di Sandra Burchi
Nel marzo 2020 è uscito in Italia, per le edizioni Ombre Corte, un testo di Colette Guillumin “Sesso, razza e pratica del potere (ombre corte, a cura di, pp. 245, euro 22). Il volume pubblicato in Francia nel 1992 e riedito nel 2016, raccoglie articoli e saggi della studiosa francese scritti fra il 1977 il 1992. Sara Garbagnoli, Vincenza Perilli e Valeria Ribeiro Corossacz hanno tradotto e curato l’edizione italiana con il chiaro intento di “riempire un vuoto presente in Italia nel dibattito femminista e sul razzismo”. Guillaumin è, infatti, un’autrice poco conosciuta e poco tradotta. Sociologa e antropologa, è stata ricercatrice presso il Centre National de la Recherche Scientifique en France (Cnrs). Negli anni ’70 e ’80 ha fatto parte del collettivo di “Questions feministes” e ha partecipato alla fondazione della rivista “Le Genre Humain”. Si tratta di due riviste importanti che segnalano bene i suoi due campi di interesse teorico e di militanza, il femminismo e l’antirazzismo, intese come questioni intimamente connesse. Ha insegnato fra la Francia e il Canada e ha pubblicato libri e articoli su riviste internazionali portando avanti la sua ricerca e la sua riflessione in un confronto continuo con figure come Nicole- Claude Mathieu, Monique Wittig, Paola Tabet e Christine Delphy, ringraziate, anche in questo testo, per il loro lavoro teorico e per la capacità di mettere in discussione le “evidenze” cioè “la forma sacra delle ideologie”. Solo negli ultimi anni i lavori di queste autrici – rappresentanti di quello che è stato definito il femminismo materialista francese – sono stati tradotti o inclusi come punti di riferimento nel dibattito italiano (basti pensare alla traduzione di Federico Zappino degli scritti di Monique Wittig o a quella di Deborah Ardilli di Christine Delphy). Le curatrici del volume individuano tre ordini di ragioni su questo ritardo: il lungo periodo in cui la teoria della differenza sessuale – approccio diametralmente opposto a quello del femminismo materialista – ha dominato il campo degli studi e del dibattito femminista in Italia, la grande attenzione a una triade di autrici molto discusse e quasi integralmente tradotte come Cixous- Kristeva- Irigaray, e la negazione sistematica e fortemente radicata nel senso comune della storia italiana di razzismo e colonialismo. C’è da dire, inoltre, che anche solo rimanendo al femminismo italiano, le correnti più decisamente marxiste-materialiste hanno cominciato a emergere come tradizioni politiche solo negli ultimi anni. Esperienze importanti come quelle di Lotta femminista, o dei Comitati per il Salario al lavoro domestico, che hanno avuto in alcune città italiane una forte presenza negli anni Settanta, sono state solo recentemente riprese, studiate e messe al centro di rivelanti analogie con le battaglie femministe che animano il nostro presente. Sesso razza e potere esce dunque in un momento di grande interesse per i filoni del femminismo di impianto marxista e materialista – come dimostra la centralità assunta dal lavoro di Silvia Federici o la ristampa dei lavori di Mariarosa Dalla Costa – e rappresenta un utile serbatoio di concetti che dialogano con la contemporaneità dei femminismi più sensibili a questo approccio.
Filo rosso fra i saggi che compongono il volume sono due concetti: sesso e razza, categorie che l’autrice mette al centro di un profondo lavoro di decostruzione e denaturalizzazione. La visione di Guillaumin è radicale: razza e sesso non esistono. Sono «fatti sociali», ma non realtà. La razza e il sesso sono costruzioni sociali così come razzismo e sessismo sono forme di ideologia ancorate alla naturalizzazione di questi fenomeni. Nella teoria di Guillaumin, come in quella elaborata dalle altre femministe materialiste, lo specifico sistema di oppressione subito dai gruppi sociali non egemonici si dispiega attraverso l’inscindibile articolazione di fatti materiali e simbolici. Quelli legati al sesso e alla razza sono i più difficili da scardinare perché completamente invisibilizzati dalla credenza in ragioni di ordine naturale che li istituzionalizzano. Nel saggio “Il corpo costruito”, uno dei pochi già presenti in versione italiana, grazie alla traduzione di Gaia Giuliani e a un saggio introduttivo di Renate Siebert su Studi Culturali (2/2006), Guillaumin chiarisce che la sessuazione biologica dei corpi non ha in sé niente di evidente: “Il lavoro per rendere il corpo sessuto, per fabbricarlo tale, è un’impresa di lungo termine, che ha inizio molto presto, dai primi secondo di vita, e non è mai compiutamente realizzata, poiché ogni singolo atto dell’esistenza ne è coinvolto e ogni età della vita introduce un nuovo capitolo a questa formazione continua”. (p.134). Citando a più riprese Margaret Mead, Guillaumin, insiste su questo punto: le società imprimono sull’anatomia e sull’apparenza dei corpi degli individui imperativi di vario genere e pur agendo varie contraddizioni, tutti intervengono nel senso di una differenziazione fra le donne e gli uomini: “ci sono sempre uomini e donne e non semplicemente femmine e maschi” (p.134) . Dai corpi l’opera di costruzione sociale delle differenze arriva alle coscienze attraverso la percezione che gli individui hanno di sé, delle proprie possibilità, del proprio potersi muovere o non muovere nello spazio, del proprio poter avere o non avere tempo per sé. Socializzate all’auto-contenimento sin dall’infanzia – quando non mutilate nel corpo – le donne apprendono l’asimmetria dei rapporti sociali e a vivere la prossimità come campo d’azione, imparano a stare in spazi ristretti e in un isolamento in cui interiorizzano la disponibilità verso gli altri come forma di vita. La fabbricazione del corpo delle donne come “corpo per gli altri” è il risultato di un “apprendistato alla cura” che inizia con i primi giochi e finisce con la capacità di “resistere a delle mansioni disgustose, alla malattia, alla pulizia degli altri esseri umani in qualsiasi stato si trovino, agli escrementi (e non solo quelli dei bambini), alla morte. Un corpo capace di trattare il cibo e trasformarlo, mansioni che sono non così pulite come coloro che le praticano sono solite immaginare”. L’idea della cura, che oggi abbiamo imparato a guardare attraverso un’altra concettualizzazione, in questo testo – e forse in questa specifica cultura femminista – è presentata come il risultato diretto dell’oppressione e della sottomissione. Per le donne, la cui costruzione di soggettività avviene attraverso una rete di dipendenza, anche la ricerca di solidarietà si esprime fra vicine, amiche, sorelle, familiari, in una zona di “separazione radicale” dallo spazio pubblico, l’unico per Guillaumin in cui avviene non solo un confronto fra pari ma l’incontro con potenziali partner di imprevedibili occasioni di lotta in grado di mettere in crisi lo schema che organizza i rapporti sociali fra sottomessi e dominati. La differenza fra uomini e donne, dunque, non è solo costruita ma si inscrive in una relazione sociale di dominio difficile da rovesciare perché costituiva dei rapporti sociali. Sull’analisi del concetto di differenza Guillaumin è chiara: «Dietro l’idea di “differenza” si cela la dominazione». Uno dei saggi contenuti nel volume, « Questioni di differenza » originariamente uscito in Questions feministes, 6/1079 affronta la questione del « prodigioso successo della nozione di differenza » che agli occhi dell’autrice si mostra invece come « eterogenea e ambigua ». Guillaumin avanza nel saggio con un tono sarcastico nei confronti di tutte le forme di valorizzazione della differenza come fatto positivo (lingua femminile, cultura femminile) chiedendosi come sia possibile che « tutti i gruppi oppressi e non solo le donne in certi momenti rivendichino la differenza ». Per lei è evidente che si tratti di una « fuga » o di « folklore ». Si tratti di « noirismo » o di « femminilità », l’idea di riconoscersi come differenti, per Guillaumin, implica l’accettazione di una regola, una legge, una norma, un assoluto che si dà come misura, un’entità immobile da cui differire accettandone la validità. Il « diritto alla differenza » – rivendicato dal femminismo contro cui Guillaumin polemizza ma anche dai gruppi internazionali e poi dai movimenti antirazzisti – lascia immutati i rapporti di forza fra dominanti e dominati, anzi tende a fissarli, portando verso derive mistiche o consolazione identitarie. La sottolineature e la celebrazione delle « specificità », siano culturali o di genere, anzichè distruggere le barriere fra i gruppi tende a ripristinarle e a vedere entità essenziali anziché insieme di relazioni. Su questo punto interviene con sarcasmo : « La grande irruzione dell’idea di culture minoritarie postula che il reggae o le marmellate, il soul o la tenerezza materna sono in se stesi e di per sé giustificazioni della nostra esistenza. Anzi sono virtù, virtù eterne isolate da ciò che le ha prodotte. Continuiao a considerarle isolatamente da ciò che le ha fatte nascere e da ciò che le sostiene materialmente nella loro esistenza quotidiana. Poiché non c’è tenerezza materna senza l’accudimento dei figli, senza la loro presa in carico materiale, non c’è marmellata senza rapporti domestici, né reggae o soul senza disoccupazione » (p.107). Lo sforzo analitico di Guillaumin di far emergere l’aspetto strutturale delle diverse forme di dominazione, la porta a giudicare come « culturaliste » o « essenzialiste » tutte le prese di posizione che rappresentadosi come « differenti » si pongono l’obiettivo di rompere la pretesa universalistica del pensiero dominante.
Ma è nel saggio che introduce il volume che troviamo due concetti centrali del pensiero dell’autrice: appropriazione e sessaggio. “Pratica del potere e idea di Natura” è stato originariamente pubblicato in due parti sulla rivista Questions féministes. La prima nel secondo numero di QF intitolato “Les corps appropriés” (uscito nel febbraio del 1978) in cui è presente anche un saggio di “finzione” di Monique Wittig (“Un jour mon prince viendra”), e un lungo saggio di Ann Whitehead (“Antagonisme des sexes dans le Herefordshire”), uno studio di campo in una comunità rurale inglese in cui l’autrice dimostra il procedere parallelo di divisione del lavoro e stereotipi di genere. La seconda parte nel numero 3 della rivista, intitolato “Natur-elle-ment” (uscito nel maggio del 1978) interamente dedicato alla decostruzione della “grande menzogna naturalista”.
Le donne sono una classe? Questa domanda che ha attraversato il femminismo degli anni Settanta, per la provenienza di molte delle sue militanti dagli ambienti della sinistra marxista, trova in questo testo una risposta affermativa e una elaborazione sistematica e originale. Se le giovani donne attive nei collettivi femministi della seconda ondata si dividevano fra quelle che ritenevano prioritaria la lotta di classe e quelle che mettevano al primo posto la liberazione delle donne, l’operazione teorica delle pensatrici materialiste francesi articola le istanze anticapitaliste con quelle di una politica che ha al centro il particolare sfruttamento delle donne. Per Guillaumin, donne e uomini sono classi antagoniste, marxianamente create dal rapporto sociale che le lega. Quando nel 1970 Christine Delphy sceglie per definire la teoria femminista che sta elaborando l’aggettivo “materialista” sta pensando alla teoria dei modi di produzione elaborata da Marx secondo cui i gruppi sociali sono creati dagli specifici rapporti sociali che definiscono tali modi di produzione (Delphy 1998). Ed è proprio l’appropriazione il rapporto sociale che lega uomini e donne e che permette di parlare per gli uni e per le altre di “classe”. L’appropriazione delle donne avviene, secondo Guillaumin in maniera concreta, con la riduzione allo stato di oggetti o strumenti materiali, e in maniera ideologica con il loro accostamento a una supposta naturalità che ne definisce le funzioni riproduttive e di cura. E’ il corpo delle donne – non a caso regolato socialmente e costruito simbolicamente come una “cosa naturale”- ad essere oggetto di un’ appropriazione fisica illimitata. Non si tratta solo della forza lavoro. Se gli uomini possono vendere la propria forza lavoro, disporre del proprio corpo, le donne sono prese da una dinamica di appropriazione – invisibilizzata – che, in quanto ingranaggi riproduttivi del sistema, le rende una classe doppiamente dominata. Più precisamente “una classe di sesso”. E’ questa articolazione dell’idea di classe, pensata in analogia alle classi sociali ma non sovrapponibile ad esse, l’invenzione che ha permesso a Guillaumin di spostare il discorso. Danielle Juteau-Lee, nella sua introduzione all’edizione inglese di una raccolta di saggi di Guillaumin, precisa: «Mettendo a fuoco le relazioni di classe fra i sessi o, più precisamente, le relazioni particolari costitutive della classe di sesso, il femminismo materialista ha fornito al femminismo radicale una base non biologica, non essenzialista, che mancava, senza ridurre le relazioni fra i sessi a relazioni sociali capitaliste».
La particolare posizione di sfruttamento delle donne resta legata, dunque, all’appartenenza a una classe di sesso. Guillaumin la nomina come “sessaggio” (“sexage”). Nel sessaggio la combinazione di un lavoro naturalizzato, non riconosciuto, dato per scontato è guardato non in relazione a compiti e funzioni ma accostato alla condizione di schiavitù. L’obbligo sessuale e procreativo, complica ulteriormente la situazione di oppressione delle donne che giorno dopo giorno lavorano senza nessuna misura di tempo, senza diritti sui prodotti del proprio lavoro (figli compresi, fino all’inizio del Novecento) e attraverso una presa in carico totale dei bisogni dei membri della famiglia, fra cui quelli sessuali del marito. In un’epoca in cui il dibattito sul lavoro domestico occupa il femminismo internazionale, Guillaumin proponendo la categoria di sexage – parola concepita per analogia con esclavage e servage – sembra considerare le nuove formule di individuazione del lavoro e dello sfruttamento delle donne (una per tutte quella di “divisione sessuale del lavoro”) ancora inadeguate, in un certo senso prive della carica conflittuale che va cercando. Guillaumin descrive anche i mezzi attraverso cui avviene questa appropriazione: a) il mercato del lavoro, b) il confinamento spaziale (recinzioni fisiche e interiorizzate che assegnano alle donne il loro posto: gli harem, i ginecei, le case, c) la dimostrazione di forza e le percosse, d) la coercizione sessuale, e) l’arsenale giuridico e il diritto consuetudinario. Benché pervasiva, la dinamica di appropriazione non è perfetta. Tutte le analisi dei rapporti fra le classi di sesso o, se si preferisce, di sessaggio, lasciano aperte due contraddizioni: “L’appropriazione collettiva delle donne, attualmente la più invisibile, si manifesta attraverso l’appropriazione privata – il matrimonio – che la contraddice. L’appropriazione sociale, collettiva e privata, si manifesta attraverso la libera (recente) vendita della forza lavoro, che la contraddice” (p.70)
. Queste contraddizioni sono “risolte” a livello ideologico attraverso un altro tipo di appropriazione che si esprime “nell’ambito delle idee e delle credenze”, ed è soprattutto qui che il lavoro della teoria deve intervenire. Smontare le spiegazioni deterministiche che si fondano sull’idea della natura, di “questa nuova arrivata che ha preso il posto degli Dei, fissa le regole della società fino a stabilire specifici programmi genetici per coloro che sono socialmente dominati”. Su questo punto il discorso su sesso e razza procede di pari passo. Le ideologie naturaliste si sviluppano sempre per confermare i rapporti sociali e le forme di dominio. Lo fanno sostanzialmente attraverso diversi passaggi: in primo luogo reificano e oggettivano i gruppi razzizzati, in secondo luogo costruiscono una visione atemporale delle cose così come stanno, infine costruiscono i presupposti di una programmazione dei comportamenti che viene dalla materia dei viventi, da una loro presupposta configurazione biologica o etologica. Guillaumin se la prende particolarmente con Lorenz ma più in generale con la fascinazione che generano gli studi che pretendono di riportare alla natura i deviati comportamenti della società prendendo ad esempio il comportamento delle società animali. E’ anche così che si fa strada: « la strana idea che le azioni di un gruppo umano, di una classe, siano “naturali”; che siano indipendenti dai rapporti sociali, e che preesistano a tutta la storia, a tutte le condizioni concrete determinate».
Nel saggio “Razza e Natura. Sistema dei marchi, l’idea naturale e rapporti sociali”, un saggio presente nel volume e originariamente pubblicato in Pluriel (11, 1977), Guillaumin si sofferma sulla produzione storica delle razze (e dei sessi) in cui assume particolare rilevanza un processo di significazione descritto come “sistema dei marchi”.
Distinto dall’idea di natura, e in un certo senso opposto in quanto testimonia dell’iscrizione convenzionale delle pratiche sociali, il sistema dei marchi ha accompagnato nella storia il processo che ha reso ovvio le divisioni sociali fra gruppi. Abbigliamento, bardature, oggetti, colori hanno distinto nei secoli le classi sociali, cambiando in relazione al riconfigurarsi, di epoca in epoca, dei rapporti sociali. Oltre a questi segni amovibili, le persone sono state marchiate direttamente sul corpo (la marchiatura degli schiavi in Francia è stata abolita nel 1833) o rese riconoscibili da un segno stigmatizzante che ha solo cambiato di intensità (il riferimento qui è all’antisemitismo). Queste forme di marchiatura restano comunque, nella lettura di Guillaumin, meno pericolose di quelle “naturali”, morfologiche, legate al colore della pelle o alle caratteristiche dei corpi. Se la prima forma di marchiatura serve a rendere visibili le relazioni fra i gruppi sociali, l’altra consiste nell’occultarle. Il marchio naturale rende visibili i gruppi, offuscando però i legami di subordinazione/dominio. E’ questo passaggio che si è rivelato basilare per la formazione dell’ideologia razzista, poiché è quello che ha saldato in maniera deterministica, supposte differenze naturale fra i corpi con specifiche funzioni sociali: “E’ in questo modo che la schiavitù diventa un attributo del colore della pelle, la non remunerazione del lavoro domestico un attributo della forma del sesso”. In questo saggio Guillaumin riprende quanto scritto in L’ideologie raciste (1972) considerato a giusto titolo la matrice di tutta la sua produzione successiva. E’ in questo lavoro che Guillaumin inverte la prospettiva classica con cui le scienze sociali fino ad allora avevano guardato al tema del razzismo, anticipando una sensibilità che troverà negli studi post coloniali grande risalto. La prospettiva classica, che permeava – e che permea tuttora – il senso comune, era infatti dominata dall’idea che il razzismo fosse in ultima analisi un fenomeno generato dall’ostilità tra gruppi obiettivamente differenti. Guillaumin inverte questa prospettiva problematizzando la razza come il prodotto, e non come il supporto, del razzismo. Riferendosi al tema dell’ideologia Guillaumin parla di “un’organizzazione percettiva del simile e del differente” ( che agisce continuamente sebbene in maniera latente. Diversamente dalla teoria, che risponde e argomenta, l’ideologia pone ed afferma, esprimendo i fantasmi della società.
Profondamente immersa nel quadro degli anni ’70 e ’80 nella scelta di de-naturalizzare i processi di soggettivazione e socializzazione degli esseri umani – continuamente riportati alla materialità delle loro condizioni di vita – Guillaumin introduce una serie di osservazioni che saranno al centro del dibattito femminista e antirazzista aperti nei nuovi contesti della globalizzazione. L’approccio radicalmente costruttivista le fa compiere rovesciamenti e sovversioni all’interno dei campi semantici di sesso e razza, ricostruiti come effetti di rapporti sociali e di specifiche relazioni di potere e non come realtà in sé. Le pagine di Sesso razza e pratica del potere contengono molte acute osservazioni su come la costruzione dei corpi avvenga in maniera relazionale e gerarchica, rivelandosi il prodotto e non la base naturale dei processi sociali. Muovendosi contro gli apparati ideologici che tengono in piedi le affermazioni con cui le società “esprimono i propri fantasmi”, Guillaumin ci riporta a un femminismo di rottura e in rottura con l’ordine sociale esistente e le sue mistificazioni. Bellissima la definizione delle ideologie come “sogni non censurati” delle società.