INTRECCI TRA ETEROSESSUALITA’ OBBLIGATORIA E PATRIARCATO
Questo è un tentativo di riflessione sul rapporto che ha legato e slegato, da ormai quasi quaranta anni, teoria lesbica e teoriafemminista a partire da due concetti chiave: uno, l’eteronormatività o, come si diceva un tempo, l’eterosessualità obbligatoria è (stato) uno strumento analitico fondamentale per l’elaborazione teorica lesbica; l’altro, il patriarcato, appartiene tanto alla teoria femminista quanto a quella lesbica. Tuttavia solo per il pensiero lesbico eterosessualità obbligatoria e patriarcato sono tra loro strettamente intrecciati.
Semplificando, direi che in Italia le distinzioni all’interno del femminismo oggi sono generazionali; cosicché, a fronte di nuovi interessanti e anche numerosi femminismi più originali nella comprensione della modernità, abbiamo il paradosso del pensiero della differenza per il quale l’eterosessualità obbligatoria non è mai nata mentre il patriarcato, dato già per morto negli anni Ottanta, è definitivamente rimorto nella prima decade del nuovo millennio.
Ho legato questa riflessione alla grande forza positiva e propositiva delle donne a fronte dell’attacco a tutto tondo che è stato portato loro negli ultimi vent’anni, segnatamente e vergognosamnete dai governi Berlusconi ma fin troppo spesso, se non con la complicità, con l’acquiescenza della sinistra: sono tutti costoro e non le donne, con buona pace di Piero Ostellino, che sono inamovibilmente seduti sulla cosa più preziosa che hanno, la loro poltrona.
L’occasione di queste osservazioni sono state “Le cinque giornate lesbiche” che si sono svolte a Roma l’anno scorso tra il 2 e il 7 giugno; nei seguitissimi dibattiti della sezione “Teoria” abbiamo ripreso a discutere tutti quei concetti che sono (stati) fondamentali nell’elaborazione teorica lesbica: dal separatismo al lesbofemminismo, dal pensare attraverso il gender all’omofobia, dall’eterosessualità obbligatoria al patriarcato al queer, dalla teoria degli affetti alle nuove forme di controllo biopolitico dei corpi – e di questo ringrazio il bravo gruppo di donne che le hanno organizzate. Questo è il breve riepilogo, un po’ semplificatorio, di un intervento decisamente più ampio e complesso – “L’eterosessualità obbligatoria, il patriarcato (e Berlusconi)” – che è parte del volume Le Cinque giornate lesbiche in teoria (a cura di Liana Borghi, Francesca Manieri, Ambra Pirri) appena pubblicato dalle edizioni Ediesse; gli Atti delle cinque giornate lesbiche sono anch’essi appena usciti insieme a un dvd.
Quali sono le cause della subordinazione sociale delle donne, si chiedeva nel 1975 Gayle Rubin in un saggio fondamentale sulla scambio delle donne, oggi – in particolare modo in Italia – ancora di grande attualità. Semplificando la sua complessa risposta si può dire che questo scambio è alla base dei rapporti tra gli uomini che creano così alleanze e legami tra loro; le donne continuano a essere viste dagli uomini come possedimenti materiali e la specificità dell’oppressione femminile coincide con la loro appropriazione da parte degli uomini: siccome sei femmina vieni ridotta a sesso e a proprietà per potere essere variamente utilizzata; il desiderio non c’entra, è di controllo-potere che si tratta (Colette Guillaumin, 1978), proprio come accade nello stupro che ne è la forma estrema. In questo scambio, le donne girano in un senso mentre il falllo gira in senso opposto: “è dove non siamo noi”; le donne dunque non avrebbero la possibilità di “possedere il potere che deve circolare attraverso di loro” (Rubin).
La questione è: le donne sono ‘incapaci’ di possedere il potere o sono state incapacitate, impossibilitate? La mia risposta è che le donne sono, ancora oggi e soprattutto in Italia, ‘incapacitate’: lo sono e lo saranno fintanto che vengono e verranno sessualizzate, oggettificate. Per questo Berlusconi e la sua corte di servi sono così impegnati in questo lavoro; non a caso, e come ha scritto il Washington Post, “tutta la sua carriera è stata costruita sul sessismo”.
L’altro caposaldo dell’oppressione femminile è la divisione sociale del lavoro tra maschio e femmina, che non risponde a nessuna necessità naturale ma ha la funzione di assicurare l’unione di uomini e donne: è un espediente che crea “uno stato di reciproca dipendenza tra i sessi” perché divide uomini e donne in categorie chiuse, binarie; è “un tabù contro l’eguaglianza fra uomini e donne, […] un tabù che esaspera le differenze biologiche e crea così il gender” (Rubin). L’asimmetria è dunque la condizione delle relazioni maschio-femmina e Karl Marx e Friedrich Engels ([1932] 1958) sono stati i primi a capire che la più grande guerra della storia è, fin dall’inizio, quella tra i sessi; il punto è che gli uomini l’hanno sempre occultata dietro l’esercizio costante del sessismo che è, insieme al razzismo, anche questo ampiamente praticato a partire dalla cosiddetta scoperta dell’America, uno specifico dispositivo di dominio e di governance biopolitica.
Il tabù contro l’eguaglianza implica anche il tabù contro altri tipi di rapporti sessuali che, se previsti o consentiti, non renderebbero obbligatorio il matrimonio eterosessuale ed eliminerebbero quel binarismo coatto che è alla base del potere maschile. L’organizzazione sociale dei sessi si basa dunque sul gender, l’eterosessualità obbligatoria e la repressione della sessualità femminile. Appartenere a un gender vuol dire identificarsi con un sesso e “indirizzare il desiderio verso il sesso opposto”. Perché finisca il sistema sociale che produce il sessismo (cioé il potere maschile, il patriarcato) bisogna porre fine – questa la proposta politica di Rubin – ai ruoli sociali imposti; noi non siamo oppresse solo come donne ma per dover essere donne o uomini. Il cambiamento delle donne dunque non basta, devono cambiare anche gli uomini.
Questa indifferenza al cambiamento dell’altro è uno degli errori più gravi di una gran parte del femminismo bianco. Nel 1980, Audre Lorde – poeta, lesbica, nera, come lei stessa si definiva – scriveva: “È responsabilità di chi è oppresso insegnare all’oppressore i propri errori […] Le donne devono educare gli uomini. Le lesbiche e i gay devono educare il mondo eterosessuale. Chi opprime rimane sulle proprie posizioni ed elude le responsabilità delle proprie azioni.“ (Lorde 1980, 1984).
La stessa Rubin, già trentasei anni fa, era convinta che senza una trasformazione dei rapporti tra donne e uomini niente sarebbe davero cambiato; il suo sogno era che non fosse l’anatomia a decidere con chi si deve fare l’amore; sosteneva che il femminismo, e questo era il suo progetto politico, “deve lottare per una rivoluzione del sistema di parentela” (Rubin [1975] 1976); cambiare il sistema di parentela significherebbe infatti trasformare la famiglia patriarcale. Questo è anche uno degli obiettivi di lotta di Judith Butler.
Se padri e madri si prendessero ugualmente cura dei figli, e non ci fosse dunque una divisione sessuale del lavoro, entrambi i genitori potrebbero essere il primo oggetto d’amore (bisessuale); e se l’eterosessualità non fosse obbligatoria non si creerebbe quella gerarchia genitale che porta alla sopravvalutazione del pene; se l’eterosessualità non fosse obbligatoria, gli uomini imparerebbero a pensare che un essere umano non è e non può essere una cosa di proprietà; Sandro Bellassai ci ricorda che “non può essere libero un genere che ne opprime un altro”.
Invece l’eterosessualità obbligatoria è in Italia, ancora oggi, una categoria di analisi completamente ignorata dalla sinistra ma anche da buona parte del femminismo. Non è certo un caso che, mentre il femminismo bianco ha continuato a utilizzare la donna/le donne come categoria fondativa del proprio pensiero, il femminismo lesbico e quello afro-americano l’hanno messa in discussione. Da qui le numerose riflessioni impegnate nel tentativo di capire questo nuovo e controverso soggetto: che sia eccentrico o sleale nei confronti della civiltà, che si parli di nueva mestiza o di womanist, di altra inappropriata o di infedeltà alla realtà fallocratica, di sorelle ousider o di nomadi, tutte queste figure affrontano il “paradosso” (De Lauretis 1990 [1999]) della donna con l’obiettivo di sfuggire alle rappresentazioni del pensiero maschile ma anche di andare oltre al nome di donna teorizzato dal pensiero della differenza sessuale, e cioè la donna definita in rapporto all’uomo, e all’interno di un sistema sessuale binario. Il femminismo bianco, nell’universalizzare la propria esperienza ha finito per essere complice del mostruoso soggetto sovrano maschile e dell’Occidente che ne è la sua estensione; ha finito per situarsi dalla parte dell’eurocentrismo e del razzismo e per colludere, come ha scritto Teresa De Lauretis in sintonia con Audre Lorde, “con l’ideologia del medesimo”.
Ben lungi dall’essersi lasciato il patriarcato alle spalle, l’Italia ne è un esempio perfetto perché non ha neanche quei correttivi che funzionano nelle altre democrazie occidentali. Nel nostro paese la democrazia è stata totalmente sequestrata dagli uomini e infatti è bloccata, e niente è più incivile e corrotto della nostra convivenza a partire dall’amministrazione della cosa pubblica per arrivare alla nostra vita quotidiana. Proprio come la democrazia anche il corpo delle donne è stato sequestrato dal patriarcato. L’attacco che è stato portato all’accessso femminile alle istituzioni e alla loro possibilità di lavorare è senza precedenti. E l’uso che viene fatto dei corpi delle donne, dal mercimonio alla loro oggettificazione spettacolare, ha a che fare con la performatività di cui ci parla Judith Butler: le veline, le meteorine, le escort, le letteronze – la banalità è il necessario supporto del sessismo come sistema di potere – performano un certo modo di interpretare l’essere donna; con le loro performances, ripetono e citano eterosessualità e binarismo sessuale, rafforzando dunque l’una e l’altro.
La materialità del corpo, dice Butler, non viene solo investita dalla norma, in un certo qual modo viene proprio animata, sagomata dalla norma. Certo che esistono le differenze biologiche ma “in quali condizioni discorsive e istituzionali – dato lo stato anomalo dei corpi nel mondo – determinate differenze biologiche diventano la caratteristica rilevante di un sesso?” (Butler 1993, 1994). Quando si prendono il maschile e il femminile e si costruisce una coppia binaria, il campo che viene prodotto prevede solo queste due possibilità che si escludono e si definiscono a vicenda, eliminando ogni altra possibilità. “Demolire il presupposto binario è uno dei modi per privare l’egemonia maschile e l’eterosessualità obbligatoria del loro gioiello più prezioso, della loro premessa primaria” (Butler 1987).
Per gli uomini, infatti, l’eteronormatività riproduttiva è l’inico orizzonte possibile e, piuttosto che pensare di cedere anche piccole porzioni di potere, preferiscono la morte (in genere quella delle proprie compagne); senza l’asimmetria tra i gender che consente loro di pensarsi e spesso anche di fare i padroni nel privato (da qui la sua esistenza separata) e nel pubblico (ci sarebbe da chiedersi, con Geneviève Fraisse [1996], “se c’è un legame necessario tra l’istituzione della democrazia e l’esclusione delle donne”) perdono la testa. L’acuirsi del sessismo, del razzismo e dell’omofobia ci parlano della crisi degli uomini e del patriarcato, così come i nazionalismi risorgenti in tutto il mondo ci parlano della crisi dello Stato-nazione (Sandro Mezzadra 2008).
Ma la crisi è una cosa e la fine è un’altra: è la crisi che dobbiamo capire e analizzare senza fare facili trionfalismi. La reazione all’11 settembre è stata una riaffermazione tanto dello Stato-nazione quanto del patriarcato che hanno mostrato i muscoli; risposta patriarcale, sovrana, del soggetto e dello Stato sovrano che usano tutti gli strumenti del maschile eterosessuale: sessismo e razzismo, patria e guerra, donne da liberare o da proteggere e in nome delle quali andare eroicamente in guerra; certo fare finta di essere virili guerrieri è più facile che fare i conti con l’alterità; del resto anche la nazione e la patria sono grandi narrazioni assai pericolose per le donne a causa dello stretto intreccio che esiste tra nazionalismo, militarismo e sessismo con tutta la retorica nazionalista fondata sulla legittimità della riproduzione etero.
Anche all’inizio del secolo scorso vi fu una grande crisi di identità e di legittimità maschili perché le donne – la seconda generazione di femministe molte delle quali lesbiche – avevano messo in discussione ‘quei’ rapporti di potere.
Dopo la prima guerra mondiale la crisi si acuì perché la guerra aveva consentito alle donne di entrare nella sfera pubblica e di ‘usurpare’ lavori maschili. Pur di non fare i conti con le donne, con altri tipi di sessualità o con qualunque forma di diversità rispetto al maschio bianco eterosessuale e occidentale, gli uomini risolsero la loro crisi con i totalitarismi, con i campi di concentramento e con un’altra guerra; il nazismo e – seppure in misura minore – il fascismo sterminarono fisicamente tutto ciò che era Altra/o: cominciarono con i “diversamente abili” ammazzati direttamente negli ospedali e continuarono con gli ebrei, i rom, le ragazze-madri, le prostitute, le lesbiche e i gay, i dissidenti politici.
Oggi, tutte e tutti costoro non vengono più uccise/i, l’eliminazione riguarda solo l’Altro esterno, il migrante, compito che viene non a caso affidato a dittatori di nostra fiducia; oggi – e sto parlando dell’Italia – l’altra e l’altro interno vengono più semplicemente comprati; e se non sono acquistabili, vengono delegittimati acquistando le parole che li distruggeranno. La cosa che gli uomini continuano a evitare con cura è di fare i conti con l’alterità; la logica del medesimo deve continuare a trionfare. La violenza degli uomini contro le donne, con i fatti e con le parole, è il sintomo di questa incapacità maschile di guardare in faccia l’Altra senza sottometterla, di avere rapporti simmetrici o in cui l’asimmetria possa essere continuamente in gioco lasciando aperto il libero movimento delle differenze.
Per concludere, l’Italia a me sembra quasi un laboratorio occidentale di eterosessualità obbligatoria e dunque di egemonia – o forse addirittura di dominio – maschile, perché non ha neanche quei correttivi liberal-democratici che funzionano nel resto dell’Occidente: Berlusconi e il Vaticano – e dovrei aggiungere le mafie – sono, insieme, un esempio moderno di due (tre) patriarcati che si sostengono a vicenda e che hanno completamente sequestrato e bloccato la democrazia. Ha ragione Chiara Saraceno (2011), il problema non sono le quote rosa ma quelle azzurre, perché hanno il monopolio di tutto. Siamo davvero sicure (e sicuri) che i maschi sono capaci di gestire la fortuna sulla quale siedono?
BIBLIOGRAFIA
Bellassai Sandro, “Femminile e Maschile tra ‘800 e ‘900. Soggettività e rappresentazione sociale”, in Gambi Laura, Patuelli Maria Paola, Simoni Serena e Spaolonzi Cinzia (a cura di), Partire dal corpo. Laboratorio politico di donne e uomini, Ediesse, Roma, 2011.
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Ostellino Piero, “L’immagine e la dignità del Paese”, Il corriere della sera, 19 gennnaio 2011.
Saraceno Chiara, “La quota protetta”, La Repubblica, 8 marzo 2011.