E’ necessario “prendere”,
“prendersi” la realtà, non perderla.
E per prendere, per stare nella realtà,
come ha insegnato Simone Weil,
non si può evitare
il nocciolo duro della necessità
(S. Tarantino. Introduzione a Femminismo e neoliberismo.
Libertà femminile versus imprenditoria di sé e precarietà)
Ci vuole del coraggio ad affiancare due parole potenti come femminismo e neoliberismo , con l’intento di ottenere uno schizzo della soggettività femminile scritta e riscritta dell’avvento di quella immensa forma di governo delle vite, che va appunto sotto il nome di neoliberismo. Ci vuole coraggio perché l’accostamento è gremito di trappole e conclusioni pericolose, prima tra tutte proprio la possibilità di depotenziare quell’esperienza trasformativa assolutamente straordinaria che è stata ed è il femminismo. Non è semplice gettarsi nelle acque in cui nuotano le sirene della sconfitta e della disperazione, provando incessantemente ad evitarne il lamento.
Di fatti, come emerge più volte già dalle prime pagine di questo testo prezioso e intraprendente, quando utilizziamo la parola neoliberismo non definiamo esclusivamente la razionalità (irrazionale) dell’economia contemporanea, ma piuttosto un discorso, una forma di governo dei viventi tutta incentrata sulla marchiatura profonda delle soggettività, sulla costruzione meticolosa ed instancabile di un’etica della mortificazione e della vittoria, dell’inclusione e del fallimento. Come ripetono insistentemente le voci delle autrici, parliamo di un’ idea di potere niente affatto repressiva e occlusiva ma di una radicale macchina di compartecipazione delle singolarità alla produzione di dispositivi di controllo e di dominio, di coercizione e di impoverimento. Una nuova ragione del mondo per dirla con Dardot e Laval[1], che lambisce tutte le terre emerse, provando a gettare ogni singola cosa, fenomeno, espressione, sotto il manto della misurazione e della mercantilizzazione coatta. Quella che conduce il neoliberismo è insomma una silenziosa battaglia contro l’eccedenza, che mira alla neutralizzazione ed alla appropriazione. Proprio questa incessante contesa, questa contraddizione lampante tra libertà femminile eimprenditoria di sé, spinge le autrici a chiedersi in che misura il femminismo si sia trovato implicato dentro questa trasformazione ed in che misura, nella battaglia contro i tentacoli neoliberali, la soggettività femminile sia riuscita a conservare quella dissonanza, quella irriducibilità alla logica del binario e dell’universale, che proprio il pensiero della differenza aveva teorizzato come foriera di epocali stravolgimenti nella storia del logos occidentale. La posizione più radicale sul tema, con cui alcuni dei saggi (Bazzicalupo, Dominijanni, Esposito) fanno esplicitamente i conti mentre gli altri comunque ne affrontano tangenzialmente le questioni, è evidentemente quella che Nancy Fraser ha espresso di recente in un articolo pubblicato sul The Guardian dal titolo eloquente “Come il femminismo divenne ancella del capitalismo”.
Nel testo l’autrice americana denuncia una sostanziale ed ineluttabile sussunzione del nuovo (e cattivo) femminismo alle logiche economiche del neoliberismo, soprattutto attraverso alcuni passaggi storico- sociali precisi: la lotta per il salario, la denuncia della violenza domestica e delle questioni che attengono più generalmente la sessualità e la critica allo stampo patriarcale del welfare state. L’amara costatazione, che difficilmente si riesce a liquidare come un lamento pessimista ed improduttivo, ha a che fare con le inedite armi che il neoliberismo ha sfoderato per valorizzare la differenza e la singolarità, superando i processi massivi di omologazione e irreggimentazione che avevano caratterizzato buona parte del novecento e con cui si era confortato il primo femminismo. Il j’accuse della Fraser di fatti intende esplicitare l’inadeguatezza delle femministe al cospetto della governamentalità neoliberale e dunque l’assestamento delle stesse su battaglie di retroguardia o assolutamente compatibili con la forma del governo contemporaneo, incapaci di scalfirne lo statuto complessivo.
La posizione della Fraser non è l’unico termine di confronto ma è tuttavia quella che, attraverso l’esasperazione dei toni e la provocatorietà delle conclusioni, si può assurgere a paradigmatica di tutte le trappole nascoste dietro questa relazione pericolosa.
Così le autrici si interrogano incessantemente, a partire da sé e dal proprio posizionamento di femministe nell’era del neoliberismo che governa attraverso la crisi, provando a condividere possibili linee di fuga, vecchi e nuovi rimedi che diano la forza utile all’eccedenza sessuata, per vincere la battaglia contro i processi di violenta valorizzazione di bios. E’ così che Tristana Dini propone di «scavare dentro di noi per capire dove si aprono le lacerazioni, dove può avvenire un taglio col simbolico neoliberale». Federica Giardini in riferimento a quella dimensione conflittuale femminile ed ambivalente che Loraux chiama stasis, ridefinisce il conflitto necessario come ciò che «si potenzia e dilaga come forza di distruzione dell’umano stesso, perchè coglie il politico là dove si ritaglia e si staglia la contro la dimensione umana e naturale». Laura Bazzicalupo propone piuttosto, di imparare a sfuggire agli innumerevoli ricatti mascherati da libertà e di partire dal bisogno di riappropriarci di quella meravigliosa formula della sottrazione, quel «preferirei di no» con cui Bartleby, con voce singolarmente ferma, cominciò a rifiutare. Ancora, Elettra Stimilli, prendendo di petto una delle contraddizioni più esplicite dei processi di valorizzazione e soggettivazione contemporanei, il debito , propone una lettura butleriana dello stesso neoliberismo, sottolineandone il carattere non solo coercitivo, ma la complessa vita psichica sottesa al suo stesso potere. Tuttavia, scrive sempre Stimilli al fine di aprire al possibile riscatto della differenza, «il potere in quanto intimamente connesso alla vita , comporta anche e soprattutto la possibilità di critica costante, in grado di sperimentare nuove forme di cooperazione sociale. Su questa strada il pensiero femminista ha ancora molto da dire proprio a partire dalla sua matura e fruttuosa riflessione sulle dinamiche di dominio».
E’ così che attraversando questi come tutti gli altri saggi che si susseguono nel libro si ha l’impressione di metter insieme i pezzi di una rivalsa; una risposta collettiva alla domanda di Fraser, che suona come l’invito a non sottovalutare la complessità, il polimorfismo, le temporalità, le dissonanza e le lontananze dei femminismi stessi.
Una risposta che è in realtà rivolta a tutte le femministe che si interrogano su come direzionare l’azione in un mondo in il cui partire da sé può essere frainteso con una esasperazione dell’individualismo e dell’autoreferenzialità supportata dalla centralità assunta dalla differenza. Un mondo in cui la rivendicazione di autodeterminazione del proprio corpo sessuato nasconde dietro l’angolo innumerevoli forme di mercificazione del corpo stesso. Un mondo in cui le morali della libertà vigilata si confondono sempre più con processi di liberazione e di emancipazione reali ed i confini sfumano fino a diventare impercettibili.
In questo mondo, quello della nuova ragione neoliberale, essere femminista è una sfida che chiama all’attenzione costante, alla provocazione, all’eterodossia, alla sperimentazione e pure al tradimento della memoria.
Questo testo va certamente in queste direzioni senza troppe timidezze.
E’ un testo prezioso per proseguire spedite, scrollandosi di dosso il peso dell’inadeguatezza ed abbracciando una sfida che dalle sue stesse trappole trae la linfa per evitare errori grossolani e semplificazioni ingenerose.
[1] Dardot P. , Laval Ch, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, trad. di R. Antoniucci e M. Lapenna, Deriveapprodi, Roma. 2013 (2009)
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