5finesettimanadipolitica: l’idea nasce dalle riflessioni di Pina Nuzzo e Federica Giardini al termine della scuola politica dell’UDI del 2009, con l’intento di proseguire alcuni scambi già avviati. Nascono così i finesettimana di politica, svoltisi da novembre 2009 a maggio 2010: da questi incontri è nato un quaderno.
Come ha scritto Pina Nuzzo nella presentazione a questo quaderno, ciò che ha animato alla base i finesettimana è stata “una diffusa apertura di credito”: una trasformazione dello stare in presenza come pratica irrinunciabile per le donne, ma che per avere valore deve mutare e stare al nostro passo, non fermarsi ad una formula fissa. Il passo fatto in questa occasione muove dalla consapevolezza che la politica delle donne crea interesse anche nelle più giovani, e che un confronto con esse sia necessario, anche se talvolta complicato. Davvero interessante la struttura degli incontri in cui alle narrazioni a partire da sé di alcune giovani segue una restituzione finale di una donna più grande: una formula stimolante, capace di tenere insieme l’esperienza e l’ascolto di tutte.
Per quel che riguarda il primo tema, che ne è del rapporto con donne che non fanno già la (mia) politica?, Angela Lamboglia si interroga sui diversi approcci delle donne alla politica (tra chi la fa e non la fa) e rintraccia nella distanza di molte donne (soprattutto giovani) da essa una delle conseguenze del femminismo italiano: lontano dalle istituzioni e dai luoghi di studio canonici ha conquistato e mantenuto la sua libertà, ma al contempo non ha trovato spazio per allargarsi e contagiare altre donne. Laura Colombo invece ci propone un’esperienza di politica femminile: il sito della Libreria delle donne, spazio vicino ma distinto dalla storica libreria di Milano, è una dimensione creata da donne che hanno desiderio di relazionarsi con altre che hanno fatto il femminismo ma senza centrare il proprio pensare sul già detto o il detto da altre. Come sottolinea Colombo oggi il partire da sé non è solamente pratica di autonomia dallo sguardo maschile ma anche di differenza tra donne che affrontano il presente partendo da storie ed esperienze diverse. Interessante come per entrambe le relatrici la questione centrale da riflettere sia la relazione: sia che si tratti di donne più grandi, sia di coetanee, le relazioni sono per natura instabili e precarie; a seconda dell’attenzione che si riserva loro, possono essere tanto motivo di ricchezza e fertilità quando di precarietà e isolamento.
Il secondo tema ha posto la domanda cosa voglio dal luogo di (o dal) lavoro? Serena Ballista e Chiara Marzocchi hanno presentato i risultati di un’indagine svolta tra le donne modenesi, a cui è stato chiesto come percepiscono la precarietà. Sono interessanti alcune riflessioni che ne sono nate: innanzitutto il nesso tra precarietà e sterilità, in quanto incapacità psico-fisica di dare la vita; inoltre, se quasi tutte le donne che si sono sottoposte al questionario si sono dichiarate simpatizzanti dell’UDI e in vari modi attente alle tematiche di genere, le più giovani hanno dimostrato una grossa confusione in tema di discriminazione di genere denotando scarsa consapevolezza.
La narrazione di Maria Grazia Dell’Oste rintraccia il desiderio come punto focale dell’analisi sul lavoro per parte femminile, ma è Teresa di Martino a rivelarne le ragioni più profonde. Il lavoro, essendo diventato un surrogato dello spazio pubblico come luogo di espressione e partecipazione collettiva, è anche luogo in cui concentriamo le nostre energie per la costruzione della nostra identità. Avendo acquistato questo volto il lavoro si trasforma in un (nuovo) problema: è qui che spazio e tempo pubblico si compenetrano e si confondono con spazio e tempo privato, è qui che saltano i confini tra vita e produzione, è qui che nascono le figure della precarietà (certamente lavorativa, ma ancor prima esistenziale). Un accenno a una questione interna alla riflessione femminile: la flessibilità che è stata salutata con euforia dalle donne, vista come liberazione dal giogo del lavoro fisso creato e pensato su modi maschili, oggi si sta dimostrando un arma di ricatto per le donne che si trovano rinchiuse nella scelta (obbligata) di dire sì a tutto.
Con il rischio di risultare un poco arbitraria, sottolineo quel che mi torna dalla lettura della sezione sui Rapporti con gli uomini. C’è una sostanziale differenza tra le narrazioni e la restituzione: se da una parte, seppur riconoscendo le difficoltà e le impasse in cui a volte si cade, c’è un atteggiamento che riconosce l’importanza del rapporto con gli uomini, nella restituzione invece, come a fare da contraccolpo, si ritrova un tono totalmente differente, una sorta di riproposizione del separatismo che incoraggia ogni donna a prendere su di sé le proprie ferite e quelle delle altre, per lasciare che gli uomini percorrano una strada diversa e parallela (che dovrà risolversi comunque in un rispetto della differenza). Nelle narrazioni penso ci sia qualcosa in più: Sara Gandini ci dice fermamente, sostenuta da Chiara Zamboni citata, come le donne siano un pezzo avanti nella riflessione sulle relazioni e di come gli uomini possano e debbano imparare dalle prime per relazionarsi in modo autentico, per poter partire da un desiderio vivo, non colonizzato dall’immaginario dominante. Anche nel discorso semiserio di Loredana de Vitis su stereotipi corpo e autostima è evidente un incoraggiamento a svincolarsi ancora una volta, ancora di più dal giudizio maschile, ma non lo fa mettendo in questione l’esigenza di questi rapporti quanto facendo leva sulla considerazione che ogni donna ha di se stessa. Eleonora Mineo addirittura mette in rilievo quanto molte di noi possano dire che gli uomini con cui sono maggiormente in contatto siano diversi: siamo in un momento in cui le relazioni con le donne, e quelle con gli uomini riescono a circolare, a non ostacolarsi a vicenda.
Nella riflessione su cosa significa avere un corpo fertile Fabiola Pala sta in connessione con quanto detto precedentemente: ci sentiamo in obbligo a stare al passo con un’immagine di donna sempre perfetta, pronta e disponibile ad ogni tipo di fatica. Sentiamo di dover aderire a quel che è stato deciso da altri. Ma il corpo reclama, ha necessità e si ribella. Quel che emerge a gran voce in questa sessione è che nel parlare del corpo delle donne, fertilità non fa (sempre) rima con maternità. Ce lo dice chiaramente Claudia Bruno, che si interroga sul corpo produttivo, capace, competente nelle pratiche che lo riguardano e di quanto oggi di esso ci sia rimasto; e riecheggia nelle narrazioni di Fabiola Pala e Valentina Sonzini, e anche nella restituzione di Laura Piretti, che ci parlano della fatica del corpo ad adeguarsi a ritmi e tempi di vita che sembrano ignorarlo, quando non viene considerato un ingombro. Che il corpo di donna non sia solo un grembo torna anche quando il tema è la maternità: in tutte le narrazioni è forte l’idea che essa non sia solo problema privato ma anche politico: da più parti arriva la sollecitazione a farne un problema di classe e non solo di genere (allo stesso modo arriva l’avvertimento che esporre troppo il nostro corpo, la nostra parte più vulnerabile, al pubblico ci può mettere, ancora una volta, in pericolo). In ogni caso è da evidenziare come si aprano le questioni sulla libertà, che diventa paradosso: come essere libere di scegliere quando non ci sono strumenti per attuare questa libertà? quando scegliere tutto significa morire di fatica e quando preservarsi significa sentire il peso della rinuncia? Senza dubbio la sezione che apre più questioni.
La breve sezione che tenta di rispondere alla domanda Cosa mi rende felice? è in verità molto carica di spunti: il tema non è semplice, così le narratrici sono andate a fondo in quel che la felicità richiama più propriamente nella loro esistenza, cercando di rintracciare cosa riecheggia all’interno. Sia la proposta di una felicità ‘errante’ di Federica Dragoni che la felicità che scaturisce dal saper provare rabbia di Simonetta Spinelli sottolineano l’importanza della dimensione collettiva nella loro vita, entrambe ci dicono come non ci sia felicità senza la percezione del cambiamento, senza che la vita sia in una continua apertura. È puntuale la restituzione di Federica Giardini, che inserisce questi spunti in un panorama più ampio, che possa suggerire un significato per altre ma che alimenti anche una riflessione politica: l’insofferenza allo stato sociale è qualcosa di tipico nel moderno, un’epoca in cui si è imposta la fusione di libertà e giustizia. A questo punto la felicità singolare diventa un momento essenziale di porsi nei confronti della collettività. È modo tutto contemporaneo di fare leva su di sé per affrontare la società.
In questo quaderno emerge forte come la società non sia ancora in grado di accettare un’immagine che possa spiegare qualcosa delle donne ma che sappia anche stare su ognuna senza schiacciarla: quando ci prova ci butta addosso tutte le sue contraddizioni (che ci vogliono mogli e madri educate e donne forti quando serve) e allora sì che ci schiaccia e distorce, non permettendo più di vedere chi siamo veramente. Ma le donne non hanno intenzione di adeguarsi: la riflessione muove ancora e ancora dall’esigenza di aderire prima di tutto a noi stesse, ancora una volta ritornano cariche di significato alcune parole citate dal Manifesto di rivolta femminile: “liberarsi per una donna non vuol dire accettare la stessa vita dell’uomo perché è invivibile, ma esprimere il suo senso dell’esistenza.” E questo senso dell’esistenza ancora oggi ci lega ai luoghi di donne: questa lettura è testimonianza di come essi abbiano un valore assoluto per la nostra esistenza, per le aperture che ogni volta propongono, per l’attenzione a temi che in questo periodo, neanche per le donne, sono così scontati. Ma tutto ciò, quando non è assuefazione, quando ancora una volta risponde al desiderio di conciliare la realtà con il desiderio, la felicità con la libertà, è rincuorante.
Valeria Mercandino