Archivi dei sentimenti e culture pubbliche
di Pamela Marelli
Si è tenuta a Duino, presso Il Collegio del Mondo Unito dell’Adriatico, dal 25 giugno al 1 luglio 2011, una scuola estiva dal titolo “Archivi dei sentimenti e culture pubbliche”
sostenuta, tra gli altri, dalla Società Italiana delle Letterate e dall’associazione il Giardino dei Ciliegi. (per tutti i dettagli http://www.interculturadigenere.org)
La scuola è il frutto di un nuova progettualità, nata dai semi diffusi dal laboratorio interculturale Raccontar/si (http://xoomer.virgilio.it/raccontarsi/), e intreccia le energie di diverse studiose appassionate dagli archivi della memoria e dalle scritture del sentire.
Quella che segue è una delle possibili restituzioni pubbliche, un personale archivio dei sentimenti delle giornate di Duino.
L’intervento che ha aperto la scuola e segnato chiaramente il suo approccio politico è stato “Gli archivi dal mare salato”di Clotilde Barbarulli, intervento che mi ha molto colpita e che stimola riflessioni continue. Il tema è quello delle persone migranti morte in mare, dei naufragi nel Mediterraneo, delle politiche neoliberiste che portano a tali stragi. Le acque del Mediterraneo sono diventate archivi delle emozioni, archivi del dolore che ci invitano a “ripartire dalla materialità delle singole esperienze di corpi dal desiderio negato”. Nei telegiornali scorrono immagini di barconi che approdano sulle rive italiane, variano le cifre delle persone morte e di quelle salvate; i volti inquadrati, “volti di donne e uomini che hanno progetti e speranze, soggettività non solo vittime”- ci ricorda Clotilde- sono volti che disvelano il volto sociopolitico del liberismo odierno”. Dai frammenti dei resoconti giornalistici si può trarre “una nebulosa di contro-narrazioni, scenari inquietanti che pongono domande alle rappresentazioni e retoriche g-locali della politica ufficiale”.
Di fronte ad un potere politico che tende a governare il fenomeno migratorio espellendo, respingendo, deportando, che “si serve solo di una scrittura “segnaletica”, in sintonia con il proprio compito di vigilanza globale sino a decretare la fine dell’archivio nella registrazione delle morti, rispondono storie non archiviabili che si ribellano alla impossibilità di una Storia tradizionale, e che richiedono una storia di fratture e discontinuità, attimi di racconto captati e ascoltati in altre lingue”. Si tratteggia così un possibile archivio salato del mare, che contiene le storie di chi in quel mare si è perso, di chi al viaggio è sopravvissut*, dei familiari rimasti là. “E noi che ascoltiamo, che leggiamo, che vediamo, in disaccordo col potere, -ci sollecita Clotilde- quale archivio abbiamo per i nostri sentimenti verso tali eventi?”.
Di fronte a questi corpi rifiutati, questi corpi immondi, esclusi socialmente, di fronte alla realtà lavata con parole menzognere, violente, guerreggianti, come ci poniamo, che culture pubbliche agiamo?
Come ricreiamo un “mare nostrum”, una società dove sia possibile convivere tra differenti?
L’intento della scuola di Duino era quello di indagare l’archeologia degli affetti, le modalità con cui le strutture politiche utilizzano sentimenti ed emozioni al fine di creare culture pubbliche e comunità; di come sia possibile attivare gli affetti per creare forme di resistenza. “Quali cartografie rappresentano uno spazio culturale tanto complesso come quello odierno? Quali contro narrazioni, quale intercultura e ascolto dei sentimenti nell’attuale cultura egemone che cerca di occultare diversità e diseguaglianze sociali?”.
Liana Borghi nel suo intervento “Dagli archivi della diaspora” ha analizzato i legami affettivi e le produzioni di culture pubbliche nello spazio diasporico delineato da alcune scrittrici come Dionne Brand e Saidiya Hartman. Si è parlato di schiavitù, di perdite, traumi, ferite, rifiuti umani, recupero delle origini, senso di appartenenza, della vergogna e del tabù di dirsi pubblicamente discendenti degli schiavi. “Ogni fenomeno storico genera i propri legami affettivi, trappole o possibilità che siano” ci ricorda Liana. Il corpo è un archivio, una produzione di percorsi storici diversi. “Ma i corpi – scrive la Hartman- dove li hanno messi i segni della schiavitù?”. Come vengono rappresentati oggi le storie ed i luoghi della schiavitù?
Nelle diaspore, le storie intime ci confrontano con i limiti ed i vuoti degli archivi materiali, di fonti che non esistono più, che sono irrintracciabili.
Le storie di spossessioni –secondo Liana- possono aprire modi di immaginare la collettività oltre l’orizzonte della decolonizzazione e dei diritti civili, possono creare contro- pubblico, una sfera resistente alla cultura pubblica dominante, che propone ad esempio viaggi in Africa nelle zone segnate dalla schiavitù come fossero attraenti forme di turismo etnico ed esotico.
Nella settimana della scuola estiva, i numerosi complessi temi toccati negli interventi introduttivi sono tornati più volte intrecciandosi. Si è discusso di come uscire dalle passioni tristi, di come resistere agli stereotipi neocoloniali della società italiana, di come creare immaginari e scenari politici altri, storicizzando e rivitalizzando il legame tra pubblico e privato.
Si è affrontato da più punti di vista il tema della casa, la necessità di contestualizzare e risignificare il ruolo avuto dallo spazio domestico nelle diverse fasi storiche: la casa può essere spazio di resistenza e sovversione, come narra bell hooks rendendo omaggio alle donne nere. La casa è un possibile spazio creativo dove si apprende, secondo Sandra Burchi, l’arte di non coincidere col posto e col ruolo che ci viene assegnato.
Abbiamo spaziato dal Sudafrica alla Jugoslavia, dal variegato mondo arabo ai mari caraibici ragionando di identità, guerre fratricide, senso di appartenenza, straniamento, creolizzazione, costruzione di nazioni. Si è ripercorsa la storia di Trieste, come luogo simbolo di confini ed attraversamenti, di storie dolorose di frontiera. A ciò è legata la necessità di un terzo spazio, estraneo alla logica identitaria di appartenenze rigide ed aperto allo scambio, alla contaminazione, alla creazione di luoghi condivisibili, uno spazio di appartenenze plurime.
Alla fine della settimana le partecipanti sono state chiamate a raccontare di sé, dei temi della scuola, attraverso un oggetto. Chi ha parlato di una poesia, chi di una penna, di un abito della madre, di vecchie fotografie, di un racconto sui collettivi femministi frequentati negli anni ‘70, del foulard della nonna, chi di un paesaggio, chi di un libro annotato a più mani, chi di un collage, di uno scrigno, di una poesia, chi di un quaderno. Ciò ha creato un clima di intimità e condivisone, sentimenti ed affetti hanno trovato un accogliente luogo di ascolto ed empatia. Gli oggetti sono pregni delle nostre storie personali, intime ed allo stesso tempo globali, dicono di noi, come null’altro potrebbe. Gli oggetti racchiudono mondi, testimoniano relazioni, dicono delle culture materiali che ci abitano; gli oggetti ci sopravvivono.
Grazie alle narrazioni gli oggetti affettivi sono diventati il nostro condiviso archivio dei sentimenti e delle culture pubbliche.