da adateoriafemminista.it, n° 2, gennaio 2007
Non molto tempo fa, in testi che oggi vengono riletti e forse anche capiti, uno dei più significativi pensatori del Novecento sostenne che ciò che rende possibile la presa del potere su di noi è la sua parte invisibile. Tutti analizziamo in un modo o nell’altro il potere, un potere, o ciò che crediamo lo renda possibile; e misurandoci in questo rapporto lo comprendiamo e lo crediamo effettuale nei modi con cui ce lo spieghiamo; solo che le spiegazioni, le analisi che effettuiamo sono relative a quegli aspetti per cui il potere ci risulta, in fin dei conti, tollerabile. L’eventuale intollerabilità, le forme insostenibili che rendono effettivamente precarie le nostre esistenze non le scorgiamo, e proprio questa nostra cecità rende possibile ad un potere di investire le nostre vite. Se si parla di forme di potere, se ne parla dove già si è acquisita una resistenza, una risposta, un’affermazione contraria, per il resto, il non vedere o il non capire non sono solo una difesa, ma esattamente il varco attraverso cui noi diveniamo disponibili ad un potere inusitato. Ciò che ci accade oggi continua ad avere lo stesso procedimento: quanto fa funzionare una gestione di potere è il fatto che non lo scorgiamo per dove è, pur continuando a essere solleciti nel denunciarlo dove ormai occupa zone di relativo interesse, poco calde, si potrebbe dire. Giustamente, ed io stessa l’ho evidenziato nel Seminario di quest’anno di Diotima, a Verona, si considera la politica di donne legata ad un modo di essere che non la vincola ai criteri della rappresentanza, e che può perciò considerare tutto l’apparato del parlamentarismo come qualcosa che ne intralcia la comprensione e che soprattutto non ne può rappresentare lo stadio più maturo in cui dovrebbe trovare il vero sbocco. Insomma tutta la politica della rappresentanza -o rappresentazione- di genere è una politica fasulla che non si lega ai tempi e ai modi di una libertà femminile che ha costituito e costituisce il nucleo della politica di
donne. Lo sappiamo, ma vale la pena di ribadirlo soprattutto in alcuni luoghi, come quelli in cui sono presenti componenti di commissioni di pari opportunità che cercano poi di riprendere, tra le fila di discorsi sulla differenza, i nessi con la politica tradizionale e la rappresentanza di genere. Ma è solo questo ciò che si rende visibile in queste commissioni? nelle attività legate alle pari opportunità? Credo che dobbiamo scartare il visibile per avere il coraggio di guardare la reale composizione di ciò che lì si pretende di attuare.
Sempre lo stesso pensatore che citavo prima, cioè Michel Foucault, suggeriva, riferendosi all’Iran dello Scià e delle spartizioni dei proventi nella famiglia reale o in certe istituzioni vicino alla corona, che sarebbe stato opportuno fare nell’Occidente una storia della corruzione e dei suoi meccanismi. A questo vorrei aggiungere che il femminismo ci ha insegnato che per esaminare questi aspetti, occorre però cogliere, prima, cosa hanno fatto fuori; nel senso che le corruzioni, le reazioni, lo stato di cose che si gestiscono nell’illegalità non sono interessanti per ciò che evidentemente mostrano, cioè un esercizio di dominio, o una forma d’arricchimento, ma per il fatto che prendono piede non propriamente sulla negazione della legalità, ma la producono perché hanno eliminato qualunque senso della politica legato alla forma viva di questa. Così noi abbiamo letto i modi dei poteri e la corruzione a questi interna quando abbiamo esaminato le procedure di esclusione di donne, con tutto ciò di cui erano portatrici in termini di innovazione del pensiero. C’è sempre una corrispondenza, quasi una parallela, obbligante, causalità, tra ciò che viene fatto scomparire e la corruzione che ne segue. E forse gioverà ricordare come siano stati corrotti i termidoriani dopo aver sommerso la rivoluzione francese nel sangue – e sono stati loro i veri
artefici di un massacro senza precedenti . Ecco, è da domandarci chi sono i termidoriani, o, meglio, le termidoriane di turno e che cosa hanno in comune, cosa gestiscono che le rende così apparentate alla cultura del Sistema. Perché, per ritornare alla questione iniziale, è del tessuto del Sistema e dell’ovvietà di comportamenti che da esso derivano, come parte invisibile ed operativa di un potere, che non si tiene conto. Si tende a negare ciò di cui consiste e ci si rifiuta di pensare che le istituzioni, qui a Napoli, ne possono essere intrise, e, quando si parla di donne, ci si rifiuta di analizzare ciò che accade quando si entra in settori istituzionali, preferendo l’intervento polemico che lavora sul sicuro e serve ad arginare sempre e solo la questione della rappresentanza di genere. Si cela così il fatto che sia subentrata una nuova procedura, in questi spazi delle politiche rivolte alle donne e nelle pari opportunità, che soppianta la precedente che era inserita nelle categorie e negli usi politici dei partiti e nelle politiche istituzionali, per proporre una differenza di genere che non risente, come prima, di un’incapacità di comprensione della libertà femminile, ma la sottomette ad una manipolazione che la depotenzia e l’annulla utilizzando una logica esemplarmente apparentata con quella d’ ‘o Sistema.
Prima di spiegare i motivi che legherebbero in maniera così affine le due logiche, voglio momentaneamente soffermarmi su elementi ovvi del mio discorso, ma che è bene chiarire per evitare equivoci. I possibili vincoli di certe forme dell’agire politico con le modalità d’azione della camorra, non vanno ricercate sul piano immediato dell’illegalità; che nelle amministrazioni di molte regioni italiane vi sia dell’illegale e che, in particolare, in Campania, molti consigli comunali siano stati sciolti perché sospettati d’infiltrazione camorristica, è cosa ben risaputa, ma non è questo che apre passaggi ed equivalenze. Ciò che va considerato è il peso simbolico di alcune gestioni, cioè che cosa significano questi comportamenti quando li si scorge nella ricaduta soggettiva,e, quindi, quale soggettività costruiscono? E, soprattutto, quale legittimità e forza vincente possono accostare alle esistenze femminili ed al senso che una donna che lavora nelle istituzioni ha di sé. Per capire, occorrerà scalzare anche un’altra parentela facile che connette il governo della città di Napoli con un’abitudine a far occupare posti negli assessorati o e nelle commissioni -che si moltiplicano vertiginosamente- a persone familiari, vicine, intime, conosciute, affidabili in termini di consenso, indipendentemente dal fatto che abbiano vere competenze. E questo spiega perché, in seconda battuta, divenga urgente cercare consulenze esterne. E forse anche su queste e sulle remunerazioni ottenute, si potrebbe intervenire. Insomma persone e distribuzione delle risorse all’interno di una cerchia che, prima di costruirsi per capacità di governo, è messa su per capacità affiliativa, per essere riflesso di un “proprio”. E, se questo ha una rilevanza per l’analisi del nostro presente e potrebbe farci invocare l’utilizzo di quelle categorie immunitarie di cui parla un noto filosofo napoletano, Roberto Esposito, e che corrispondono all’ossessiva difesa di un interno o di un proprio, neppure da questa parte intendo segnare la complicità tra alcune istituzioni “femminili” con le gestioni d’’o Sistema. Per capire occorre fare un passo indietro ristretto a questo “insieme” chiamato ‘o Sistema che permette di scorgere come in un accrescimento patologico, quelle stesse funzioni e quelle costanti che fanno il tessuto dell’imprenditoria neoliberale. Si tratta di cogliere che ciò che fa il sistema è antecedente alla sua coalescenza in quel pachetto imprenditoriale costituito dalla camorra e che per coglierne la portata simbolica occorre accorpare due modi che funzionano all’unisono. Da una parte, il registro imprenditoriale, il mercato e la concorrenza, tutto quello che riguarda il gioco diretto dei processi economici; e dall’altro, la volarizzazione del vivente, la sua significazione, il suo valore, letto in chiave evolutiva, cioè la promessa d’ individuazione di una tendenza vincente. Da tale somma, da tale intreccio, viene fuori un’ economia che investe la vita, tanto che non solo le modalità del vivente possono essere composte, lette ed indirizzate dalla voce economica, ma che l’essere homo oeconomicus si crede divenga espressione ed avvio di una nuova speciazione umana, più evoluta, e destinata a dominare. Questa indissolubilità ottenuta fa funzionare all’unisono i due momenti fino a quella posizione estrema attuata dall’imprenditoria camorristica, dove gli errori economici divengono cadaveri e dove l’eliminazione della concorrenza o la distruzione della concentrazione monopolistica non sono termini metaforizzati, ma contano nella loro letterarietà e, con la naturalezza di un processo biologico, producono morti.
C’è da domandarsi perciò se le premesse che agiscono nel Sistema secondo valori simbolici siano da ricondurre a questo sistema camorristico o se non vadano ricercate nell’ambito di una dimensione economica che ha preso strade interne al vivente, pur modellandosi secondo criteri interni a uno specifico modo di gestione dell’economia. Se il percorso tocca l’ interno delle vite come una promessa di qualità e valorizzazione, risulta evidente che la camorra non si muove essenzialmente per far guadagni come da più parti, anche istituzionali, si dice utilizzando i criteri dell’arricchimento come se fosse possibile servirsi di categorie non ancora economiche quali il computo di ricchezze; è perché la dimensione economica- ed una forma particolare di questa, come dirò di seguito- fa tutt’uno con la qualità della vita e con il riscatto da esclusioni che confinano in
residuo inservibile d’umanità, che la sponda di quel che già compare nella vita sociale, e che la camorra esalta fino a farne un carattere distintivo, riesce ad aver presa come modello presso i nuovi esclusi.
Qualcosa si è così naturalmente insinuato nel nostro vivere e in modo così invisibile che riesce difficile coglierne l’estensione e la portata. Del resto è del potere, come già ho detto riprendendo Foucault, il rendersi tollerabile nella misura in cui crediamo esprima ciò che sappiamo e possiamo fronteggiare, ma di fatto il potere ha presa perché non è percepito nel modo in cui è. Così se guardiamo a noi, senza usare il “Sistema” come unico punto in cui si incanalano estreme pressioni, ma lo lo consideriamo come un laboratorio in cui si esaltano elementi che fanno parte della vita comune, possiamo cercare di capire cosa significhi un legame tra imprenditoria e vita.
Innanzitutto, quello che viene esaltato all’interno dei nuovi sistemi simbolici legati all’economico, non è un modello ripreso dal liberalismo che in genere vede il suo asse ruotare intorno a significati quali l’effetto-merce,lo scambio, il consumo, cioè quindi un mercato contrassegnato, o dal lasciar fare, come se il gioco diretto degli interessi economici fosse in grado di produrre, per inerzia,
un regolazione, o, invece, da una richiesta diretta di un intervento dello Stato che può andare da modi molto contenuti fino a forme di pianificazione; e quest’ultima voce, con la necessità di creare posti di lavoro, fissare i prezzi e sostenere il mercato, si presenta spesso come una compensazione all’interno del liberismo. Questo insieme di punti è ciò che crediamo sia la regolazione mercantile e capitalistica che offrirebbe anche alle donne l’occasione di un movimento più diretto, meno controllato, ed aperto alle vicende dello scambio. Ma siamo veramente qui? o non dobbiamo renderci conto che non è un modello liberale che agisce oggi ma quello del neo-liberalismo ? Quello, appunto, che proviene dall’ordoliberalismo tedesco. La posizione neoliberale fa cambiare
completamente la prospettiva e distanzia le categorie del liberismo: innanzituttto non ci pone di fronte ad un consumo che farebbe assumere alle masse il carattere di uniformità, legandosi a particolari discipline normalizzanti, ma accentua dei meccanismi di concorrenza che non si appellano più ad una regolazione accumunante e si traducono invece in un effetto di differenziazione. Quindi, non più l’uomo uniformato dal consumo, ma l’uomo che s’immette nella concorrenza in base ad un posto di produttore differenziato e specifico. Il quadro non cambia di poco ed è così diverso perché è stato sostituito il piano oggettivo del mercato e dell’economia con quello che si potrebbe chiamare un piano soggettivo: si passa da un registro di scambi e di strutture alla dimensione soggettiva dell’impresa. Infatti nessuna impresa è tale se non inizia dal carattere imprenditoriale che il soggetto deve assumere, anzi dal fatto che si è soggetti solo in quanto si è imprenditori. La possibilità di dichiarare la verità di un soggetto sociale dipende perciò dal suo proporsi come produttore d’impresa e, man mano la cosa si fa sempre più puntuale, dal suo stesso essere imprenditore di sé, tanto che ciò che innanzitutto risalta in tale imprenditoria è che il primo capitale, la prima disponibilità è quella biologica, ed è questo il primo dato d’impresa che occorre avviare. A questo punto è chiaro che l’attività economica fissata nell’imprenditoria diviene il processo in cui è presa la soggettività e, contemporaneamente, anche il movimento biologico del vivente umano; si può dire che la logica d’impresa costituisce e salda i due momenti tanto che in tale condizione neoliberista si potrebbe definire il vivente come l’imprenditore di sé, e l’impresa
come il comportamento biologico adeguato del vivente. Sembrano confluire nel registro di un’economia, che accentua i caratteri d’impresa e quindi di differenziazione necessaria, i sedimenti di un processo evolutivo che consente ai viventi di qualunque specie di trovare una “nicchia ambientale” in cui vivere e riprodursi, in nome, appunto, di una capacità di valorizzare la differenziazione e di promuoversi ; il “trovar posto” di stampo evolutivo si salda con una logica della concorrenza e della differenziazione, e la logica d’impresa fa tutt’uno con la vita di qualità. In tal modo si presentano nuovi razzismi, che più che riguardare razze sono rivolti a riselezionare la specie umana che meriti di vivere. Ed è in tale logica di neo-liberismo, che alcuni autori- tra questi l’economista Becker- seguono l’accostamento dell’imprenditoria alle vite ed ai comportamenti, presentando come “adeguato” l’individuo che mette il proprio “capitale umano” alla base dei suoi investimenti per promuoverlo, per maggiorarne gli sforzi , facendo così di sé “l’imprenditore di se stesso” e rendendosi in tal modo degno di vivere. Ci troviamo di fronte ad una logica d’impresa che non solo mira a dar forma alla società, ma si converte in un’ interiorizzazione personale, una guida
interna biologico-economica che sembra promettere una nuova evoluzione, una misurazione delle vere prestazioni della vita. E qui, le differenze fanno parte del gioco come processi identitari e locali che trovano la strada della concorrenza e dell’impresa, e poi quella del mercato globale e, con questa, quella della vita degna di essere vissuta..
Le imprenditrici di sé
Come si può notare, le differenze incrementeranno un localismo parziale, una vocazione identitaria e la ricerca di stabili attributi con cui nominarle. Che il sistema camorristico, nelle sue caratterizzazioni identitarie e nella serie di comportamenti differenziati e volti ad acquisire qualità di vita superiore, incontri questa logica d’impresa, mi sembra una lettura immediata e suffragata dallo stesso Saviano che batte spesso sull’aspetto imprenditoriale del Sistema. E, tuttavia, se abbiamo fatto questo passo d’analisi verso la logica imprenditoriale, ci viene incontro il rientro di tale logiche nei settori istituzionali, e il modo in cui si fa della vita un’ impresa, e dell’impresa una specificazione che sola sarebbe in grado di offrire “qualità di vita”. Questo forte affiorare di capacità d’impresa in molte donne che lavorano in istituzioni regionali o universitarie, in una città come Napoli, dove risulta diffusa una mentalità che relegando la camorra in una questione di “far soldi” è poco attenta agli aspetti simbolici del Sistema ed alle sue prese, dovrebbe essere un punto d’interrogazione, se non di sospetto. Credo che l’accentuarsi di una logica d’impresa, fino nei suoi paradossi, nel mondo femminile delle istituzioni, trascini dietro una strana parentela con le rivendicazioni simboliche del “sistema” e costituisca un particolare contatto tra le insicurezze femminili e la voglia di dimostrare una qualità di vita adeguata, superiore, lanciata nel futuro ed in grado di far sentire la rivincita, la capacità, lo scarto di qualità, la differenza. C’è spesso, occorre dirlo, una qualche ostentazione “biologica” che fa tutt’uno con una certa aria manageriale. L’avvio in tale capacità d’impresa, per queste donne istituzionali che si occupano di donne, è quasi sempre una subalternità a quell’ordine simbolico che il maschile produce e riproduce nei luoghi del politico e del sapere, e queste donne occupate dal fare formazione, mettere su dottorati di genere, rivelano nei fatti, nelle dichiarazioni, negli studi e nei riferimenti una sottomissione alle regole discorsive dei politici e dei docenti che non solo non viene mai questionata –poco oggetto di autocoscienza- ma è esorcizzata attraverso le uscite in pubblico su i temi della differenza sessuale che consentono loro di nascondere, o meglio, di misconoscere la sudditanza da cui pure parlano. Eppure è facile notare che tutto ciò che in questi pacchetti formativi – lezioni, conferenze, raccolta e cura di articoli- sostiene l’impresa è la capacità di ottenere una confezione discorsiva che vale perché è disincarnata e non viene mai ad un confronto diretto con il pensiero vivo del femminismo. A volte si fanno passerelle di pensieri al femminile, giocando su equivalenze che appiattiscono il pensiero in una sorta di epifenomeni discorsivi senza dialogo né interlocutrici; altre volte si confezionano programmi di ascolto del pensiero della differenza, senza un avvio che nasca da un lavoro
collettivo di ragionare e di comunicare, ma solo per poter trovare parole, condivise e da inculcare, che più che altro sono utili alle imprenditrici istituzionali di pari opportunità o alle docenti di “genere” per assicurarsi una possibilità di dare norme di regolazione a donne che lavorano o studiano con loro e per assicurarsi varie forme di sottomissione. Si potrebbe obiettare che questo modo di fare pervade anche le zone dei politici maschi; ed ovviamente non si può non rispondere che si, ma rilevando una forte differenza: impegnati come sono a difendere alcuni stralci di procedure derivanti da un politico fatto di rappresentanze, computo di consensi, e schermaglie discorsive, se ne stanno tranquillamente in quello spazio che il loro simbolico – non tutto, ma di certo quello che scende a tali livelli- consente loro con agio. Invece per le donne d’istituzioni, lo scacco che continuano a subire rispetto ai giochi ed ai saperi di questi uomini, le spinge a cercare autorevolezza, ma invece di iscriverla in un pensiero vivo, faticoso, attento, la guadagnano su di un piano che chiamerei d’ ”impresa globale” e che vedono come una conquista in termini di prestazione vitale. Sono punti che richiamano la nuova biopolitica neo-liberista e si manifestano con il cercare sul piano simbolico d’impresa la nuova qualifica per la propria esistenza. Questi sono ancora i punti di attenenza con “o’Sistema”, o per meglio dire con ciò che lì è presente e, in certo modo, viene anche prima, essendo diventato per tutti la misura con cui calcoliamo le capacità del vivente. Ed è in questa zona di contabilità che la differenza sessuale si lega ad un corpo virtuale e saturo che non si espone alla singolarità dell’esperienza sessuale, né alla sua scansione simbolica ed al legame che declina il corpo biologico con una zona che è l’eterogeneo di ogni lingua e di ogni discorso come un piano diverso, forse un vero piano estatico, che, oggi, è tutto da scoprire. Si dice differenza, ed invece, attraverso un cerchio di negazioni si punta a qualcosa come una “nuda vita” perché si cerca solo quel valore in più che oscilla tra biologico e capacità diprestazione, cioè impresa.
Qui, in questa rivista, in questo mio legame con altre, nelle scelte che ci accompagnano noi scegliamo un punto di avvistamento, e, sappiamo che non c’è, se non è teorico; vorrei cimentarmi perciò, come sempre, nel solo ambito dove una teoria cammina: in ciò che è materiale.
Dal momento che all’interno dei progetti istituzionali si fanno una serie di operazioni “formative”, e, cosa particolare, in questi dottorati ed in questi seminari, in queste cure di testi e di riviste e in queste operazioni narrative e di studi, persino nelle attività delle pari opportunità ciò che è in primo piano è la scrittura,e dal momento che poi tutto va a rifluire in essa, perché ancora è lo scrivere il
grande fiume solerte e ronzante, quello che non tace e che, a cominciare dall’impero romano, è il gran medium di un’operatività prescrittiva e assordante ( occorre ricordare Paolo e la lezione su di esso del poeta Gabriele Frasca?), così io, obbedendo ad una materialità ineludibile comincio soprattutto da qui. Queste scritture che raccolgono il meglio della posizione delle imprenditrici di sé sono il luogo dove tutto diviene spendibile come pacchetto di attributi, parole conformi, piccole gocce d’identità che servono a sapere chi si è, ed immediatamente forniscono l’ambiente entro cui si riceve un identità di base, di modo che, attraverso l’identificazione, ci si lega al luogo che l’ha promossa, per divenire, in quello, un soggetto di consumo differenziato. Si è imprenditrici promuovendo l’imprenditoria delle altre che fa sempre tutt’uno con l’investimento in termini di identità e di mercato; così la differenza diviene il centro e risalta subitoquando è spendibile attraverso frasi, segni distintivi, parole che ritornano come sequenze e che forniscono il quadro entro cui si è donne. Se questa è la “corruzione”, occorre chiedersi, come per ogni luogo di tal fatta,
cosa ha sospinto indietro, da cosa ci si difende o cosa preclude. E la scrittura ne è illustrazione e sintomo. Napoli è il luogo dove vi sono il maggior numero di riviste, libri, iniziative di donne che si traducono in testi, sovvenzionate dal “pubblico”. E’ giusto? è un handicap? Certo il fatto di essere imprenditrici, in assimilazione al Sistema, vale solo per questa sopravvalutazione dell’imprenditoria come modo di dar valore a vite svalutate, ma poi, per il resto, si cerca solo di
attingere alle risorse offerte dalla azienda pubblica. E cosa accade allo scrivere? Si assiste in alcuni casi ad una frammentazione di frasi, di comparse, di esperienze, così che ciò che viene detto è il modo non di produrre racconto e ascolto, intreccio e separazione, ma di mostrare come ciò non sia più possibile. Significa non cogliere nulla del racconto e dell’esperienza, credere che quelle frasi-baluardo gettate lì da qualcuno/a forse a segnalare una presenza e basta,siano qualcosa di diverso dal tremito un pò afasico di una paura, di un’abiezione. E’ facile, disinvolto ed offensivo contrabbandarli per racconti. E soprattutto è privo di studio e di lavoro da parte di quelle che li raccolgono. Vogliamo dimenticare quanto queste forme di dire somiglino ai fogli-archivi raccolti in manicomi, comunità, case di cura, prigioni? Cosa si fa? Certo non li si restituisce indietro, agli interessati, tali e quali. Ci si cimenta a capire, a interpretare, meglio se con loro, ma bene anche a distanza, per cominciare a far teoria, congetture, su noi, su quello che ci accade, sulla società in cui siamo. Questa è la restituzione necessaria. E la teoria è così. Carla Lonzi suggeriva di alzare il cielo. La via teorica somiglia: è come essere forniti di una scala ed avere la possibilità di allargarsi sui tetti, mano a mano, incontrando un pò a caso altri spazi. Non li produciamo, li incontriamo: sono il terrazzino teorico della vicina, dell’ingegnere a fianco, di quella strana poeta. Non li inventiamo; abbiamo inventato solo la prima scala poi ci cominciamo ad allargare, salendo e scendendo. Non sono spazi nostri, sono spazi che ci capitano, anche se noi sappiamo bene qual’è stato all’inizio il nostro problema, qual’è stata l’iniziale mancanza d’aria per cui abbiamo tirato su una scala. Ho raccontato in tale modo per ricordare Lucia Mastrodomenico che per mesi e mesi mi diceva: «dì così» e rideva.
Vediamo ancora cosa capita alla scrittura da un’altra parte: quella degli studi di genere. Quello che lì capita è l’attributo generalizzato; tutto è argomento di inclusione, solo che si scopra attraverso quali categorie. Queste sono varie e sono al tempo stesso indiscernibili, il centro ora è heideggeriano, ora fa l’occhiolino al postcolonialismo, ora tira dentro il cyborg, la differenza è qui il differito oggetto di un godimento che va snocciolato vestendo ogni volta qualcosa di un’ altra. Ma non come, in ogni caso, fa il bel soggetto isterico che a quel desiderio dell’altra si lega incondizionatamente, anche se a rischio di tanta confusione.
Qui il soggetto è perverso ed entra nei panni di un’altra attraverso il termine stesso “attributi”, cioè con l’ attribuirle-attribuirsi ciò che può essere poi oggetto di consumo e che occorre non sia mai qualcosa che sta veramente lì, in quell’altra, incarnato, creduto, e non prelevabile se non per un contatto che lo attualizza. Se c’è qualcosa di sorprendente e di bello, l’unica cosa che possa capitarci nello scrivere di qualche autrice è riscire a prenderne a volo quella vita che quella sua scrittura regge e fa balzare. Qui, per questi testi sul genere non c’è molto da dire. Inizialmente, forse, la frase di Bourdieu- dal momento che gli uomini sanno avere meno riguardi- rivisitata: si offrono sul piatto della cultura, ormai anestetizzate una serie di autrici temibili, terribili, indomite, perché la cultura raccoglie precisamente, ciò in cui non si crede. E quello che arretra è proprio il pensiero incarnato, quello che muove da un sito per un pò di teoria, quello che conosce il racconto e lo riattiva veloce, accellerato, ampio, lentissimo agganciandolo ad un “provarsi a far teoria” o anche a cercarsi “almeno una teoria”.
Chissà perché, in ada, da questa parte, abbiamo sempre avuto l’impressione, congetturando, di essere molto materiali. Vorrei ricordare invece una piccola disincarnazione perché ancora mi richiama il sorriso di Lucia quando ne parlava. Siama state invitate molte di noi femministe napoletane da una di queste filosofe del genere di Napoli, che ci chiedeva di fare un “insieme”- non saprei dire meglio- in vista della manifestazione sulla procreazione assistita, e, nel momento in cui ci veniva chiesto di aderire ad una sigla, ci veniva anche comunicato che noi, tuttavia, non avevamo alcun valore di interlocutrici, che questa persona aveva altrove i suoi riferimenti. A qualcuna
scappò la frase, ingenua e sapiente: «Allora perché ci hai chiamato?». Va aggiunto che veniva segnalato da questa filosofa, rispetto al nostro comportamento di pensiero da “militanti“ di tipo verticale, cioè che riconoscono l’autorità femminile, l’atteggiamento che lei preferiva: l’ascolto, l’attenzione, la cura rivolta a chiunque, la valorizzazione di qualsiasi donna, in una dimensione orizzontale.. peccato, che in una giornata molto fredda ci avesse fatto aspettare fuori della sua impresa, a lungo; e lì, non c’era per noi neppure un bicchiere d’acqua. Evidentemente, il chiunque non diviene il colui che “si desidera così come è”, il quodlibet, il comunque amabile, diviene piuttosto una specie di nessuno. Evidentemente, segue le sorti di quell’altra della scrittura. Un pò mutilata, un pò predata, un pò cancellata.
Vogliamo fingere che non ci sia conflitto tra un pensiero di teoria e di avvistamenti e questa “differenza delle istituzioni”? Veramente crediamo che non ci siano distanze notevoli qui, a Napoli? Stupisce che alcune “visitatrici” non le colgano. Forse, perché qui si sta giocando una partita che illustra anche ciò che accade o può accadere altrove. E del resto, anche qui, l’usuale macchina
antropologica fa la sua parte, attraverso giochi di esclusioni o di parziali esclusioni che servono a tenere in sospeso, a controllare, a far ruotare piccoli domini. Lucia conosceva nelle pari opportunità questa sorte di parziale possibilità che le veniva offerta, sapeva di essere una che cercava di liberare sempre un pò di vita e che questo, proprio questo, è rifiutato perché è doloroso. Ma lei -io non scelgo per me il suo atteggiamento- guardava sempre alla possibilità di un risultato, indipendentemente da dove. Io bado al contenitore. Lei, invece, si muoveva con immediatezza. A Napoli teneva, ed alle sue donne. Comunque. Uno spettacolo, almeno… incontri, come quelli che aveva preparato con la collaborazione dell’autrice di programmi radiotelevisivi femministi Loredana Rotondo, e che sono stati doni per tutti. Se torniamo alla materialità della scrittura, anche e soprattutto con una percezione fatta d’immediatezza, questa cultura di donne, che ci viene presentata attraverso queste due scritture legate a forme istituzionali, funziona proprio perché non chiede di essere presa sul serio: è precisamente quell’insieme di riferimenti a cui non occorre credere, ma che devono combinarsi per dare l’identità, lo stile di vita, la sicurezza di un genere, a cui, per motivi di salute e quasi terapeutici, è bene aderire. Una confezione che ci viene consegnata producendo la stessa noia con cui ricompaiono i vestiti nei pacchi delle lavanderie. Ma non siamo seccate da quest’insieme di paccottiglia umida che si riesce a tirare da splendidi testi di altre donne? Tutto un via vai di bassa letteratura per far passare compitini che invitano ad un automatismo di gesti, un ordinato angolino di ricevimento, un’accortezza avara d’investimenti, sul cui fondo ruota la terribile imprenditoria del vivente. Non occorre fantascienza per sentire qualcosa che sembra provenire da un testo di Philip Dick, entro cui lo scrivere di queste imprenditrici di sé si dispiega in cassettine riservate alle parole da inserire e controllare per tenere ben fermo un genere attraverso frasette prendibili, afferrabili, e riproducibili. E questa è la scrittura del “Sistema”.
Che ci sta per noi di fronte ad un “Sistema” che solo una rimozione ostinata e cieca non ci fa osservare? Forse un passo leggero. Quello di Lucia che tocca i punti segreti dell’amore. Li cita per il fatto che non sono spiegabili; che stanno stretti in un pugno infantile, come una stella segreta. Ben vengano gli scritti colmi, pieni di citazioni, divaganti, spessi, con curve estatiche ed indecifrabili,
con spinte fragorose, incredibili, inesausti. Che si smorzano, si spengono e si riavviano. Oscuri, che non da altro giungono se non dalla generosità di qualcosa che non è toccato mai. Da un segreto noli me tangere.