorno delle/gli
“altre/i” della modernità, dei corpi sessualizzati, razzializzati e naturalizzati che non funzionano più
solo come indicatori di confine e marginalizzazione, ma diventano anche controsoggettività, cioè
luoghi del soggetto potenti e alternativi: «Possiamo definire la postmodernità come l’era della
proliferazione delle differenze. Entrano in scena gli altri svalutati che costituivano il complemento
speculare del soggetto moderno, la donna, l’altro definito in base all’etnia, alla razza e alla natura
[…]. É questo soggetto che i movimenti politici e sociali del secondo dopoguerra hanno messo nel
mirino del loro lavoro critico. Questi movimenti politici e sociali hanno una maggiore affinità con
la devianza che con la normalità» (Braidotti 2005: 21-22).
Questi corpi, da sempre intesi come “differenti” in senso spregiativo, sono usciti dal circo
dell’alterità che li vedeva cannibalizzati e mostruosi, per entrare in una nuova zona di visibilità,
quella dei movimenti sociali, femministi e lgbtq, ambientalisti e no global, antirazzisti e antispecisti.
Qui le differenze significano solo al positivo. Sono vettori di potentia e desiderio di
contaminazione. Qui le differenze trovano modo di non convergere in alcuna sintesi e al contempo
di spingere insieme in una direzione precisa e decisa in comune: i movimenti delle
controsoggettività sono schegge di divenire, fotogrammi di decostruzione creatrice capace di
scardinare il ruolo di soggetto dominante. Quello che viene eroso dalle controsoggettività è proprio
il soggetto che si è autoproclamato unico, maschio, bianco, eterosessuale e razionale, proprietario di
beni e urbanizzato. A cadere è la pretesa di questo soggetto di fare di “tutto il resto” una protesi.
In un certo senso, la casalinga è un’invenzione quanto la lavastoviglie, l’iPod e i treni ad alta
velocità: protesi lanciate nel vuoto da un uomo troppo sicuro delle sue buone intenzioni. Eppure la
materia di cui è fatta una casalinga non è la stessa dell’iPod.
Per Haraway e Braidotti è ora che tutto ciò che non è solo uomo trovi il suo giusto posto nel mondo:
la collocazione storica delle donne negli ambiti della casa, del mercato, del lavoro, dello stato e
delle istituzioni è stata ampiamente superata dalle evoluzioni della scienza e della tecnologia
rendendo così obsolete anche le relative relazioni sociali. Braidotti, nel suo brillante In Metamorfosi
(2003), il cui sottotitolo all’edizione italiana recita Verso una teoria materialista del divenire, insiste
in maniera molto convincente sui processi di divenire delle soggettività nei contesti postmoderni.
La sua riflessione a proposito nasce da una precisa collocazione: come filosofa femminista ella è
impegnata nella lotta al fallologocentrismo, come filosofa materialista ella è impegnata nella lotta
all’idealismo e al dualismo. Questa particolare collocazione la porta a riflettere sull’esigenza di far
dialogare tra loro due diversi motivi: da un lato ella ha analizzato l’urgenza dell’autodeterminazione
della differenza sessuale incarnata, dall’altro quella della materialità dei rapporti di potere e sapere.
Lungi dal ricadere nell’essenzialismo, Braidotti intende la stessa differenza come punto di partenza
per affrontare il dilemma etico-politico dell’identità. Ella non descrive mai la donna come la
soggettività marginale per eccellenza, ma ritiene il divenire donna, in quanto processo di
controsoggettivazione reticolare e molecolare, un motivo fondamentale della sua etica delle
soggettività nomadi: «Il divenire impercettibile è l’ultimo stadio di un processo che, in qualche
punto, deve passare per il divenire donna, ma non si deve fermare lì» (Braidotti 2008: 287). Il suo
concetto di divenire è pertanto arricchito dall’esperienza femminista della politica della
collocazione, che ha come scopo quello di «dar conto della diversità tra donne entro la categoria
della differenza sessuale vista come opposto binario del soggetto fallologocentrico. Nel
femminismo, queste idee fanno il paio con il concetto di responsabilità epistemologica e politica
intese come pratica consistente nello smascherare le posizioni di potere che inevitabilmente
abitiamo in quanto siti della nostra identità[…]. Il posizionamento o collocazione non è, infatti, una
posizione che il soggetto fissa e definisce da sé. É un territorio spazio-temporale condiviso e
costruito collettivamente, occupato insieme ad altri» (Braidotti 2003: 22).
Rosi Braidotti ci consegna una versione attualizzata e incarnata del divenire donna, che mobilita
affetti, passioni e immaginari finora marginalizzati. Ogni divenire molecolare delle soggettività, in
particolare il divenire donna, è una potenzialità affermativa a cui le singolarità marginali possono
sempre accedere. Pertanto questi processi di divenire impercettibile costituiscono dei momenti di
scardinamento delle posizioni di potere che riproduciamo inconsciamente. Ella raccoglie il monito
di Deleuze e Guattari a riguardo e sottolinea come siano le passioni tristi a bloccare i processi di
divenire, rendendo così conseguentemente necessaria una cartografia delle passioni gioiose in grado
di orientare le produzioni di divenire stesse. E nel procedere verso la definizione delle
caratteristiche principali di un’etica delle soggettività nomadi, in divenire, ella torna a Spinoza, al
suo monismo materialista capace di spiegare il divenire ontologico, l’intelligenza creativa, il corpo
che pensa, la non differenziazione di materia e mente3. La struttura delle società occidentali è,
tuttavia, ancora fondata su tutt’una serie di dualismi – individuale/collettivo, cervello/corpo,
cultura/natura, maschio/femmina, civile/incivile, autore/macchina – che a più livelli definiscono
negativamente l’alterità, stabilendo chi e che cosa ha accesso allo statuto del soggetto, chi è
definibile umano e chi non umano, chi gode di diritti inalienabili, quali forme di vita siano degne di
tutela e preoccupazioni politiche e quali no.
Per Haraway e Braidotti, nessun dualismo potrà mai rendere ragione della pluralità del mondo.
Nella loro prospettiva i dualismi vanno superati, bisogna compiere uno sforzo in termini di
creatività per dar luogo a una nuova visione del reale, grazie alla quale le macchine non ci
opprimano, noi stesse potremmo dirci macchiniche e responsabili dei confini delle nostre protesi
bio-info-mediate: un orizzonte in cui sia possibile intensificare il legame umano con gli strumenti
tecnologici senza dimenticare il versante della materialità incarnata, della natura già sempre cultura.
Alla ricerca di possibili modelli alternativi e sostenibili di soggettivazione, Braidotti recupera la
portata innovativa del contributo di Donna Haraway, ovvero la sua particolare declinazione del
concetto di tecnologia. Per Haraway le nuove tecnologie sono estensioni assolutamente naturali dei
nostri corpi, la biologia umana è già artificio culturale e non c’è cesura tra materia e intelletto. Per
dimostrare l’insensatezza di una visione dialettica che oppone una materia all’altra – quella del corpo
a quella della macchina – invece di leggerne le differenziazioni, Haraway propone una figurazione
3 Sul filo rosso che unisce il monismo spinozista e il femminismo neomaterialista si veda il libro Soggettività
autonome. Corpi e Potenza da Spinoza al neofemminismo (Balzano 2014).
molto interessante per descrivere le nuove tipologie relazionali conseguenti a tale superamento, una
figurazione grazie alla quale, finalmente, il soggetto non è più l’uomo.
2. Divenire cyborg: dalla ragione alla passione
Lo scavalcamento delle rigide divisioni duali è incarnato dalla Haraway nella figurazione del
cyborg. Lungi dall’esser metafora, il cyborg, da una prospettiva femminista materialista, è una
figurazione che esprime i mille volti delle donne altamente tecnologizzate che stiamo diventando,
capaci di manovrare qualunque strumento a nostro servizio e piacere. Il divenire cyborg delle nuove
soggettività nomadi è provato dalla crescente familiarità con cui ci muoviamo attraverso gli spazi
aperti dalle nuove biotecnologie e dai nuovi mezzi di informazione/comunicazione, dalle tecniche
di riproduzione assistita alla fecondazione in vitro, passando per l’iPad e il navigatore satellitare,
fino al lavoro domestico che si svolge grazie alle macchine. La figurazione del cyborg è una
scommessa, un lancio di dadi, si fonda sulla speranza che le nuove tecnologie non siano foriere solo
di controllo, ma anche di liberazione: «Alla fine del Ventesimo secolo, in questo nostro tempo
mitico, siamo tutti chimere, ibridi teorizzati e fabbricati di macchina e organismo: in breve siamo
tutti dei cyborg. Il cyborg è la nostra ontologia. Ci dà la nostra politica. Il cyborg è un’immagine
condensata di fantasia e realtà materiale, i due centri congiunti che insieme strutturano qualsiasi
possibilità di trasformazione storica» (Haraway 1995 : 40-41).
Assumersi la responsabilità di relazionarsi in prima persona con la scienza – e i suoi effetti in
termini soggettivi e di potere – vuol dire per Haraway impegnarsi in una prima, radicale e
indispensabile critica alla metafisica antiscientifica, la quale non ha saputo far altro che
demonizzare la tecnologia. Il rischio di ricaduta nella metafisica antiscientifica è, infatti, l’incapacità
di riconoscere le potenzialità che, in termini di autonomia, ogni singolarità può dispiegare al
meglio. Queste potenzialità, come si apprende dal suo Manifesto cyborg consistono sinteticamente
in: miglioramento del vissuto quotidiano; strumenti per stravolgere le strutture di dominio esistenti;
superamento dei dualismi nei quali ci hanno costrette, come donne, a interpretare il reale;
possibilità, per le diverse marginalità sociali, di affermare la pluralità dell’esistente attraverso la
pluralità dell’espressione.
Si badi, però, che la posizione della Haraway non è rappresentativa di un sentore comune ai
differenti femminismi contemporanei, in quanto quella sulle nuove tecnologie della vita e
dell’informazione è una discussione complessa e ancora in corso. Va segnalato che una parte della
cultura femminista oggi avversa soprattutto le pratiche di accanimento sul corpo delle donne, in
particolare quelle legate alla sessualità, come la riproduzione assistita, in quanto rispecchierebbero
la volontà maschile di espropriare l’unico potere vissuto come esclusivamente femminile, quello
della maternità, e in quanto condurrebbero alla reificazione della donna stessa. Per le
cyberfemministe, invece, la maternità non è essenza ancestrale, qualità che informa la differenza
sessuale, piuttosto essa costituisce da sempre un sito di controllo e assoggettamento, un
meccanismo di eteronormazione. La stessa differenza sessuale è un processo sempre aperto, un
divenire di desideri positivi e negativi, non una ricetta valida universalmente. Il fatto che si possa
assumere la biologia come scienza atta ad assegnare un sesso a ognuno è cosa quantomai
discutibile, stabilire quali siano le caratteristiche essenziali del sesso sempre su basi biologiche è, in
questa prospettiva, cosa impossibile. Come aveva già acutamente spiegato Simone de Beauvoir
(2008: 271) donna non si nasce si diventa: potrebbe darsi che non tutte quelle che diventano donne
vogliano anche essere madri. Potrebbe darsi che un omosessuale sia più desideroso di formare una
famiglia di una donna eterosessuale, e che oggi le nuove tecnologie della vita si rivelino molto utili
per soddisfare il suo desiderio di genitorialità. Alcune tendenze in atto dimostrano già questo
processo di “differimento della maternità”: la compra-vendita di gameti e di uteri rappresenta un
mercato fiorente proprio perché il nostro approccio alla maternità sta completamente cambiando4.
A nulla vale, in ogni caso, contrastare nostalgicamente ciò che stiamo già vivendo, dal momento
che nel contesto attuale, come sostiene la Braidotti, «la funzione materna e quindi anche la
riproduzione dell’essere umano nella sua modalità bioculturale hanno subito due spostamenti
significativi: si sono sganciate dal corpo femminile[…] e hanno allo stesso tempo riacquisito lo
statuto di natura[…]. Da una parte il femminile materno viene reinserito in un ordine naturale
reinventato, dall’altra il materno viene iscritto efficacemente nel mercato tecno-industriale delle
modalità alternative di riproduzione» (Braidotti 2008: 62).
Oggi la vita in sé è diventata plusvalore: a partire da fluidi, tessuti e cellule si producono profitto e
normazione. La potenza generatrice transpecie dei corpi femminili nutre enormi flussi di capitale. Il
lavoro riproduttivo non può più essere descritto nei termini tradizionali della cura: è uscito dalle
case ed entrato nelle cliniche, nei laboratori, negli allevamenti animali industriali. I corpi, umani e
non, sono spezzettati e frammentati, costituiscono il materiale organico che nutre mercati legali e
illegali. Oociti e cellule staminali fungono da punto di partenza per biotecnologie che rispondono a
esigenze molto diverse, come aumentare la produzione di latte di bufala, avere un figlio tramite
fecondazione in vitro, creare una crema antirughe di ultima generazione. Non è scontato che a tutti
venga in mente di interrogarsi circa la provenienza di un oocita o di una cellula staminale, oggetti
totemici che rischiano di cancellare, nelle narrazioni mediatico-scientifiche, gli stessi corpi
4 Su questo punto si veda Biolavoro Globale. Corpi e nuova manodopera (Cooper e Waldby 2015).
femminili da cui provengono.
Il nodo fondamentale per divenire oggetto di controllo e valorizzazione non è più la classica
appartenenza alla specie umana. Il biocapitale ha il volto postumano delle femmine delle specie: nei
mercati globali, oltre che sul bios, si specula oggi su zoe. Questo nostro presente ci appare così
sempre più striato, in nessun luogo vige ancora il principio di non contraddizione. Nonostante ciò le
femministe materialiste rimangono in cerca, e in costruzione, di uno spazio intermedio. Sia
Braidotti sia Haraway sono, infatti, intente a percorrere una via alternativa rispetto all’esagerato
ottimismo neodeterminista dei genetisti, al tecnoutopismo di molti intellettuali organici,
all’essenzialismo dialettico delle sinistre storiche: «La risposta femminista è stata più cauta e
ambivalente. Ha sottolineato sia l’aspetto liberatorio sia quello di applicazione potenzialmente
unilaterale delle nuove tecnologie. Si sostiene l’esigenza di creare nuove figurazioni delle attuali
soggettività femminili che siano all’altezza delle complessità e delle contraddizioni del nostro
universo tecnologico» (Braidotti 2005: 34).
Le teorie femministe neomaterialiste ci insegnano che per far fronte ai dispositivi di
assoggettamento contemporanei, che mai risulteranno affrontabili in una dimensione esistenzialeprivata,
non serve alcun arcaismo, alcun binomio che corra lungo binari morti del tipo “natura/
cultura; umano/animale; macchina/ambiente”. Natura e cultura sono un composto, un assemblaggio,
nel quale si trovano anche le attuali tecnoscienze, e con il quale urge trovare nuovi equilibri
relazionali. A questo scopo la Haraway propone la sua politica dell’affinità, che la Braidotti così
spiega: «Haraway auspica un sistema di parentela ridisegnato e radicalizzato da legami realmente
affettivi con gli altri non umani. E sostiene che le divisioni binarie soggetto/oggetto, natura/cultura
sono collegate alle narrazioni patriarcali, edipiche familiari. Per contrastarle, mette in campo un
senso più allargato di comunità, basato sull’empatia, la responsabilità, il riconoscimento» (Braidotti
2008: 70-71).
E in effetti tale politica di affinità e responsabilità si mostra indispensabile se pensiamo
all’ambiguità che la stessa figurazione del cyborg porta con sé. Proviamo a chiederci, infatti, che
tipo di corpo può avere una cyborg e di cosa può essere capace. Notiamo subito che le risposte a
questo interrogativo sono almeno quattro: la cyborg può avere un corpo-testa di donna altamente
tecnologizzata e può essere capace di autosoggettivarsi; può avere un corpo queer e tendere
all’androgino e può essere capace di singolarizzarsi; può avere un corpo ibrido di carne e macchina
e può non sempre riuscire a controllarlo; può avere un corpo stanco da troppe ore di lavoro
telematico/informatico e facilmente assoggettabile. La Haraway (1995: 46) del saggio sopraccitato
così si esprime a proposito dell’ambivalenza della sua figurazione: «Da un certo punto di vista, un
mondo cyborg comporta l’imposizione finale di una griglia di controllo sul pianeta, l’astrazione
finale di una Guerra stellare apocalittica di difesa, l’appropriazione finale del corpo delle donne in
un’orgia di guerra maschilista. Da un altro punto di vista un mondo cyborg potrebbe comportare il
vivere realtà sociali e corporee in cui le persone non temono la loro parentela con macchine e
animali insieme, né identità parziali e punti di vista contraddittori».
Nostro compito è saper operare i dovuti distinguo, non osannare né condannare in toto, arte nella
quale eccellono le accurate cartografie di Braidotti. Il/la cyborg non può essere solo un nome nuovo
con cui chiamare il vecchio soggetto, occorre riuscire a pensarlo come una soggettività nomade e
molteplice: «Oggi, tra i cyborg, includerei tanto il lavoro sottopagato e sfruttato delle donne e dei
bambini nelle fabbriche offshore, quanto i corpi eleganti e superaddestrati dei militari che pilotano i
cacciabombardieri[…]. Il cyborg è tuttavia anche un autorevole mito di resistenza a ciò che
Haraway chiama informatica del dominio» (Braidotti 2003: 28). Questo ultimo punto non è affatto
da sottovalutare, perché per Haraway solo grazie alla lotta politica si dispiega la piena possibilità di
autodeterminazione che pertiene a ogni singolarità, ma soprattutto perché per lei l’autonarrazione
delle soggettività è il primo passo per la creazione di un nuovo immaginario politico, mezzo con il
quale rinegoziare i confini dell’alterità per ripensare le/gli altre/i tecnologiche/i, ma anche le/gli
altre/i sessualizzate/i, razzializzate/i, naturalizzate/i, in una nuova prospettiva etica: «C’è un’altra
strada che scommette sull’autonomia maschile, non passa attraverso la Donna, il Primitivo, lo Zero,
La fase dello Specchio e il suo immaginario. Passa attraverso le donne e altri cyborg
contemporanei, illegittimi, non nati di donna[…]. Questi cyborg sono coloro che rifiutano di
scomparire al momento opportuno, senza curarsi del cronista occidentale che annuncia la triste
scomparsa di un altro primitivo, di un altro gruppo organico annientato dalla tecnologia occidentale,
dalla scrittura. Questi cyborg della vita reale stanno riscrivendo attivamente i testi dei loro corpi e
della società. In questo gioco di lettura, la posta in gioco è la sopravvivenza» (Haraway 1995: 78).
Secondo Haraway è quindi cresciuta la consapevolezza che è possibile deturnare le nuove
tecnologie della vita e della comunicazione, che il loro uso può addirittura essere potenziante.
Demonizzare il presente, o rimpiangere il passato, non ci aiuta nella creazione di forme di vita e
pratiche tecno-scientifiche differenti. Seguendo la sua politica dell’affinità potrebbe risultare più
efficace misurarsi con obiettivi di volta in volta determinati, con pratiche e discorsi legati ai diversi
contesti territoriali, tentando al contempo di tessere reti in cui ibridare in percorsi comuni le
esperienze soggettive. Ci sono molti modi per mantenersi sul versante della positività, senza per
questo cadere nelle trappole dell’umanesimo occidentale, della fede nel progresso teleologicamente
orientato. Rosi Braidotti tratteggia il bright side dell’attualità nel suo ultimo libro, Il postumano
(2014), bussola fondamentale per scorgere nel presente delle vie di fuga, per rimettere al centro dei
discorsi etico-politici la potenza immaginativa e affettiva di cui siamo capaci. Il postumano
risponde all’urgenza di saperi incarnati e nomadi, ibridi e critici in grado di supportare i processi di
divenire non eteronormati, non umani, non dominanti, non elitari: «Se il potere è complesso, diffuso
e produttivo, così deve essere la nostra resistenza a esso» (Braidotti 2014, 35).
La filosofia di Braidotti è distante anni luce dall’ottimismo della ragione, oltre la limitata visione
dell’umanesimo eurocentrico, ella ci spiega che esiste un umanesimo orientale, che il moltiplicarsi
degli studi femministi, postcoloniali, ambientalisti rappresenta un’opportunità per agire dal di
dentro la crisi delle scienze umane, per superare il sistema gerarchico di privilegi ed esclusione che
per secoli hanno sorretto. Il suo è ottimismo della passione, passione per zoe, ovvero amore per la
potenza generatrice della vita in sé, che è oltremodo comune e transpecie. Passione per la
differenza, che, come il limite, non si declina solo al negativo. Il limite, nella pratica politica
femminista della collocazione, è il divenire soglia delle linee di confine: la soggettività è porosa e
non finisce dentro l’io, nelle sue multiple concatenazioni impara il rispetto per ciò che non è.
In questo senso Braidotti ci invita a leggere i limiti: le controsoggettività sono entità ecologiche che
sanno che la vita non coincide con la loro coscienza e ne fanno un punto centrale della propria
prassi trasformativa. Le forze vitali eterogenee e incarnate sono proprio ciò che sfugge ai dispositivi
disciplinari e ciò che biopotere e informatica del dominio si propongono di controllare. La nostra
possibilità di riuscire poggia sull’assunto che zoe è la vita colta nel suo stesso divenire, negli spazi
di mezzo, è interconnessione tra sé e altri, inclusi gli altri della terra: «É di cruciale importanza
cogliere l’interconnessione tra l’effetto serra, la condizione delle donne, il razzismo e la xenofobia e
il consumismo frenetico. Non dobbiamo limitarci ad alcuna delle porzioni frammentate di queste
realtà, ma piuttosto tracciare interconnessioni trasversali tra di esse. Il soggetto è un piano di
consistenza che include territori esistenziali territorializzati e universi incorporei
deterritorializzati» (Braidotti 2008: 48).
E questa prospettiva pare funzionare, a patto di non fare confusione. Non facciamo la carità quando
diciamo che l’acqua, la terra, le donne e le tartarughe hanno dei diritti. Facciamo giustizia. Occorre
farla finita con l’appropriazione indebita da parte dell’“uno” a svantaggio delle differenze,
molteplici e incarnate. È tempo di no profit e diritti collettivi, è tempo di dotare le soggettività
postmoderne di un’etica nomade che le renda capaci di stima e cura per le diversità biologiche e
culturali, di amore capace di preservare e migliorare i beni comuni.
Il mondo naturale e il mondo macchinico avranno pure delle loro verità, anche se non le esprimono
nel linguaggio proprio dell’uomo, e una di queste è che noi non siamo solo esseri umani, ma la vita
tutta, disseminata ovunque vi sia potenza generatrice.
BIBLIOGRAFIA
De Beauvoir, S. (2008). Il secondo sesso. Milano: Il Saggiatore.
Balzano, A. (2014). Soggettività autonome. Corpi e Potenza da Spinoza al neofemminismo.
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