”]Lasciamoci educare da loro, dai bambini, che non si turbano affatto del colore di pelle differente, dei nomi con suoni diversi, del plurilinguismo, degli abiti differenti, ma sanno trovare i loro linguaggi comuni. Guardandoli giocare nei corridoi una cosa appare certa: non nasciamo razzisti, questo è il loro mondo, lasciamoli in pace.”[Cecilia
Voci di donne migranti si inserisce all’interno di una collana che prende il nome di Sessismoerazzismo, nome scelto per sottolineare l’intreccio che da sempre l’ideologia delle razze, imposta per creare gerarchie sociali apparentemente naturali, intrattiene con il sessismo. Tale legame emerge in maniera emblematica attraverso le esperienze di alcune donne che in Voci di donne migranti vengono raccontate.
Il libro è composto da un insieme di narrazioni in forma autobiografica raccolte tra il marzo 2006 e il marzo 2007, in cui ci vengono raccontate le storie di alcune donne che hanno intrapreso un viaggio lontano dalla propria terra d’origine, a volte per necessità o altre volte per un desiderio di cambiamento.
Si tratta, in ogni caso, di donne la cui voglia di conoscere, di viaggiare, di mettersi alla prova, le spinge fuori dai confini del proprio paese per mettersi in viaggio verso una meta lontana, spesso sconosciuta, straniera.
I loro destini, mai facili e irti di difficoltà, specialmente se affrontati in solitudine, prendono forme mai immaginate, rivelandosi certamente una crescita personale, ma spesso troppo violenta.
Sono forti le esperienze di vita che ci vengono raccontate in queste pagine: alcune al limite dell’umano, come quella di Sahra che è costretta a lasciare la Somalia in guerra e che si trova a dover affrontare da sola, senza cibo e senza acqua, un parto nel deserto, o altre ancora in cui la rinuncia ad una vita trascorsa accanto ai propri figli diventa motivo di vuoti e di mancanze incolmabili.
Le difficoltà che ogni migrazione comporta sono enormi: la ricerca di una casa, convivenze difficili, lontananza dagli affetti, la ricerca di un lavoro, la lingua. Inoltre, in molti casi, l’impossibilità di migliorare la propria posizione di migrante, sia da un punto di vista lavorativo che sociale o linguistico (anche a causa di una mancanza di tempo che costringe a dedicare la propria giornata interamente al lavoro, o alla sua ricerca, per riuscire a pagare bollette e affitti sempre troppo cari) contribuisce ad acuire differenze sociali che portano i migranti e le migranti a rimanere ai margini della società e soprattutto ai margini delle proprie aspirazioni di vita.
In Italia le possibilità per i migranti, specialmente se provenienti da determinate parti del mondo, sembrano essere davvero scarse: dalle pagine di Voci di donne migranti viene fuori l’immagine di un paese spesso razzista, pieno di pregiudizi e di stereotipi, dove l’emarginazione sociale dei migranti è ancora molto forte.
Tuttavia non mancano incontri positivi e relazioni piene di solidarietà vissuti dalle protagoniste di queste storie, come anche momenti in cui, il nostro, appare un paese libero, almeno per alcune di loro.
Le donne di cui si racconta nel libro si stabiliscono a Roma non sempre per una scelta volontaria, ma anche in seguito a circostanze casuali o dettate da necessità contingenti che le costringono a mutare i propri stili di vita, nonché, talvolta, all’abbandono definitivo dell’idea di un ritorno nella terra natia, spesso per questioni economiche e burocratiche (il costo oneroso del viaggio e la mancanza di documenti diventano grandi ostacoli) o, ancora, per l’arrivo di un figlio.
Il libro ci racconta di donne che hanno studiato, che sono laureate o che hanno già lavorato nel loro paese d’origine, dove sono state insegnanti, infermiere, impiegate negli uffici, ma a cui, in Italia, vengono spesso riservati i lavori più denigrati.
Sono donne giudicate per il lavoro che sono costrette a svolgere, lavoro che spesso non ha niente a che fare con gli studi da loro compiuti.
Fare la colf per alcune di loro si rivela, da un lato, il lavoro più redditizio perché «pagato bene» e perché evita molti dei problemi legati all’alloggio, ma dall’altro esso comporta troppa sofferenza a causa degli stereotipi sociali. La colf, di frequente, viene recepita socialmente come una serva, la cui vita sacrificata al lavoro quasi mai le riconosce sentimenti e necessità sociali; i lavori che spesso vengono riservati ai migranti e alle migranti, a volte, sembrano avere il gusto di una concessione che implica una contropartita troppo alta.
Tante sono le speranze di queste donne e tanti i sogni per il futuro viaggio verso la terra straniera che, una volta raggiunta, svela invece un mondo pieno di incertezze e di difficoltà che mandano in frantumi desideri e aspettative. Le capacità e le aspirazioni lavorative delle protagoniste vengono sacrificate alla necessità della sopravvivenza, che è ancora più dura quando ci si ritrova ad essere nello stesso tempo donne e migranti, spesso senza documenti, senza lavoro o, quando se ne ha uno, pagato in nero senza nessun diritto. Alle difficoltà che la condizione di immigrate comporta, si aggiungono quelle legate alla condizione di donne e di madri in una società che ancora oggi penalizza queste figure.
Le avversità con cui ognuna di loro deve faticosamente misurarsi aumentano, infatti, quando diventano madri. Continuare a lavorare, senza nessun tipo di sostegno e senza garanzie, anche quando si ha un figlio a cui badare, è quello che la maggior parte di loro è costretta a fare: vivere in una società che non riconosce il loro diritto ad essere madri rende più violento l’impatto con una realtà già dura, che riserva molti momenti di sconforto e di solitudine, e a cui si aggiungono non rari episodi di razzismo.
Molte volte anche i rapporti con i servizi sanitari sono complicati: in tante delle esperienze di gravidanza raccontate, la diversità di lingua, di abitudini e di colori diventano, da un lato, la causa di un forte senso di solitudine e di incomprensione da parte di chi subisce un’ingiustizia e, dall’altro, motivo di una diversa scala di urgenze e priorità, anche quando cura e attenzione, specialmente negli ospedali, dovrebbero avere stessa validità per tutte e per tutti.
La maternità è uno degli eventi, forse il più importante, che segna profondamente tutte le esperienze che in questo libro vengono raccontate; questo non solo perché costringe alla ridefinizione del progetto di vita per tutte le protagoniste, ma perché una maternità vissuta lontana dagli affetti e dalle tradizioni culturali d’appartenenza comporta necessariamente un continuo confronto con le proprie abitudini d’origine. La conservazione della propria identità culturale attraverso il mantenimento di alcune pratiche e usanze di origine, specialmente nel periodo di prima maternità, diventa per queste donne unico filo diretto con le proprie origini che con cura viene preservato proprio in risposta alla mancanza degli affetti della propria terra.
Il confronto con le proprie usanze non avviene solo in relazione a pratiche e costumi culturali differenti, ma anche riguardo a relazioni con figure istituzionali e sociali, come medici, insegnanti, servizi sanitari e scolastici, madri di altri bambini, che in qualche modo influenzano l’esperienza di vita di donna e di madre.
Il paragone con una cultura diversa dalla propria, inoltre, acuisce la sensazione del “sentirsi straniera” per molte delle donne che attraverso il libro si raccontano; questo accade in particolar modo quando solitudine e sofferenza, che non di rado accompagnano la loro gravidanza e il parto, vissuti talvolta anche come esperienze traumatiche, vengono intensificate dallo scontro con una realtà (quella italiana) che, puntando sulla medicalizzazione della gravidanza, rende quelle donne ansiose e poco tranquille, contrariamente a quello che accadrebbe nei loro paesi di origine dove il parto avviene per la maggior parte dei casi in casa e dove la gravidanza verrebbe affrontata tra gli affetti e le comodità familiari.
Si capisce così come il sentirsi straniere nel paese ospitante diventa motivo costante di ogni storia che il libro ci racconta.
Con il passare del tempo anche la terra di origine diventa troppo lontana; e non solo spazialmente. Per molte di queste donne, si fa sempre più reale la sensazione di non aver più patria, sensazione che è conseguenza di una vita in bilico tra una cultura (la propria) ed un’altra (quella del paese ospitante), soprattutto quando l’arrivo di un figlio determina un legame indissolubile con la terra d’arrivo, generando una sorta di doppia identità che si riflette in ogni aspetto della quotidianità delle loro vite.
Quelle qui raccolte sono narrazioni di vite differenti a cui spesso fanno da sfondo abitudini che vengono accettate come normali, giuste e tradizionali, che però non impediscono a ciascuna donna di reclamare i propri diritti di cittadina e di donna, di madre e di migrante, nel rispetto della propria identità culturale.
Ai racconti seguono alcuni saggi e interventi scritti da altre donne che si sono lasciate toccare e modificare dalla realtà di quelle donne che hanno incontrato nella loro esperienza di donne e di lavoratrici.
Trovare un nuovo modo di relazionarsi con gli altri e le altre è l’auspicio con cui si chiude il libro: Voci di donne migranti vuole dare voce e parola a tutte quelle donne che ne sono state private o che non vengono ascoltate perché ammutolite da una società che emargina chi non risponde a determinate caratteristiche sociali, facilitando l’inserirsi nell’opinione pubblica di stereotipi sociali e pregiudizi culturali.
Le donne che si raccontano attraverso il libro hanno preso parola per dare un senso a se stesse nel mondo, insieme agli altri e alle altre. E in questo la politica assume un ruolo fondamentale: per alcune di loro la politica diventa parte integrante della propria vita, si trasforma nel veicolo attraverso cui prendere parola a favore di quei diritti che troppo spesso vengono negati ingiustamente.
”]“…se fossimo nel nostro paese avremmo voce, urleremmo…””