Quello che qui dirò di Sensibili guerriere. Sulla forza femminile (Iacobelli 2012, a cura di Federica Giardini) è frutto di diverse conversazioni sul tema del libro con altre, perciò ha un debito nei loro confronti. Lo so. I contesti di dialogo sono stati diversi. Una presentazione del libro assieme a quello di Luisa Muraro, Dio è violent (Nottetempo 2012) al Circolo della rosa di Verona, telefonate, lettere, incontri. Dopo di che ecco qui il filo di ragionamento che voglio presentare.
Parto innanzitutto dalla questione più scottante nel dibattito circolato in questi mesi, e cioè quanto si possa stare in rapporto alla forza senza che questa diventi violenza. Se sia possibile o meno una linea di demarcazione netta tra una esperienza e l’altra. Dico subito che questo non è il tema centrale del libro. Quando l’ho letto la prima volta avevo notato la posizione sostenuta: la forza può diventare violenza a volte, non preoccupiamoci troppo di questo, non leghiamoci le mani in anticipo. Era un’osservazione sorprendente per un certo senso comune genericamente non violento, ma un po’ a lato del testo. Anche perché il saggio di Federica Giardini, che è la curatrice del libro, inizia con questa affermazione: “È la forza che contrasta la violenza, parola di donna”, articolando da qui il suo ragionamento.
Ora, l’elemento dirompente del libro non è tanto che la forza possa diventare violenza in quanto non è possibile tracciare una linea di demarcazione tra un’esperienza e l’altra, ma che siano le donne a parlarne. Le donne protagoniste di un discorso sul proprio agire fondato sulla forza che può anche scivolare in violenza senza troppi sensi di colpa. È chiara l’inversione rispetto all’immaginario maschile: le donne – poverette – sottoposte storicamente a violenza maschile, portatrici per natura di pace e di non violenza nel mondo. Il che non significa che questa figura non sia in parte vera: le guerre sono terribili per le donne, come campo di violenza sregolata contro di loro. E anche: c’è violenza diffusa nei rapporti di coppia degli uomini contro le donne, oggi, perché la libertà femminile ha intaccato la loro virilità. Ma questa figura impedisce di ragionare sul fatto che le donne cha hanno portato misura nel mondo hanno agito la forza. Che parole vere hanno bisogno di forza. Che i conflitti perché una misura femminile abbia corso sono necessari. Che l’autorità femminile ha rapporto con essa. Allora la questione diventa piuttosto: come la forza e quali pratiche.
Infatti un punto di forza del libro – proprio così, punto di forza – è il fatto di non aver cercato fondamenti concettuali e strutturali per dare basi alla forza femminile, ma di aver scandagliato piuttosto una molteplicità di pratiche. Con un’attenzione alla processualità politica: sono importanti le sperimentazioni di pratiche nei diversi contesti per capire quando si intensifica la forza femminile. Con una e fondamentale avvertenza: la forza nasce da una conoscenza e accettazione della debolezza. Altrimenti diventa onnipotenza, rappresentazione di una situazione di tipo immaginario, fantastico.
Credo che questo tema sia centrale proprio ora che il femminismo della prima e della seconda ondata si sta trasformando in altro, in attività di gruppi di iniziative artistiche, di cooperazione, di scrittura, di lettura e studio in comune e in presenza, di autorganizzazione sociale, di blog e siti in rete. Iniziative tutte che nascono sotto il segno di una politicità esistenziale, una visibilità scelta, se pure con misura. Non a tutti i costi. In questo contesto è essenziale allora capire a partire da quali pratiche sorge la forza femminile.
Nel libro se ne parla. La forza, che nasce da una pratica, può divenire uno stile di vita. In questo senso viene dato un posto d’onore alla pratica descritta da Alessandra Chiricosta riguardo le arti marziali orientali quando è una donna a praticarle. Cosa significa in rapporto con il corpo, con la conoscenza dei punti di forza e debolezza dell’altra e propri, della situazione. Un’altra pratica è anche quella di dare ascolto ai sogni, per coglierne con lucidità durante la veglia le vie di orientamento che essi suggeriscono. Ne parla Federica Dragoni in rapporto a Marìa Zambrano, ma il discorso va molto oltre il riferimento alle posizioni di questa filosofa. Così anche lo scandagliare che pratica sia prendere parola in pubblico per una donna (Angela Lamboglia).
Ognuna di queste pratiche richiede analisi, comprensione, narrazione di esperienze. Tra esse ci sono somiglianze, non identità. Nascono, possono anche finire. Ma qui vengono privilegiate quelle che divengono stile di vita.
L’effetto di intensificazione della forza – quando avviene – è sia soggettivo sia evidente agli altri, quindi pubblico, visibile. Ad esempio la relazione tra due donne, vissuta come pratica politica, non solo dà una sensazione di forza a chi ne è parte, ma è guardata come elemento dinamico di cui tener conto, perché rappresenta un polo d’attrazione nella sua visibilità pubblica.
Giustamente Federica Giardini annota che la forza femminile non è proprietà della singola donna, è oltre l’io. Aggiungerei che la pratica, che la esprime, è una disposizione dei corpi, una connessione di circostanze a cui viene impresso un movimento. La disciplina soggettiva che una pratica richiede mette in ascolto di connessioni a cui partecipiamo, di movimenti che ci coinvolgono. Del resto possiamo usufruire di pratiche antiche, che altre hanno agito nel passato, come quelle monastiche, religiose, psicoanalitiche, filosofiche, e più semplicemente di organizzazione della casa. Pratiche che ereditiamo e così facendo reinventiamo.
L’effetto di trasformazione soggettiva e di visibilità pubblica è importante come segnale politico. La visibilità mostra come la forza che si intensifica non è proprietà personale, ma ha una circolazione di cui non possiamo controllare i passaggi, che vanno molto oltre noi stesse, proprio per il fatto che ne siamo parte in una visibilità affidata allo sguardo altrui. Pur avendo di frequente avviato in prima persona tali pratiche.
Per concludere, ritorno su di un punto che forse adesso posso articolare meglio. Nelle discussioni sulla forza ciò che lega le mani, che fa da non detto e da ostacolo, è lo sbarramento tra legale e illegale. Questo mi sembra molto più essenziale del possibile scivolamento della forza in violenza. Non sto dando una giustificazione all’illegalità. Tutt’altro. Sto solo dicendo che la legalità riporta l’agire a ciò che è possibile in quanto azione nell’ambito definito dalla norma, dalla legge, dallo stato. Questo dispositivo fa sì che la forza, nella sua qualità di esercizio eccezionale, sia delegata alle istituzioni statali. Viene delegittimato qualsiasi esercizio della forza al di fuori di tali norme. Questa quadrettatura, questi ritagli, ci riguardano in quanto cittadini di uno stato, ma noi siamo molto di più e di diverso da questo. L’orientamento di giustizia che avvertiamo è molto più profondo. È più grande e più reale della distinzione tra legale e illegale. Scriveva Simone Weil che sono auspicabili quegli ambienti, quelle istituzioni, quelle comunità che danno radici agli esseri umani, per avere energia in più per sradicarsi dalle comunità storiche e orientare l’energia verso la giustizia e la verità come poli indicibili. Giustizia sovrannaturale e comunità storiche non coincidono.
Una parte del movimento delle donne ha ragionato a lungo e in un modo molto ricco su questo. Anche perché il femminismo ha preso una posizione esorbitante rispetto ai codici portanti. Non contro la legge, ma alla ricerca di una misura e di un orientamento altro, da inventare, da scoprire. In un processo in divenire. È con questa misura che la forza femminile si confronta.