Di Anna Simone
Nel 1986, in “Actes de la recherche en sciences sociales”, usciva in Francia un saggio importantissimo di Pierre Bourdieu sulla forza del diritto, ma anche e soprattutto sulle sue nefandezze, sulle sue contraddizioni e sull’impossibilità reale di leggere il medesimo al di qua delle categorie della sociologia dei conflitti o al di là dei soggetti coinvolti. Non v’è, infatti, testo socio-giuridico o filosofico-giuridico contemporaneo –quantomeno quelli che si rifanno alla tradizione del pensiero critico- che non l’abbia citato in questi anni. Eppure non era mai stato tradotto, almeno fino a qualche mese fa. Grazie al lavoro e all’impegno certosino di Cirus Rinaldi, “La Forza del diritto. Elementi per una sociologia del campo giuridico”, è ora disponibile in italiano, in una edizione impreziosita da una cospicua introduzione dello stesso curatore (Armando Editore, pp. 125). L’importanza e la forza di questo scritto di Bourdieu non è solo interessante per la cultura giuridica interna ed esterna, o solo per la sociologia, ma è anche e soprattutto dirimente per chi, come noi, ha a cuore la prospettiva del “femminismo giuridico”, ovvero quell’idea di base, quell’approccio al diritto e al mondo basato sulla decostruzione del suo carattere positivo, generale e astratto a sua volta fondato sull’universalismo maschile, a scapito dell’interpretazione e della funzione simbolica che il diritto svolge relazionandosi alla società e alla dimensione del posizionamento delle singolarità degli attori coinvolti.
Se il concetto di status, ad esempio, nato con il Codice Napoleonico nel 1804, attribuiva per la prima volta alle donne il ruolo di madri e mogli, di fatto stigmatizzandole e costringendole ad essere solo “soggetti-oggetti” del diritto di famiglia, il concetto bourdieusiano di habitus –inteso come l’introiezione delle strutture mentali in grado di posizionarsi all’interno dello spazio sociale, segnato dal rapporto tra dominati e dominanti, possiamo utilizzarlo oggi per segnalare quanto, di fatto, il diritto ricorra ancora a forme di identitarismo stigmatizzanti nei confronti di tutte le differenze. L’habitus, infatti, a differenza dello status, può assumere anche una funzione conflittuale e generativa, nonostante risponda comunque e in ogni caso al bisogno classificatorio dell’ordine sociale e della sua traduzione nell’ordinamento giuridico. Una posizione che troviamo assai esplicitata anche in gran parte delle teorie legate all’approccio del femminismo giuridico, comunemente annoverate anche all’interno del variegato arcipelago dell’anti-formalismo.
Altrettanto fondativo è il suo concetto di “campo giuridico”. Qui –come ci spiega bene anche Cirus Rinaldi nell’introduzione al testo- per “campo” si intende soprattutto la capacità di generare uno spazio a partire da una rete di relazioni, anziché da un luogo fisico, e dunque il “campo giuridico” non è altro che uno spazio attraverso cui ridisegnare continuamente i propri perimetri e i propri s-confinamenti interpretativi. Il femminismo giuridico, dunque, può generare campi inattesi e imprevisti nei confronti del diritto stesso risignificandolo dall’interno, per ricalibrare anche il rapporto che intercorre tra ordine sociale, ordine giuridico e potere simbolico. Se è vero che lo Stato impone la propria volontà di dominio ai dominati e che in parte esercita un monopolio di violenza simbolica legittima attraverso la Legge –per usare le parole del sociologo e filosofo francese- esattamente come per secoli ha fatto il dominio maschile (altro testo fondamentale di Bourdieu) è altresì vero che la giurisprudenza e la Giustizia possono rovesciare quel simbolico rimettendo al centro il conflitto per de-naturalizzare questo approccio.
Bourdieu, quando scrive questo saggio ha in mente la sociologia come potenza del rovescio simbolico del potere giuridico, certamente non il femminismo. Tuttavia il suo posizionamento critico è senz’altro quello più prossimo, di cui disponiamo al di là della letteratura femminile e femminista sull’argomento, alla messa in crisi, anche attraverso il linguaggio, dell’idea di una norma in grado di fabbricare e classificare le identità sociali al solo scopo di detonarle della loro funzione eccedente, al solo scopo di “normalizzarle”. Cosicchè se il linguaggio giuridico ci appare dotato di potere definizionale, costitutivo e performativo, è altresì vero che per questa sua natura di nominazione si presenta agli occhi dei sociologi, e del femminismo –aggiungiamo-, come un simbolico che aspira a dominare senza mai accorgersi di essere a sua volta dominato. Confonde, cioè, oggettivazione e soggettivazione sino a rendersi un sistema chiuso e tautologico, ma il suo stesso formalismo -gestito attraverso l’autorità degli ordinamenti nazionali e internazionali- se messo in pratica trasforma lo stesso testo giuridico in qualcosa di assai assimilabile ad una impostazione filosofica, letteraria e financo magica. E’ un campo, appunto, non un sistema, ed in quanto tale fragile nella sua postura universalizzante. Fragile nella sua messa alla prova pratica, più che nella finta forza espressa dalle teorie della scienza giuridica.
Spesso, anzi spessissimo, i giuristi puri e positivisti sostengono che la società non conta niente rispetto alla produzione giuridica o comunque si sforzano assai poco di comprenderla. I meno avvezzi a questa impostazione, invece, ritengono che il diritto è sempre un passo indietro rispetto ai mutamenti sociali; così come molti continuano a vedere nel costituzionalismo l’ultimo baluardo di riferimento da cui attingere per avere le dovute rassicurazioni sulle fonti giuridiche primarie. Nessuna delle tre posizioni, naturalmente, ha mai preso in considerazione il femminismo giuridico come chiave di lettura e di rovescio di questi grandi discorsi sul diritto, e in pochi –quantomeno tra i giuristi puri- devono aver studiato questo piccolo saggio di Bourdieu.
Questa restituzione in italiano che ci regala Cirus Rinaldi è, invece, un punto di svolta fondamentale nelle politiche della traduzione perché può aiutarci a comprendere la forza del diritto e il suo simbolico in un’ottica che assume le sembianze di un piccolo scrigno di piacere, desiderio e conflitto da esercitare per mettere in crisi il tecnicismo giuridico di ritorno. In un’epoca in cui i luoghi comuni favoriscono ciò che Bourdieu chiamava doxa, a scapito della conoscenza e della comprensione dei fenomeni giuridici e sociali, questo piccolo ma fondamentale libro, peraltro scritto da un uomo femminista, pare quasi una manna dal cielo o, se vogliamo rimanere con i piedi per terra, un sassolino da lanciare contro la stagnazione del formalismo giuridico a cui ci costringe la democrazia procedurale o l’onnipervasività dell’amministrativismo della governance su scala globale o, ancora, la retorica dei cosiddetti “diritti differenziali” che costringono l’Altro/l’Altra ad essere sempre tali per imposizione giuridica.
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