Carmen Guarino – Non siamo una questione ma una rivoluzione. Sperimentare un’università differente

Sperimentare un’università differente.

  1. Tradizione, memoria e oblio;
  2. Natura, cultura e artificio;
  3. Sesso, genere e relazioni;
  4. Sessualità, parentela e affettività/affetti;
  5. Autocoscienza, soggettività e agency;
  6. Libertà, autodeterminazione ed empowerment;
  7. Giustizia, diritto e diritti.

Sette trii di parole-chiave, per ripercorrere i femminismi saltando dall’antichità ad oggi, con i contributi di ricercatrici, docenti e attiviste e con la discussione collettiva in aula, per tracciare i lineamenti teorico-politici delle questioni di genere. Tre parole-chiave nel senso in cui Rancière le intende, come “nomi della storia”, parole che quindi non richiamano ad un lavoro definitorio ma all’analisi, non esigono etimologie ma genealogie, portano a cambiare il punto di vista con cui si guarda ai processi storici. Parole come ‘olocausto’ e ‘Comune di Parigi’ sono esempi della radicale diversità di lavoro storico che può investire le parole, nel primo caso abbiamo infatti un lavoro di significazione continuo, nel secondo un lavoro opposto, di svuotamento del significato. Tutte le parole del nostro percorso sono in relazione dialettica tra loro, il terzo termine di ogni trio svolge però una funzione problematizzante più che di sintesi o di superamento.

Fare questo percorso sui significati, le storie e le battaglie delle donne ha avuto innanzitutto un valore di intervento politico nel contesto accademico. Mi sembra infatti che questo tipo di percorso ci abbia permesso di denunciare delle lacune, come l’assenza di un’ottica di genere nella nostra didattica universitaria o di politiche concrete negli atenei volte alla tutela della maternità o al contrasto alla violenza (asili nido, collaborazioni con consultori e centri antiviolenza), o ancora l’assenza ancor più grave, come nel nostro ateneo, di semplici pratiche antidiscriminatorie come il doppio libretto per le studentesse e gli studenti transessuali. Questo percorso d’altro canto ci segnala che queste lacune sono sintomatiche: l’istituzione universitaria ancora oggi senza uno sforzo e un’attenzione costante verso questi temi rischia di essere il terreno su cui si rafforzano stereotipi e ruoli di genere socialmente imposti, vere e proprie ‘gabbie di genere’; basti pensare alle differenze che persistono tra iscritte e iscritti tra facoltà umanistiche e scientifiche. In tal senso non stupisce la partecipazione quasi esclusivamente femminile al nostro laboratorio ma mi pare sia sicuramente un dato da non considerare inevitabile o banale, un punto su cui occorre invece tornare a interrogarsi.

Sperimentare un’università differente vuol dire dare una scossa all’ordine di priorità del dibattito pubblico fuori e dentro i luoghi della formazione, non imporre un argomento tra l’altro ma l’urgenza di strumenti e chiavi di lettura femministi del presente. Questo significa rifiutare di veder ridotti i temi di genere ad una questione e affermare la forza che hanno di attraversare trasversalmente tutti gli ambiti, disciplinari o politici, personali e sociali, e rivoluzionarli.

Le letture e le relazioni che ci hanno accompagnato in questi mesi sono una cassetta degli attrezzi importante per interpretare e quindi per prendere parte e posizione in quanto sta accadendo storicamente. Nel lavoro di restituzione e rielaborazione di questi strumenti ho scelto di intersecare l’ordine cronologico dato ai temi dai nostri appuntamenti settimanali con quello suggerito dal mio bagaglio di domande personali.

TRADIZIONE, MEMORIA, OBLIO.

Dal 2011 ad oggi abbiamo vissuto a livello globale un riaccendersi del conflitto sociale contro le contraddizioni di un capitalismo sempre più sfrenato e una democrazia rappresentativa sempre più svuotata di senso; significativamente il Times a Dicembre di quell’anno metteva in copertina come Person of the Year una donna, icona della figura del manifestante, innanzitutto delle proteste della cosiddetta “Primavera Araba” ma anche di quelle europee, specie nei paesi cosiddetti PIIGS, o ancora del movimento del 99% di Occupy Wall Street. Il protagonismo delle donne nell’esperienza araba del 2011 così come nelle proteste di piazza che si diffusero in tutto il mondo è un dato importante per leggere l’attuale ondata di movimenti femministi contro la violenza di genere: dal movimento argentino di Ni Una Menos del 2015, allo sciopero delle donne polacche che ha fermato l’introduzione di nuove leggi antiabortiste nell’autunno 2016,  la Women’s march contro Trump, al movimento italiano di Non Una di Meno.

Metto in fila questi dati non per segnalare una continuità tout court sul piano storico e politico tra queste forme molto diverse di protagonismo femminile. Il punto di contatto che mi interessa sottolineare- che è effettivamente un fil rouge che unisce nella diversità tutte le esperienze citate- è il rapporto tra corpi e piazza. Come spiega bene Federica Castelli in Corpi in Rivolta, agli inizi della prima ondata di femminismo la “doppia militanza” – da un lato il femminismo e i gruppi di sole donne, dall’altra la politica mista, fatta assieme ai compagni di lotta – portò a fare i conti con i modi di manifestazione del dissenso, con la questione delle pratiche di piazza. Molte si allontanarono da quelle pratiche perché rivedevano nelle logiche guerresche della violenza maschile di piazza e nelle strumentalizzazioni del fare massa il persistere di un’immagine subalterna delle donne. Oggi si registra invece un mutamento e un’apertura in cui non possiamo non sentirci chiamate in causa, interrogandoci non soltanto sul ritorno alla mobilitazione sociale ma sulla trasformazione delle pratiche di mobilitazione che il protagonismo femminile implica:

“Nelle giovani donne è forte il bisogno di essere presenti nelle strade e nelle piazze in un modo che vada oltre le categorie della pura rivendicazione. Non si scende in piazza semplicemente per un obiettivo definito, ma vi è un intenso intreccio tra il dissenso e la voglia di esserci, di occupare lo spazio pubblico con la propria presenza politica. (…) la piazza può essere riconfigurata dal significato e dalla forza che una donna elabora all’interno della politica di relazione. (…) Vi è una ricchezza corporea che entra in circolo con la dimensione collettiva della piazza e la nutre, divenendo occasione di risignificazione e contaminazione.” (Castelli F., 2015, 36)

La piazza a cui si fa riferimento qui in particolare è quella del 14 Dicembre 2010 e al cordone di sole donne come ‘gesto di autoprotezione’ del proprio spezzone, ribaltamento simbolico e pratico delle logiche securitarie e repressive che fanno innanzitutto del corpo delle donne un corpo debole e da difendere, la cui sicurezza è ‘naturalmente’ delegata ad altri.

Quella piazza ampia e determinata invadeva le strade di Roma, dopo mesi di mobilitazione, sfiduciando il governo proprio mentre questo si riconfermava al potere con i metodi corrotti che lo contraddistinguevano. Io avevo 17 anni e proprio in quei giorni stavamo occupando il nostro liceo, facevamo parte, anche in provincia, dell’Onda di mobilitazione che aveva attraversato sin dall’inizio dell’anno accademico i luoghi della formazione, facendosi carico di un disagio sociale che eccedeva quei luoghi. E’ questo un primo aggancio biografico che sento di riportare nella restituzione e nella rielaborazione dei tantissimi spunti emersi dal laboratorio perché per me, come sicuramente per tante e tanti altri, quell’anno ha significato confrontarsi per la prima volta con diversi temi politici, con la necessità di riaffermare anche la legittimità stessa – che più docenti ci negavano – di una dimensione politica dentro le aule e della legittimità di scendere in piazza per lottare per autodeterminarsi. La mia era una classe composta di sole ragazze e sulla scia del coinvolgimento nelle proteste di quei mesi fu abbastanza spontaneo per tutte, all’indomani degli scandali sessuali, interrogarci sull’immagine delle donne che i media stessi ci restituivano, sulle relazioni di potere che servivano. Il documentario di Lorella Zanardo Il corpo delle donne ci aiutò ad allargare lo sguardo rispetto alla maniera ossessiva e morbosa con cui i media si concentravano sulle olgettine e la figura di Berlusconi, sul modo in cui alimentavano lo scandalo. Di sessismo era intrisa l’intera tv generalista e il riconoscerci complici, da spettatrici, nella fruizione di contenuti che normalizzavano una visione oggettivante e ipersessualizzata del corpo e del ruolo delle donne nei format televisivi ci turbò, ci fece mettere in discussione noi stesse nella sensazione di distanza e vicinanza che ci legava alle ragazze del mondo dello spettacolo, ci fece prendere coscienza del peso specifico che avevano i nostri consumi culturali.

La reazione di indignazione del movimento Se non ora quando che di lì a pochi mesi si sarebbe convocata in piazza a Roma e diffusa a macchia sui territori non metteva metteva in discussione il messaggio implicito di quelle immagini, ossia la divisione delle donne tra “sante e puttane”, confondeva decenza e dignità, non recideva i ponti con lo sguardo maschile e non riconosceva la pericolosità del ‘parlare per altre’. Come scrive Valeria Ottonelli nel suo La libertà delle donne. Contro il femminismo moralista dietro gli appelli di Se non ora quando o le prese di posizione di voci come Concita De Gregorio si nascondeva in fondo quest’idea: “le ragazze di Arcore sono una “minima minoranza”, sono solo la punta di un iceberg, fatto di corruzione dei costumi, della perdita del senso del lavoro onesto e di ciò che veramente conta nella vita (…) di un baratro culturale, un medioevo catodico che si fa bordello”.(V.Ottonelli, 2011, 6) L’atteggiamento censorio con cui in classe inizialmente reagimmo alla visione de Il corpo delle donne, del tipo: “Non mandate in onda questa roba indegna!”, si dovette confrontare con questo altro tipo di atteggiamento censorio, apparentemente affine ma radicalmente diverso nelle conseguenze, del tipo: “Non ci si comporta in questo modo indecoroso!”. Il primo tipo infatti mette sotto accusa la responsabilità degli enti trasmettitori, gli autori, i conduttori, tutti quanti si rendono complici della trasformazione della donna in un oggetto sessuale da dare in pasto allo schermo; come già accennavo questo indice puntato non può infine che rivolgersi anche agli spettatori, generando il desiderio contrastante di spegnere lo schermo e chiudere gli occhi o forzarsi a tenerli paradossalmente più aperti, a vigilare di più, a sviluppare senso critico. Il secondo atteggiamento censorio mette invece sotto accusa i comportamenti più o meno leciti di questa o quella donna, si finisce per assumere l’orizzonte di valori morali offerti dall’ordine di discorso maschile, ci si immedesima con lo sguardo maschile, facendo proprio il ‘giudizio’ inteso come strumento per stigmatizzare e colpevolizzare sé stesse e tutte le donne.

Come si dà voce a chi è costretto al silenzio senza sovradeterminarzioni? Come si raccontano le lotte e le pratiche politiche da una generazione all’altra senza imporle? Queste domande ci hanno guidato nella decostruzione delle mediazioni sociali e culturali su cui si costruisce l’ambito del Politico e della politica, delle sue immagini e dispositivi.

Il Politico si struttura come ambito legittimo del Potere tramite quelle che Spivak definisce le “grandi narrazioni delle autorappresentazioni culturali”, racconti che sono legittimanti e performativi, trasmettono regole pragmatiche, costruiscono lo spazio del corpo civico tramite il medium del logos. Il punto di partenza storico è la Grecia classica, l’Atene del V secolo in particolare, luogo d’eccellenza per studiare i meccanismi di costruzione del Sé politico. Il logos trasforma il legame associativo tra gli uomini in legame politico, genera il potere deliberativo che connota il cittadino autoctono nella dimensione pubblica innanzitutto distinguendolo dal non-cittadino: le donne, gli anziani,i bambini, i malati, gli stranieri, gli animali. Il Politico si struttura quindi innanzitutto sulla dicotomia Sé-Altro, una dicotomia che viene piegata alla logica del Medesimo, che fa dell’alterità uno specchio che riflette, rimanda al soggetto conferme più nitide della propria identità. E’ questa economia della rappresentazione dell’unità identitaria che ritroviamo nelle retoriche pubbliche e ufficiali, retoriche in cui il Politico si struttura su attributi di razionalità e libertà, se ne deriva storicamente una vera e propria “ideologia dell’Uno civico”, della concordia civile e dell’ideale armonico. La tradizione del Politico si struttura quindi sull’oblio del suo Altro: il non-politico non viene cioè eliminato, rimane ai margini, è una memoria che viene però rimossa e neutralizzata.

“Si avranno così da un lato nella sfera politica, la comunità umana connotata al maschile, dotata di logos e razionalità, come individuato dalla definizione aristotelica del cittadino, da cui discende la capacità di agire politico e l’esistenza libera dell’uomo; dall’altra, nella sfera del non-politico, la natura come necessità e come violenza del biologico, il corpo come prigione dell’anima, la donna come portatrice della differenza sessuale.”(Castelli, 2015, 21)

E’ Nicole Loraux la studiosa che ci guida nella comprensione dell’origine dicotomica del corpo civico ateniese e della successiva opera di derealizzazione, di oblio di questa origine. Sulla scorta di Luce Irigaray e della sua individuazione di un “fallogocentrismo” come dialettica originaria del Politico e del pensiero occidentale, Loraux pensa la differenza sessuale al cuore del simbolico politico greco. La donna è memoria dell’impossibilità di quella sintesi e di quell’armonia su cui il logos si legittima, è memoria del conflitto, della violenza della natura, ricorda alla polis l’imprescindibilità del due. Nel discorso pubblico pertanto la donna è ridotta a madre, il telos della generatività, mezzo di trasmissione dell’identità sociale, permette di mantenerla ai margini del discorso pubblico, funzionale alla polis e non più contraddizione in seno ad essa. Allo stesso tempo il femminile, slegato dalle donne e neutralizzata la materialità della differenza che incarnano, viene riammesso sulla scena del Politico, riassorbito tra gli attributi dell’uomo valoroso o del saggio. L’andreia dell’Atene del V secolo è un modello di virilità slegata dal corpo, asessuata, il soma del soldato è un dono della polis, quello del cittadino è supporto neutro della vita civica: da Platone in poi valoroso è l’uomo che si affranca dalle schiavitù del corpo. Il corpo maschile quindi, disciplinato e razionale, diviene corpo della polis, si pretende neutro, il suo medium è il logos che lo aliena da carne e sesso, il corpo femminile rimane inammissibile agli occhi del potere se non nelle sue funzioni riproduttive, è corpo animale e alogico, medium diversissimo di cui la polis esorcizza la potenza. Il corpo civile supera la violenza di cui il corpo è portatore nella direzione dell’armonia e della concordia, individuando due poli del conflitto, uno positivo e uno negativo: la polemos che gli uomini conducono contri i nemici della città è il polo positivo, la stasis del conflitto interiore che i corpi delle donne rappresentano è il polo negativo da domare.

L’oblio del corpo e del conflitto rinvenuti al centro dell’origine genealogica della tradizione politica occidentale è il terreno su cui il femminismo degli anni ‘70 interviene, praticando una rivoluzione prospettica, una rottura che riconosce valore politico a ciò a cui la tradizione lo nega: il personale, la famiglia, il corpo, il desiderio. Le donne di Rivolta Femminile rifiutano le mediazioni che il logos maschile ha imposto a tutti, ribaltano l’illusione di universalità della cultura maschile: non vogliamo d’ora in poi tra noi e il mondo nessuno schermo. Le femministe affermano una politica delle relazioni, della condivisione di parole e azioni trasformative, mettono al centro il corpo e la differenza in esso inscritta come forma di resistenza proprio alla logica totalizzante e predatoria del Medesimo di cui è intessuto il Politico.

Le mobilitazioni del 2011 da cui partivo per rielaborare il rapporto tra tradizione, memoria e oblio ci parlano di una realtà molto diversa: dal corpo materno come unico ammesso nel contesto della polis l’attenzione si è spostata sul corpo erotico che tanto spazio ha preso nel discorso pubblico nonché nell’immaginario televisivo in questi anni. Lea Melandri in un’intervista all’indomani delle manifestazioni di Se non ora quando reimposta, oltre gli atteggiamenti censori e moralisti, la questione sesso-potere e invita a guardare a tutte le forme di sfruttamento che investono i corpi delle donne:

Una vicenda che parla dei nessi tra sfera personale e sfera politica si riduceva al privato di una figura pubblica di alto rilievo: la politicità della questione veniva solo dal fatto che toccava un’istituzione della politica. (…) Difficile nel nostro paese dire “la sessualità è un fatto politico”. Infatti l’appello di Concita De Gregorio era rivolto “alle madri, alle sorelle, alle donne che curano le loro famiglie, alle brave professioniste”, indicate come “le donne reali”. E le altre cosa sono? Le Barbie delle pubblicità, le veline, le escort sono solo figure di cartapesta? Dobbiamo avere il coraggio di dire che sono reali anche loro e di chiederci come mai oggi la libertà per alcune donne vuol dire “il corpo è mio e lo vendo io, a chi mi pare, a quanto mi pare”, che non è esattamente quello che dicevamo negli anni Settanta. (…) Dobbiamo quindi essere molto attente al protagonismo che va assumendo il “femminile” nella vita pubblica. Il femminile è l’identità, il ruolo che gli uomini storicamente hanno attribuito alle donne. Il famoso “valore D”, di cui parlano sempre “Il Sole – 24 ore” o il “Corriere della sera”, non sono altro che le doti femminili tradizionali che oggi vengono richieste dalla nuova economia, dai servizi sociali. Per questo tutta questa enfasi sulla femminilizzazione dell’economia e della politica va accolta con spirito critico. È proprio mettendo in discussione “femminile”, “femminilità” che abbiamo costruito la nostra autonomia, affermando che non siamo un corpo al servizio della sessualità maschile, ma nemmeno le custodi della continuità della vita.” (Melandri L., 2011)

Nello stesso incontro abbiamo avuto la fortuna di avere con noi in aula Loredana Rotondo, programmista Rai negli anni ‘70, militante femminista, grande sperimentatrice sul terreno della rappresentazione delle donne nei media e nel rapporto tra questi e i movimenti femministi. Un passato della tv pubblica che è fondamentale scoprire per immaginare la trasformazione continua delle immagini e dei messaggi con cui siamo bombardati. Nei primi anni in Rai si sperimenta in radio, Chiamate Roma 3131 -di cui è responsabile- è il primo programma di chiamate in diretta in Italia. Andando in onda la mattina erano per lo più le donne ad alzare la cornetta da casa, ‘venendo fuori dalla radio’ con i loro dialetti, le emozioni, le storie di vita, fuori da quell’ufficialitá di linguaggio che caratterizzava i programmi radiofonici di quel periodo. Fu un grande successo di pubblico e fa riflettere questa ricezione degli ascoltatori, positiva come sarà poi anche per altri programmi da lei curati come Processo per stupro, perché ribalta l’assunzione mercantilista che riduce la presenza delle donne in tv a strumento di audience: l’attenzione e le abitudini del grande pubblico, delle masse, sono processi più complessi su cui serve interrogarsi. Queste donne che trovavano in un programma del servizio pubblico della Rai spazio, modo e tempo per esprimere il loro disagio cominciò tuttavia ben presto a dare fastidio, si svilupparono meccanismi che Rotondo definisce appunto ‘censori’, sia sul piano della pura comunicazione (decidere cosa mandare in onda e cosa no, passò infatti la decisione di non andare più in onda in diretta ma in differita per controllare meglio le telefonate), sia per come i problemi delle donne venivano visti, trattati e spettacolarizzati.

In Processo per stupro è stavolta la tv ad entrare in modo non intrusivo in un’aula di tribunale grazie all’aiuto del videotape, si manda in onda il prodotto inequivocabile della violenza patriarcale: la vittima del processo viene trasformata in imputata, messa sotto accusa per aspetti tali o presunti della sua vita privata, del suo modo di comportarsi, un processo che vede i giudici e la difesa animati da un voyeurismo violento e misogino. L’idea di girare e trasmettere un documentario sulla violenza sessuale su una donna fu di Loredana Rotondo, programmista Rai, dopo un convegno Internazionale sulla «Violenza contro le donne», organizzato dal movimento femminista nell’aprile del 1978, nella Casa delle donne in via del Governo vecchio, a Roma. Il programma fece in quell’occasione circa 3 milioni di telespettatori, seguì, su richiesta, una replica e questa volta furono 8 i milioni di italiani ad assistere a quelle immagini. Una delle programmiste che insieme a Loredana Rotondi curarono il progetto fu violentata tre giorni dopo la messa in onda da otto uomini, un fatto che coinvolge tutte le colleghe, che dimostra come il lavoro che avevano fatto non potesse slegarsi dai loro corpi, che proprio che i corpi sono sempre  il primo terreno delle resistenze e delle battaglie. Insieme a Luciano Luconi Loredana Rotondo ha poi lavorato per Rai Educational curando Vuoti di memoria, un programma su figure dimenticate o molto poco conosciute della nostra storia, come Carla Lonzi o Goliarda Sapienza. E’ quella che lei definisce “l’economia della non dispersione dell’esperienza” una lezione che credo ci permetta di far rientrare in circolazione produttiva elementi della tradizione, pieni e vuoti della memoria, rimossi, un’economia che accumula le esperienze leggendole criticamente, lega vita, lavoro e politica, riconosce il valore fondamentale delle relazioni per innescare processi trasformativi di sé e della realtà.

NATURA, CULTURA, ARTIFICIO

“Donne non si nasce, si diventa”. E’ una delle frasi più celebri de Il secondo sesso di Simone de Beauvoir, frase che gioca con la costruzione culturale della donna in quanto Altro e della femminilità come essenza e patrimonio di caratteristiche innate di una parte della specie umana, frase che insomma ci porta nel cuore della riflessione sul rapporto natura-cultura. Serena Fiorletta, antropologa culturale, responsabile comunicazione di AIDOS (Associazione Italiana Donne per lo Sviluppo), nella sua relazione sottolinea come spesso si tenda a dimenticare la seconda parte della frase di de Beauvoir: “donne non si nasce, si diventa, malgrado noi stesse”.

“Ma innanzitutto: che cos’è una donna? “Tota mulier in utero: è una matrice” dice qualcuno. (…) La femminilità è una secrezione delle ovaie o sta congelata sullo sfondo di un cielo platonico? Basta una sottana per farla scendere in terra? (…) La donna è soltanto ciò che l’uomo decide che sia; così viene qualificata “il sesso”, in senso assoluto.(…) la loro subordinazione non è la conseguenza di un fatto storico o di uno sviluppo, essa non è avvenuta. Il punto è eludere il carattere accidentale del fatto storico. Una situazione che si è creata attraverso il tempo può mutare nel futuro (…) una condizione naturale sembra sfidare ogni cambiamento. Eppure la natura non è un dato più immobile della realtà storica. ” (de Beauvoir S., 1949, 22-23)

Il genere come costrutto sociale e la naturalizzazione dei modi culturali di intervenire sul corpo sessuato che l’umanità pratica sono le questioni che de Beauvoir mette a tema e che per l’antropologia e le scienze sociali sono campo di indagine, sono chiamate a studiare i modi in cui a partire dalle differenze fisiologiche si producono dinamiche di potere tra generi. Determinante nello sviluppo di una prospettiva che svincoli dalla loro presunta fissità i generi è stato il lavoro di Margaret Mead, etnografa che ha condotto ricerche attente al sesso e al genere nelle isole Samoa negli anni ‘60, dimostrando quanto sia estremamente relativo il modo in cui le società rappresentano il genere.

Se è ampiamente dimostrato quindi che la pura differenza biologica non si traduce in nette differenze di temperamento tra “maschile” e “femminile”, non si esprime semplicemente nella società, dall’altro non è solo per imposizione dall’esterno che l’identità di genere si va incanalando nelle strutture del “maschio” e della “femmina”. La particolarità della costruzione dell’identità di genere è che essa si serve di modi culturali di intervenire sul corpo, di marcatori che storicamente investono in maniera massiccia innanzitutto il corpo delle donne: penso a pratiche che fanno parte della mia esperienza personale, come i buchi alle orecchie fin da bambina per evitare che i capelli corti potessero farmi sembrare un bambino, al modo in cui durante l’adolescenza mi sono trovata a fuggire gli abiti progettati per essere sexy o femminili, al senso di inadeguatezza che mi provocavano. La prospettiva che occorre adottare per uscire dalle secche del determinismo biologico o culturale che sia è quella del “fare il genere”. Questo è il titolo di un saggio pubblicato nel 1987 da Candace West e Don Zimmerman, centrale nella comprensione del modo in cui si costruisce quotidianamente l’ordine di genere. Lungi dall’essere un dato essenziale o un ruolo imposto dall’esterno, il genere viene quindi realizzato come processo di incorporazione dagli attori sociali, come scrive Raewyn Connell in Questioni di genere “ogni giorno, nel modo in cui ci comportiamo noi reclamiamo il nostro posto nell’ordine di genere, oppure reagiamo al posto che in quell’ordine ci viene assegnato”. (Connell R., 2011, 40)

Il genere al pari delle altre strutture sociali come la classe sociale, l’età, l’orientamento sessuale, l’etnia è multidimensionale, riguarda quindi gli aspetti intimi e pubblici della vita tutta. E’ importante inoltre considerare, come gli attuali orientamenti nell’ambito dei gender studies fanno, che queste diverse strutture sociali non funzionano come compartimenti stagni e anzi interferiscono costantemente, le tecniche e le scelte dell’attuale capitalismo globalizzato operano proprio sperimentando politiche di esclusione ed espulsione ai margini della società. La prospettiva della intersezionalità delle battaglie femministe, dei migranti, contro le disuguaglianze economiche, è significativamente assunta anche dagli attuali movimenti. Cruciale per comprendere quali prospettive e terreni può aprire un’intersezionalità nelle lotte è l’esperienza del movimento americano di Liberazione della donna che, nella teorizzazione di un patriarcato globale, di un sistema di oppressione maschile nei confronti delle donne trasversale a differenze di classe, etnia o età, da un lato mette a punto un radicalismo inclusivo delle lotte alle oppressioni, dall’altro incappa esso stesso in dinamiche oppressive e colonizzatrici. Patricia Hill Collins nel suo Black Feminist Thought (1991) ci spiega come le femministe nere del Nord America individuino nell’uso acritico delle categorie “donne” e “sorelle” meccanismi funzionali all’occultamento del razzismo. Sono categorie queste che neutralizzano ciò che in quegli anni andava maturando, ossia il moltiplicarsi di prospettive femministe da parte di gruppi di donne marginalizzate nelle società occidentali: nere, sudamericane, lesbiche. Interessante a tal proposito è quanto Judith Butler si chiede, nel primo capitolo del suo Gender Trouble

“E’ possibile individuare un’economia maschilista monolitica tanto quanto monologica, che attraversi tutti i contesti culturali e storici in cui ha luogo la differenza sessuale? Il mancato riconoscimento della specificità culturale secondo cui opera la specificità di genere, non è esso stesso una sorta di imperialismo epistemologico? (…) la colonizzazione non è un gesto primariamente o irriducibilmente maschilista. Può operare producendo altre relazioni di subordinazione razziale, di classe, eterosessuale, per citarne solo alcune.” (Butler J., 1990, 22)

Le riflessioni di Butler spingono a ripensare radicalmente i meccanismi di costruzione dell’identità che ereditiamo dalla tradizione soggettivistica del pensiero occidentale e che è stato proprio il femminismo a mettere in discussione, affermando – con le parole di Carla Lonzi – la soggettività delle donne come alterità radicale, irriducibile all’assoggettamento maschile nel momento in cui fa sua la pratica della ricerca del gesto di rivolta all’oppressione. Il riconoscimento della genesi relazionale della nozione di soggetto impone per Butler un ripensamento del soggetto del femminismo. Superare questa nozione significa ragionare di una politica di coalizione che non postuli in anticipo il contenuto della categoria “donne”.

La critica che viene rivolta agli approcci che Butler inaugura nei Queer studies è quella di rimuovere pericolosamente la dimensione del corpo dalla riflessione femminista, di vaporizzare in analisi solo intralinguistiche la questione della costruzione del genere, cancellando la percezione della differenza di cui il corpo è portatore. La concezione del corpo come artificio proposta da Ilenia Caleo, performer e attivista, sulla scorta delle analisi di autrici come Rosi Braidotti e Donna Haraway, è l’elemento che prova a scompaginare le coppie binarie natura-cultura, maschile-femminile, soggetto-oggetto. Il corpo come artificio rivendica la natura relazionale del corpo inteso come macchina, anch’esso prodotto di un ‘fare’ che si confronta innanzitutto con la dimensione della tecnologia e la sua crescente pervasività e performatività nella vita di tutti. Il punto di partenza del Manifesto cyborg di Donna Haraway è proprio l’effetto trasformativo che gli sviluppi tecnologici degli ultimi anni hanno imposto a ciò che è tradizionalmente definito come ‘naturale’: il continuum natura-cultura si ibrida col tecnologico, già l’uso a mo’ di protesi delle nostre capacità che facciamo di tutte le smart tecnhonologies ci suggerisce questo sconfinamento. La risposta che Donna Haraway immagina ha come perno proprio il piacere di confondere i confini e la nostra responsabilità nel costruirli:

“Natura e cultura vengono ripensate; l’una non può più essere la risorsa che l’altra fa sua o incorpora. Nel mondo cyborg ci si preoccupa delle relazioni che uniscono le parti in un tutto, comprese la polarità e il dominio gerarchico. (…) Le tecnologie della comunicazione e le biotecnologie sono gli strumenti principali per ricostruire i nostri corpi. Questi strumenti incorporano e impongono nuove relazioni sociali per le donne di tutto il mondo. Le tecnologie e i discorsi scientifici possono essere in parte intesi come formalizzazioni, come momenti congelati della fluida interazione sociale che li costituisce, ma dovrebbero anche essere visti come strumenti per imporre significati. Il confine tra mito e mezzo, strumento e concetto, sistemi storici di relazioni sociali e anatomie storiche di corpi possibili, inclusi gli oggetti di conoscenza, è permeabile.” (Haraway D., 1995)

SESSO, GENERE, RELAZIONI

La distinzione sesso-genere, come abbiamo visto, è l’elemento centrale per i femminismi che si consolideranno negli anni ‘70 come pensieri della differenza: elaborare una nozione di genere che non sia risultato diretto del sesso significa per le donne rifiutare l’assunto, per loro pensato, della biologia come destino. Sono infatti le donne – come spiega de Beauvoir – l’unica parte della specie umana a dover sopportare il marchio infamante e supplementare del ‘sesso’, per l’uomo vale un principio di neutralità che assolutizza il vir, lo fa sinonimo dell’homo in generale. La posizione di seconditá con cui si connota il sesso femminile è funzione di risposta, di risposta all’essere primo e superiore, contraltare di passività rispetto al detentore dell’azione nella storia che è l’uomo. Negli anni della rivoluzione sessuale i movimenti giovanili fanno propria l’assunzione psicoanalitica della libido come energia vitale principale, la liberazione del desiderio dalle catene del puritanesimo della morale tradizionale si afferma scompaginando i confini tra pubblico e privato, il sesso libero è terreno su cui la virilità e la femminilità come essenze misteriose e fisse maturano una crisi. Come però avverte Carla Lonzi, e con lei tante altre donne, dalle pensatrici come Luca Irigaray che rivedono radicalmente le categoria della sessualità elaborate dalla psicoanalisi, alle donne che animano in quegli anni i gruppi di autocoscienza femminile e delle cui voci Lonzi è interamente permeata: il giovane che non fa la guerra ma l’amore finisce per essere il più strenuo difensore del nucleo primario del patriarcato. L’invito all’amore libero può rivelarsi una formula affascinante ma pericolosa che attribuisce nuovo valore al modello sessuale maschile, rafforzando il mito della bontà arcaica della coppia e dei relativi ruoli sessuali. Che cos’è la coppia patriarcale? Così la definisce Carla Lonzi in quel testo rivoluzionario che è stato e rimane La donna clitoridea e la donna vaginale :

“La coppia patriarcale è pene-vagina, marito-moglie, padre-madre della cultura animale-procreativa: il loro rapporto non è stato determinato in base al funzionamento del sesso, ma in base al funzionamento della procreazione a cui il sesso femminile è stato subordinato. La donna vaginale è il portato di questa cultura (…) L’imprevisto del mondo non è la rivoluzione sessuale maschile, cioè il disinibirsi che porta a un rinnovato prestigio del coito nella coppia, nel gruppo, nella comunità o nell’orgia universale, ma la rottura del modello sessuale pene-vagina.” (Lonzi C., 1971, 113)

La violenza culturale ha visto l’uomo imporre il modello sessuale del pene, in cui il meccanismo del piacere coincide con quello dell’eiaculazione. La donna ha subito una colonizzazione senza pari: il suo sesso fisiologico che è la clitoride è stato screditato, additato dalla psicoanalisi freudiana come organo di un piacere mascolino e immaturo, il suo erotismo è stato sostituito dal piacere vaginale come piacere ufficiale e maturo, la mistica dell’unisono e della coppia ha costretto le donne a giustificare pragmaticamente l’abitudine all’assenza di piacere solo perchè questa è funzionale alla riproduzione, appagante per le aspettative dell’uomo. Le prime ricerche sperimentali come il Rapporto Kinsey e gli studi di Masters & Jonson sul sesso iniziano a mettere nero su bianco questi sintomi dell’oppressione sessuale senza però mettere in discussione il primato del rapporto pene-vagina, senza riconoscere il peso politico di quest’oppressione. Quanto mettono a tema i femminismi degli anni ‘70 sul nesso corpo-sessuazione-linguaggio è pertanto dirompente: innanzitutto la riappropriazione del corpo isterico femminile, sottraendolo alla caratterizzazione patologizzante di Freud e invertendone il segno, una eccedenza più che un blocco dell’energia libidica del corpo femminile rispetto all’ordine sociale impostole; si arriva con Luce Irigaray a mettere in discussione, in quanto prodotti del fallogocentrismo, tanto la caratterizzazione del sesso della donna come Altro, assunto che da Simone de Beauvoir in poi i femminismi avevano fatto proprio, tanto la sua caratterizzazione psicanalitica come mancanza o specchio del pene.

Judith Butler indaga gli effetti di questa scissione originaria tra sesso e genere nel soggetto femminista, le problematizzazioni che da prospettive differenti de Beauvoir e Irigaray danno della ‘sessuazione’, ossia di quella che Lacan definisce la significazione sociale e culturale del sesso anatomico. Le due femministe sono i punti di riferimento da cui parte per interrogarsi e intervenire nella polemica che va sotto il nome di ‘essenzialismo’. Dagli anni ‘80 in poi infatti autrici quali Monica Witting, Julia Kristeva, lavorando con gli strumenti teorici elaborati dal post-strutturalismo e dal decostruttivismo francese di Derrida e Foucault criticano fortemente il modo in cui le pensatrici della differenza ricadano in una sorta di concezione destinica del biologico, non riconoscendo nello stesso binarismo di genere o nell’eteronormatività  istituzionale strutture sociali e culturali normalizzate ed escludenti nei confronti di chi non si riconosce in nessun polo del binomio maschile-femminile. In linea con questo approccio ma portando avanti scarti teorici profondi Gender Trouble diventa negli anni ‘90 un testo di riferimento che scavalca gli ambienti accademici e si fa materiale di discussione e pratica politica per i nascenti movimenti queer, movimenti che portano sulla scena pubblica e politica un’identità senza essenza, un’identità che si costruisce nella riappropriazione in senso positivo della devianza che persone intersessuali, gay, lesbiche, transessuali rappresentano rispetto all’ordine dominante. Judith Butler radicalizza le critiche che le riflessioni femministe e il post strutturalismo hanno per primi tematizzato contro la metafisica della sostanza che fa da base all’idea di identità della tradizione “occidentale”. Il genere si dimostra performativo, ossia capace di costituire l’identità, è il mezzo discorsivo-culturale con cui il sesso stesso viene prodotto e fissato in quanto pre-discorsivo, allo stesso tempo esposto e nascosto, ossia naturalizzato. La distinzione sesso-genere si rivela essere una non-distinzione in questa prospettiva che dà peso, sulla scorta di Foucault, alle maniere biopolitiche e discorsive che le relazioni di potere hanno di intervenire sui corpi.

“In questo senso genere non è un sostantivo, ma non è nemmeno una serie di attributi fluttuanti (…) all’interno del discorso tradizionale della metafisica della sostanza esso si rivela performativo, cioè costituisce l’identità che è supposto essere. In questo senso il genere è un fare, anche se non un fare il cui agente è un soggetto che potrebbe dirsi preesistente all’atto.” (Butler J., 1990, 38)

Come anticipato il terzo termine del trio di parole-chiave è quello che scompagine la dicotomia, la pluralizza. La prospettiva del “fare il genere” non si riduce ad una fantomatica azione volontaristica, piuttosto ci interroga proprio sui tipi di relazioni sociali che connotano quella struttura particolare che è il genere. Scalzare la differenza sessuale e di genere tra uomini e donne dal suo ruolo di essenzialità e di priorità gerarchica rispetto alle altre differenze, come Judith Butler fa, non vuol dire infatti misconoscere la particolarità e la centralità che questa struttura sociale ha nei tempi in cui viviamo. Connell individua la particolarità di questa struttura sociale nel fatto che essa è incentrata sull’arena riproduttiva, si sostanzia di pratiche che hanno lo scopo di far rientrare le differenze riproduttive inscritte sui corpi nei processi sociali. Questo riferimento alla riproduzione mi sembra importante perché riprende in un senso altro un tema caro ai pensieri della differenza sessuale, che individuano proprio nella capacità riproduttiva della donna uno dei nodi nevralgici non solo dell’oppressione patriarcale ma anche del suo percorso di liberazione. L’arena riproduttiva per Connell è definita materialmente e simbolicamente, non vuol dire ridurre la prospettiva alla riproduzione sessuale eterosessuale della specie; scardinato il concetto di dimorfismo di genere tra maschile e femminile, assumendo quindi la radicale pluralità dei corpi come centro nevralgico da non accantonare mai nell’analisi, l’arena riproduttiva diventa per la studiosa quel campo in cui i processi corporei e quelli sociali si legano, il terreno in cui le dinamiche biopolitiche possono essere studiate con maggiore profondità. L’indicazione di questa arena mi pare uno spunto che chiede approfondimenti, allargamenti ulteriori delle prospettive.

Diversamente da Connell ad esempio, Federica Giardini e Anna Simone in La riproduzione come paradigma. Elementi per una economia politica femminista individuano l’attività di riproduzione come “tutto il ciclo di attività che mettono al mondo, e sul mercato, l’umano” come paradigma di funzionamento del capitalismo nell’epoca post-patriarcale. Nella tesi di questo testo-Manifesto, che mi sento di riprendere per segnare le tracce di possibili futuri approfondimenti, le studiose si interrogano così a proposito del lavoro riproduttivo:

“Il paradigma riproduttivo non coincide con la diagnosi della femminilizzazione della società, del mercato, del lavoro. (…) Le retoriche sulla femminilizzazione del lavoro e della società sono solo la forma “gestionale”, antropologica, del neoliberismo (…)

Il paradigma riproduttivo, mantenendo la tensione con le attività di produzione di beni, permette di far cadere la distinzione tra lavoro materiale e lavoro immateriale e di ritrovarla come distinzione tra attività naturalizzate, rese cioè invisibili e indicibili, e attività valorizzate, salariate, svalorizzate. (…)

La posta in gioco è riappropriarsi non del valore, bensì dei criteri, e delle misure, di attribuzione del valore. Chi decide in cosa consiste sentirsi bene?” (Giardini F., Simone A., 2015)

SESSUALITÀ, PARENTELA, AFFETTIVITÀ

Come è stato generativo il tema della sessualità per i femminismi? E’ la domanda su cui si sono interrogate da diverse prospettive Federica D’andrea, Alessia Acquistapace e Mariaenrica Giannuzzi nel nostro ultimo incontro, concentrandosi ognuna su esperienze legate alla dimensione dell’affettività e della sessualità teoricamente e politicamente feconde: la gestazione, la coppia, l’identificazione. La prospettiva del corpo assunta è quella di matrice foucoltiana su cui già ci siamo soffermati, un corpo come medium non passivo ma attivo, superficie di retroazione tra biologico e cultura su cui il discorso biopolitico si esercita. Una prospettiva questa, come noto, radicalmente diversa da quella di matrice cartesiana del corpo come res extensa opposta alla mente razionale, una prospettiva che impone il superamento di ogni riduzionismo sia biologico che sociale e che vuole il sinolo corpo-mente come soglia di interazioni simboliche e materiali. L’etimologia della parola che in tedesco sta per soglia, Schwelle, è il verbo schwellen che – come nota Walter Benjamin ne I Passages di Parigi  significa “gonfiarsi”, sta ad indicare cioè un mutamento, un passaggio, uno straripamento. La concezione del corpo come un medium che non è quindi solo superficie piana, docile, atta a subire il dominio biopolitico, piuttosto è zona di interazioni dagli esiti imprevedibili, connessioni che è il corpo-mente desiderante stesso a cercare ed attivare. 

L’esperienza della sessualità su cui Federica D’Andrea si è concentrata è la gestazione, esperienza propria del corpo femminile, sulla cui carica mitica e simbolica così fortemente ancorata al dato empirico, tutti i femminismi si sono confrontati. L’esperienza del concepimento e della gestazione è, al pari di altre che connotano la formazione del genere come struttura sociale, un’esperienza storicamente determinato. Il punto di svolta sta ad esempio nello sviluppo di tecniche e tecnologie scientifiche che nell’Ottocento permettono l’affermarsi della figura del medico ginecologo a discapito dell’autorità delle ostetriche o delle levatrici, che fino ad allora erano state le uniche a seguire le altre donne durante la gravidanza. Si va dall’invenzione dello stetoscopio nella prima metà dell’Ottocento, strumento acustico che permise di rilevare i movimenti del feto, fino ad arrivare all’invenzione dell’ecografia negli anni ‘60, una rivoluzione questa che, grazie alla ricodifica dei suoni dei movimenti del ventre in immagini visuali, permette oggi ai medici di ricostruire al dettaglio lo sviluppo fetale e apre agli ulteriori sviluppi della diagnostica prenatale. Il passaggio storico carico di conseguenze sta sul piano della percezione del corpo della donna gravida, da parte di sé stessa così come della società, consiste nella totale sostituzione dell’autorità femminile con quella medica. Prima dello sviluppo della medicina infatti l’autorità assoluta  nel controllo della gravidanza era in capo alla donna stessa. Lei auto-decretava il proprio status di ‘incinta’, quindi innanzitutto era incerto lo statuto dell’aborto. Occorre problematizzare la conseguenza positiva dello sviluppo medico, ossia il generale miglioramento delle condizioni igieniche e sanitarie in cui le donne si trovano a partorire (dato che ovviamente non è tuttora omogeneo nei diversi territori del Nord e del Sud Globale). I procedimenti semiotici accompagnano infatti le tecniche biomediche e modificano il corpo, oltreché produrre risposte sociali che oscillano tra la fiducia incondizionata e lo scetticismo antiscientifico. Interrogarsi su queste trasformazioni all’ordine del giorno significa guardare ad esempio alla tendenza all’ipermedicalizzazione della salute laicamente, avendo in vista la necessità di bilanciare sempre l’avanzamento scientifico con il diritto inalienabile di decidere sui propri corpi delle donne, delle persone in transizione, di tutt*.

Alessia Acquistapace si è invece concentrata sull’esperienza dell’intimità e sulla cosiddetta crisi della famiglia a partire da uno sguardo in controtendenza rispetto all’approccio allarmista maggiormente diffuso nel senso comune, negli immaginari mediatici, nella stessa ricerca sociale. L’allarme per la “fine della famiglia tradizionale”, spauracchio oggi agitato da fin troppi gruppi fondamentalisti, è dovuto infatti all’incapacità di riconoscere il carattere storicamente determinato del privilegio che ha nel nostro presente la coppia eterosessuale, monogama, convivente, riproduttiva e l’immaginario dell’amore romantico che la sostiene. Il privilegio che la “coppia obbligatoria” detiene si instaura sia tramite micropratiche politiche (il peso emotivo totalizzante assegnato alla coppia, la sua normatività, l’imposizione cioè che tra tutti i legami di una persona quello di coppia debba essere prioritario e proiettato nel futuro per essere considerato solido), sia tramite le discriminazioni sul piano del riconoscimento dei diritti sociali e dell’accesso al welfare (sebbene i timidi e discutibili avanzamenti sul fronte delle cosiddette unioni civili, la coppia eterosessuale rimane il soggetto giuridico per cui è pensato lo Stato sociale, o quel che ne rimane). Decostruire la normatività della coppia significa innanzitutto riconoscere le pratiche sociali che ne fanno un legame affettivo normativo, vuol dire registrare il calo di unioni stabili, quello della natalità e tutti gli altri aspetti che ci segnalano una crisi della famiglia tradizionalmente concepita vedendo non soltanto ciò che viene meno ma ciò che si crea, riconoscendo cioè le forme di vite che in questa crisi si sviluppano, dando loro visibilità e valore politico. Decentrare la coppia significa, secondo me, innanzitutto porre da un’altra prospettiva la questione della rinegoziazione delle regole interne al rapporto di coppia; ‘decidere come si sta insieme’ è un dato che è emerso nella discussione ma senza un suo peso specifico,  come se non fosse un nodo implicato nel riconoscimento di forme di intimità altre rispetto alla coppia, se non forse uno dei nodi storicamente determinanti proprio nell’emergere e nello svilupparsi di queste forme stesse. Le famiglie omogenitoriali, quelle monogenitoriali, le famiglie “allargate”, le amicizie, le relazioni sessuali, le relazioni poligame, i legami di convivenza tra coinquiline/i, le reti mutualistiche, quelle affettivo-politiche non possono essere letti come semplici disfunzioni del modello familiare tradizionale a cui i soggetti, specie giovani, non riescono più a conformarsi a causa della crisi economica, né è di alcuna utilità esaltarli come modelli alternativi ed emergenti. Queste nuove forme di intimità ricevono il proprio peso personale-politico dall’aver assunto funzioni relative alla cura, al piacere, al confronto che il dispositivo della coppia obbligatoria vuole assumere in maniera totalizzante su di sé. La pluralizzazione delle relazioni verso cui siamo responsabili fa dunque implodere la fissità della coppia, dall’altro lato queste però subiscono il peso della “precarietà come effetto”, non causa, del proprio esistere, si confrontano cioè con le forme di oppressione che esercita  la normatività della coppia con la sua logica binaria del fallimento/riuscita e sono costrette a  confrontarsi col compito difficile di dover costruire nuove logiche, nuovi criteri, nuove regole a partire dalle esigenze coinvolte e dai contesti.

Il lavoro teorico di Alessia Acquistapace prende le mosse da un’auto-inchiesta sulle relazioni svolta dal Laboratorio Smaschieramenti, gruppo trans-femminista queer che si riunisce a Bologna nella storica sede di Atlantide. Nella fanzine S/coppia elaborata dal gruppo in occasione di quella data simbolo dell’ideale d’amore romantico che è San Valentino è significativo che le rivendicazioni sociali e politiche non riguardino l’accettazione sociale o le forme di riconoscimento giuridico di queste forme di affettività: la logica liberale che si protende verso un’uguaglianza formale sempre più inclusiva di tutti i soggetti e le loro differenze viene rifiutata perché depotenzia alla radice il portato politico che queste hanno, il loro valore di denuncia e messa in crisi dei modelli tradizionali di affettività, il rovesciamento che operano rispetto al paradigma della “vittima” di una crisi se non di una disfunzione. La rivendicazione del diritto alla casa o del reddito minimo contro lo sfruttamento del lavoro gratuito o precario che condividono con gli altri movimenti sociali, specie giovanili, acquista quindi un valore differente nel momento in cui questi strumenti sono rivendicati per riprodurre vite culturalmente non pensabili, vite che non ambiscono a rientrare nel “depliant delle felicità possibili”, vite che oppongono quindi una resistenza consapevole alla capacità che il capitalismo ha di rigenerarsi a partire dai suoi stessi elementi di crisi.

Mariaenrica Giannuzzi ha messo invece al centro del suo intervento il processo di identificazione e le strutture psichiche su cui questo processo fa perno, principalmente nelle analisi estetiche di Kaja Silverman. Kaja Silverman, critica e storica dell’arte americana, individua due funzioni trans-storiche dell’identificazione come processo di costruzione dell’Io sessuato, la prima è lo specchio, che funziona secondo i modi della vista (look), il secondo è lo schermo, che funziona invece secondo i modi della visione propri dello sguardo (gaze). Lo specchio, concetto fondante della psicoanalisi lacaniana da un lato e bersaglio critico decisivo per la definizione della soggettività della donna per buona parte del pensiero femminista, è per Silverman una struttura sempre disponibile nel processo di costruzione del Sé (non limitata quindi alla fase infantile come per Lacan), esso risponde al desiderio del medesimo, del vedersi uguale, di idealizzare l’ego come immagine che nel riflettersi perfeziona la percezione corporea e individuale. Il paradigma della vista prevede dunque il monopolio di un punto di vista, una monoprospettiva che si assolutizza. Lo schermo è una funzione che si differenzia invece da questo regime visuale per il modo in cui fa funzionare il codice di rappresentazioni delle immagini del Sé, non riflette ma proietta, rende visibile la reazione del corpo al codice di rappresentazione dell’identità. Il desiderio che anima la funzione dello schermo e il regime visuale dello sguardo è quello dell’identificazione con l’altro, ciò che emerge è un’incongruenza quindi tra sé e l’altro da sé, tra sé e le norme del codice di rappresentazione di sé.

Laura Mulvey, come Silverman, nelle proprie teorie del cinema e dei modi sessuati del vedere, riflette sul piacere nel controllare l’immagine che caratterizza lo spettatore, indaga l’esercizio voyeuristico di guardare senza essere visto che ha luogo in presenza dello schermo. Il piacere di guardare riproduce le relazioni di potere tra maschile e femminile, l’immagine percepita è oggettivizzata ed esclusa dal potere di guardare. Lo statuto privilegiato assegnato al senso della vista dalla nostra tradizione culturale, statuto che risale ai Greci e all’analogia tra occhio e intelletto che stabiliscono Platone e Aristotele, che si rafforza nelle immagini luminose che della verità danno i filosofi medievali come Agostino, o nello sguardo della donna che incanta ed eleva l’amato nello stilnovismo, è un privilegio che riafferma il dualismo mente-corpo del soggetto cartesiano e rafforza le sue modalità appropriative di conoscere ed esperire il mondo. Gli affetti nel modo in cui li concepisce Spinoza come capacità del corpo-mente di essere colpito e di colpire un altro corpo-mente, capacità di sentire e pensare che tende al divenire, sono in questo quadro un termine che scompagina le parole-chiave prese in esame e ripone al centro della riflessione l’istanza del corpo. Sebbene quindi sia consapevole che affettività e affetto, specie nell’accezione spinoziana, non siano direttamente sovrapponibili, non mi sembra fuori luogo questa duplice operazione: cioè da un lato rendere terzo l’ambito tematico dischiuso dall’affezione, traslandolo quindi rispetto alla proposta iniziale in una posizione disturbante rispetto al legame sessualità-parentela, dall’altro lato produrre una parziale sovrapposizione tra l’affettività intesa come ambito delle relazioni affettive ed emozionali/sentimentali tra persone e gli affetti come relazioni corpi-menti nel mondo

AUTOCOSCIENZA, SOGGETTIVITÀ, AGENCY

“Il soggetto ‘donna’ non è una forma universale come il soggetto ‘uomo’, né collettiva come ‘proletariato’, è una soggettività a statuto particolare che si è storicamente riconosciuta nella autobiografia e che si è teoricamente legittimata nella psicoanalisi. Nonostante i vincoli che ci legano, ciascuna di noi conserva il sentimento di esclusività della propria storia, della priorità della propria realizzazione. E questo non è soltanto un residuo dell’individualismo borghese, quanto una fedeltà a se stesse, un riconoscimento della materialità del corpo.” (Finzi S.V., 1987, 115)

Queste parole di Silvia Vegetti Finzi, psicologa, femminista, militante, ci portano al cuore della pratica dell’autocoscienza come processo di soggettivazione che dà avvio ai movimenti femministi degli anni ‘70. I gruppi di donne che a partire da Anabasi, Debau e Rivolta femminile si diffondono in tutto il paese ritrovano nella condivisione dei propri vissuti e negli strumenti della psicoanalisi (di cui pure si rifiutano alcuni assunti fondamentali come il fallocentrismo, la finalità adattiva e il rapporto professionale monetizzato) una strada per rompere a partire da un “atto di coscienza” col mutismo e l’assenza a cui da sempre le donne erano state relegate. Come pratica femminista l’autocoscienza  mette al centro la narrazione dell’esperienza singolare e la politicizza in due modi, “il personale è politico” – celebre titolo di uno dei Quaderni di lotta femminista – si traduce cioè da un lato nel riconoscimento della dimensione collettiva, sociale e problematica che i vissuti individuali condividevano, dall’altro nell’aprirsi ad una possibilità trasformativa di questa condizione condivisa come donne, in quanto donne. L’elaborazione di sé sotto il segno della differenza è centrale per la pratica dell’autocoscienza. Questa pratica, proprio nella scelta del separatismo, opera una riappropriazione della ‘chiacchiera tra donne’, l’angolo dell’oikos della famiglia, dell’intimo, il margine in cui le donne sono state relegate viene ribaltato e slargato dall’atto di coscienza e dal gesto di rivolta delle donne, lo rendono centro della dimensione politica escludendone l’oppressore, rifiutando l’arena competitiva da lui imposta. Questa rottura è importante non tanto ai fini di una strategia dei due tempi tra privato e pubblico quanto perché motivata dalla necessità di distanza, di rottura appunto di quella ‘intima amicizia’ che caratterizza il legame di oppressione uomo-donna e che il pensiero del femminismo della differenza pone come essenziale dell’ordine discorsivo del potere.

Che cosa rappresenta dunque per le donne quella “straordinaria macchina di autobiografia”? Sempre Silvia Vegetti Finzi specifica che la donna non ricava in ogni caso direttamente dalla soggettività esperita nell’analisi “una immediata rappresentatività sociale, una capacità di gestione politica del disagio, ma un’abilità di stilizzazione interiore, di trascrizione della realtà in scena psichica”. Come nota invece Maria Luisa Boccia ne L’Io in rivolta. Vissuto e pensiero in Carla Lonzi (1991) alla base della pratica concreta dell’autocoscienza c’è in definitiva lo stesso processo di identificazione che pure Carla Lonzi in Sputiamo su Hegel (1970) definisce come tipico del processo di venuta a soggetto del maschile, un processo che ha “carattere compulsivo, che sfronda la fioritura di una esistenza e la tiene sotto l’imperativo di una razionalità” che controlla, genera dinamiche di competitività”. Il rispecchiamento tra donne realizza una sorta di corpo mistico indistinto, in cui il soggetto e la sua immagine si prolungano vicendevolmente, una sorta di reductio ad unum in cui collassa lo spazio infra-singoli che la pratica del narrarsi crea. Le donne di Rivolta Femminile, come gli scritti diaristici di Lonzi ben chiariscono, non si sottraggono all’analisi delle difficoltà dell’esperienza del gruppo, con la sua tendenza allo stesso tempo disgregante e opprimente nei confronti del singolo, col suo riproporsi di dinamiche del tipo inferiore-superiore o di ruoli tipici del modello familiare, ad esempio la madre come figura prevalente di come si immagina l’autorità femminile fuggita solo nell’ideale astratto della sorellanza tra donne.

Congedarsi quindi dall’autocoscienza? Al netto dell’esperienza di Rivolta Femminile, la maggior parte dei gruppi che praticavano l’autocoscienza viene travolto proprio dalla mancata gestione delle dinamiche controtrasferali, dalla difficoltà di ritrovare quella “rispondenza” di cui scrive Carla Lonzi. La narrazione e l’immaginario creato ad esempio dalla Libreria delle donne di Milano sulla fine delle esperienza di autogestione parla di un progressivo dare spazio alla pratica più efficace del “fare” che porta nel tempo a risultati e guadagni per la storia comune delle donne. La domanda provocatoria su cui ci provoca Maria Luisa Boccia vuole proprio segnalarci la parzialità di questa narrazione venata di progressismo del femminismo. Il portato dell’autocoscienza, così come ce lo consegnano ad esempio voci come quella di Carla Lonzi, non può essere liquidato né come intimismo né può essere ridotto a “pensiero della differenza” nella sua accezione contingente/storica; il “partire da sé” da cui questa pratica si origina eccede l’esperienza di quei concreti percorsi politici e -con le parole di Maria Luisa Boccia – diviene “la forma in cui l’autonomia diviene pensabile per ogni donna”. La forma legata all’autocoscienza non è quella forma-essenza o idea a priori di donna che le queer theory e i femminismi di ondate successive a questa 2^ degli anni ‘70 imputarono alla categoria del soggetto “donna” e “noi” elaborato dai movimenti delle donne. Le domande che Maria Luisa Boccia si pone mi pare colgano nel segno proprio perché non partono da posture acriticamente elogiative di questa pratica-pensiero, anzi riconoscono una tensione costitutiva della pratica dell’autocoscienza che pone in contrasto le soggettività singole, il processo di soggettivazione collettiva, il modello del Soggetto-identità patriarcale. Così solo si riesce a cogliere quanto ancora ha da darci e dirci l’autocoscienza e i suoi concetti (separatismo, relazione, pratica-pensiero).

A tal proposito è significativo notare come in movimenti femministi come quelli attuali ci siano gruppi che rielaborano questa pratica a partire dalla discussione tra soli uomini o comunque mettendo al centro la condizione e la questione del maschile. Esempio è il Gentleman’s Club di Roma a cui per un periodo mi sono avvicinata e che considero tuttora un esperimento interessantissimo e a cui dare visibilità. Alla voce ‘Chi siamo’, tra le altre cose, dicono:

“Siamo maschi? Siamo persone che si identificano e si riconoscono nel genere maschile, ovvero riconoscono  il proprio corpo e la propria identità di genere come maschile. Ma ovviamente non siamo solo questo. Siamo anche persone che si sono sentite e si sentono a disagio nell’esperire il portato che tale identità (se così si può chiamare un insieme complesso, contraddittorio e stratificato di pratiche incorporate, e discorsi e orientamenti valoriali esplicitati o acquisiti in habitus in realtà difficile anche solo da circoscrivere) implica in un contesto storico, sociale e culturale – l’Italia del 2015 – che ancora purtroppo non può che dirsi patriarcale e sessista.”

Il concetto di “agency” è il punto di crisi della tensione che si apre tra autocoscienza e soggettività, o meglio tra pratica-pensiero della formazione del sé individuale e collettivo e soggettivazione sociale e politica, tensione in definitiva dell’essere politico del personale. Il concetto di ‘agency’ risponde a questa domanda: in che modo la riproduzione sociale diviene trasformazione sociale? In che modo ci si affranca dalla nozione di “sorellanza globale” e si creano gli strumenti per cui sia possibile la voce e l’agency politica e sociale della donna non occidentale, anche non femminista? Una filosofa come Spivak avrebbe esordito nel 1984 negando che la subalterna potesse parlare per sé sola, libera dall’ipoteca doppiamente irresistibile rappresentata dealla voce del maschio bianco colonizzatore e di quello nero colonizzato al pari di lei. La studiosa anch’essa indiana Lata Mani che Conell riporta nel suo Questioni di genere riformula così la questione posta da Spivak rispetto all’agency:

“La domanda “Possono i subalterni parlare?”, quindi, può essere meglio posta come una serie di domande: Quali gruppi costituiscono i subalterni in ogni specifico testo? Quali sono le loro relazioni specifiche? Com’è possibile sentire la loro voce, o meno, in un insieme dato di materiali? Con quali conseguenze? Riformulare la domanda in questo modo ci permette di tenere ferma l’intuizione di Spivak rispetto al posizionamento delle donne nel discorso coloniale senza concedere al discorso coloniale ciò che esso, di fatto, non è riuscito a ottenere – la completa cancellazione delle donne.” (Mani L, 1992, 403)

LIBERTÀ,  AUTODETERMINAZIONE, EMPOWERMENT

Il Movimento di liberazione delle donne pone il problema della libertà e del potere dal punto di vista della differenza data dall’assenza dalla storia, tematizzato da Carla Lonzi. Il confronto della seconda ondata di femminismi con le soggettività subalterne altre, soggettività nere, del Sud globale, lesbiche, gay, transessuali, queer, arricchisce ulteriormente il problema. Le differenze di queste soggettività non si lasciano infatti neutralizzare dal comune rifiuto dell’offerta dell’uguaglianza ai colonizzati sul solo piano delle leggi e dei diritti, l’uguaglianza intesa come -con le parole di Lonzi in Sputiamo su Hegel – “principio in base al quale l’egemone continua a condizionare il non-egemone”.

Decidere per sé da sé. Autodeterminazione appunto. Parole e concetto utilizzati dai movimenti delle donne, ma prima ancora dai movimenti di liberazione anticoloniale che Tamar Pitch ci aiuta a problematizzare. Definisce l’autodeterminazione una finzione al pari del soggetto moderno, quello cartesiano che si forma nell’illusione dell’autonomia totale, che si riduce per la riflessione femminista al solipsismo ma che fa tuttora da base per il diritto moderno, che il diritto moderno prevede come attore giuridico. Tamar Pitch invita a decostruire i macrosoggetti come “popolo”, le “donne”, ancor di più le sigle LGBTQI. Presta attenzione a quanto sia sottile il confine tra “paternalismo o maternalismo” e “cura degli altri”, tra l’indifferenza dell’individualismo e il rispetto delle scelte altrui. I movimenti di autodeterminazione devono ancora oggi costantemente confrontarsi con la tensione che rintracciavamo già nelle riflessioni dei movimenti degli anni ‘70, quella cioè tra le singole  e irripetibili soggettività, i processi di soggettivazione collettiva, il modello del Soggetto/identità autoritaria e paternalista.

Una prospettiva che radichi nel corpo-mente e nel continuum natura-cultura questa tensione deve ripartire dalla questione del potere come verbo e non come sostantivo, intendendolo quindi innanzitutto, ma non solo, come forza fisica. L’empowerment termine che il femminismo istituzionale ha fatto suo e che ha a livello europeo e internazionale misuratori che ne quantificano il livello, in nuce è un termine che fa virare la dialettica libertà di/libertà da su altri terreni. Alessandra Chiricosta, studiosa delle culture del sud-est asiatico e marzialista, propone questa lente della forza psicosomatica per analizzare la questione dell’empowerment e interrogarsi sulla violenza di genere, fenomeno sociale dalle dimensioni spropositate che spesso oramai vede risposte nei corsi di autodifesa femminile. Questa risposta sta su un piano radicalmente diverso rispetto a quello che le arti marziali ci suggeriscono, nell’autodifesa è assunta esplicitamente la naturalizzazione dell’assenza di forza nella donna, di una forza capace di attaccare, capace di iniziativa violenta insomma e non solo di risposta alla violenza.

La ricostruzione delle diverse esperienze di lotta femminile (dalla palestra della suffragetta Edith Garrud, alle pratiche delle black panthers, alle tecniche di difesa wen-do elaborate in Canada, alle esperienze delle monache buddiste nepalesi dell’Anita Mountain e le Gulabi Gang di Sampat Pali in India) ci ha aiutato a rendere pensabile una dimensione della “forza femminile” non ridotta ad una maggiore sensibilità intesa come la intende la cultura “occidentale”, come atteggiamento sovente lacrimevole, che relega la donna all’obbligo di ‘prendersi cura di qualcuno’, una sensibilità che interiorizza l’inferiorità e viene riconosciuta infine antitetica rispetto alla forza. Con queste parole Chiricosta definisce l’idea di forza che è al centro del Taijiquan, considerato una delle arti marziali più femminili, in virtù del suo fondarsi proprio su principi più facilmente incarnabili in un fisico di donna:

“La sensibilità a cui mi riferisco qui va intesa nel senso più carnale e psicofisico possibile: vuol dire essere in grado di percepire, di sentire – più e meglio del mio avversario – le sue paure, le sue debolezze, le sue motivazioni e, quindi, di elaborare strategie atte a colpire proprio quei punti. La sensibilità “femminile” (…) non avviene tramite la vista, attraverso una sensibilizzazione di tutto il complesso mente-corpo, (…) un atto psicofisico che non sprigioni solo una forma distrettuale – ovvero che utilizzi soltanto alcuni segmenti corporei (…)”(Chiricosta A., 2015, 67)

GIUSTIZIA, DIRITTO, DIRITTI

Il punto di partenza dell’approccio adottato e suggeritoci da Silvia Niccolai e Anna Simone è Non credere di avere dei diritti, il titolo del volume del 1987 della Libreria delle donne di Milano,  che riprende un’annotazione di Weil del 1941:

“Non credere di avere dei diritti. Cioè, non offuscare o deformare la giustizia, ma non credere che ci si possa legittimamente aspettare che le cose avvengano in maniera conforme alla giustizia; tanto più che noi stessi siamo ben lungi dall’essere giusti. (…) Bisogna sempre aspettarsi che le cose avvengano conformemente alla gravità, salvo intervento del soprannaturale. Bisogna essere riconoscenti se si viene trattati con giustizia. Inversamente, non bisogna mai cercare di fare al prossimo altro bene che trattarlo con giustizia.” (Weil S., 1941)

La giustizia non è data ma qui e ora a ogni essere umano è data la libertà di non aderire all’apparenza di giustizia, la giustizia ‘su carta’, e di trattare l’essere diverso da sé con giustizia, vale a dire anzitutto non fargli del male, battersi perché si ponga cura e rimedio a tutte le ferite, privazioni e offese suscettibili di distruggerne o mutilarne la vita terrestre e si provveda al soddisfacimento dei bisogni terrestri del suo corpo e della sua anima. Inoltre, e non secondariamente, trattarlo con giustizia equivale a sapersi tenere alla giusta distanza, non assimilarlo né addomesticarlo, rispettarne il libero consenso – essenziale all’amore perché non si trasformi in stupro, e essenziale all’obbedienza perché non si trasformi in oppressione.

Questo approccio assume su di sè il senso più profondo della ‘differenza’ sotto il cui segno il femminismo si sviluppa, segna uno scarto rispetto all’approccio tradizionalmente avuto dai movimenti per i diritti delle donne. Pensare di non avere dei diritti significa non dare per scontato nulla, ripensare radicalmente la propria postura nei confronti della legge. L’immagine di Antigone e Porzia come eroine che si collocano proprio tra dentro e fuori il giudizio nell’ambito del diritto, sono sul piano simbolico dei riferimenti per ricercare questa postura.

Silvia Niccolai distingue a tal proposito una concezione del diritto come potere, ossia quel diritto che ha la fonte della propria autorità nella ratio, logica e volontaristica del legislatore, nell’azione trasformatrice rispetto all’esperienza, e il diritto come esperienza che ha invece la sua fonte auctoritas nella equità, è un sapere critico e mobilitante che difende l’esistenza di cose opinabili, nonostante sia un cattivo conduttore di decisionalità. Al centro di questo diritto ci sono temi come l’abuso e la tutela dall’abuso, abusi come quello di riparazione, quello di parola.

La tensione tra queste concezioni del diritto esplode oltreché nel caso della maternità surrogata anche nella lettura che Niccolai dà della dinamica seriale innescata dalle liti strategiche sul riconoscimento delle famiglie omogenitoriali. Queste sentenzi delle corti sono liti strategiche in quanto intervengono su un buco normativo della ben recente e nel complesso parziale legge Cirinnà sulle unioni civili, la loro serialità le rende capaci di incidere proprio sul terreno dell’auctoritas a partire da una registrazione della realtà figlia della concezione del diritto come esperienza. Il punto contraddittorio che Niccolai sottolinea è che nella ridefinizione della genitorialità su criteri tutti e del tutto slegati dalle istanze del corpo sessuato (criteri sono ad esempio la bigenitorialità, la dimensione di cura e progettualità nel futuro), criteri che si pretendono neutri, il rischio è nullificare il corpo della della donna che partorisce, cedere all’artificializzazione che il diritto come auctoritas comporta. Lasciar passare una neutralizzazione del corpo nella filiazione rischia di riprodurre gli schemi della famiglia patriarcale nella famiglia omogenitoriale.

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Rotondi L. (Intervista a), Quando vita, lavoro e politica ‘giocano’ insieme, reperibile su Iaph Italia a questo link.

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