Mi attesto con fermezza, per la prima volta nel mio percorso, sulla mia competenza filosofica. Oggi, nel quadro della riorganizzazione dei saperi, riorganizzazione di marca anglosassone, pragmatico-utilitarista, filosofia non è più vuotezza speculativa ma proterva nel dettare le condizioni del sapere corretto, o un canone particolarmente efficace nel cancellare la voce delle donne. Filosofia oggi è piuttosto il sapere senza potere per eccellenza. E’ inutile. E dunque si presta a essere ridefinito nei suoi usi e scopi, con una riguadagnata libertà di movimento.
Lo uso secondo una certa memoria femminile dello spazio – uno spazio da abitare, da smobilitare, con una qualche continuità tra interno ed esterno, come quando si mette a posto o si buttano via le cose vecchie e accumulate, o si ritrova qualcosa di abbandonato in un angolo, lo si rimette in bella vista, e questo fa ordine anche dentro (v. blog di Sandra Burchi). Come in primavera. Ma anche, come quando si prepara un letto fresco per un corpo febbricitante.
Filosoficamente voglio pensare la questione del lavoro – come esperienza del lavoro, secondo la pratica femminista del partire da sé e del personale che è politico – come gesto di distribuzione dentro uno spazio, uno spazio che è fatto anche dei suoi tanti strati temporali, come un paesaggio.
I TEMPI. Tempi di crisi questi, che oscillano tra strapotere e impotenza (Canetti), di catastrofe, di mutamento di forme (Marramao). Ma soprattutto, tempi di conflitto sulla forma e l’orientamento che vogliamo che prenda.
Un tempo comune a donne e uomini, ma entro cui donne e uomini abitano secondo genealogie diverse.
Questa prima assunzione diventa di immediata evidenza quando si pensa specificamente al lavoro. La genealogia maschile deve fare i conti con il lutto per la centralità del lavoro nel definire l’uomo-cittadino, come anche l’identità maschile stessa, il senso del singolo. La genealogia femminile non è presa in questa fatica di elaborazione del lutto, con la conseguenza di una maggiore disponibilità di energie, anche per il pensiero, ma anche – per non cedere a tentazioni di un pensiero solo positivo e dunque edificante, depotenziato – proprio per questa posizione da “late comers”, esposte a una sorta di entusiastica adesione al proprio asservimento, come spesso lo sono i parvenu (Arendt), dignificati dal fatto stesso di poter accedere a un ambito prima precluso. L’inclusione non va di pari passo con la valorizzazione.
Un altro elemento temporale lo abbiamo quando mettiamo a fuoco che questi tempi sono figli dell’evento, della cesura, introdotta dalla rivoluzione femminista degli anni Settanta.
Anche qui il riferimento all’esperienza del lavoro è perfetta per cogliere questo punto. Le trasformazioni del presente sono pienamente debitrici all’azione massiccia sociale e politica compiuta dalle donne negli anni Settanta – esodo dal domestico, messa in questione della gratuità delle loro attività. Tra gli effetti troviamo la fine di quel gigantesco apparato economico-statuale che va sotto il nome di Welfare: senza la gratuità del lavoro svolto dalle donne, non è più stato possibile mantenere il bilancio tra la risposta pubblica ai bisogni di chi produce e ai bisogni di chi non produce, insomma la previdenza e l’assistenza. Lonzi diceva “noi identifichiamo nel lavoro domestico non retribuito la prestazione che permette al capitalismo, privato e di stato, di sussistere” (Manifesto di Rivolta Femminile, p. 8).
Arrivo così al terzo punto. Se assumiamo al presente la temporalità lunga della cesura femminista, abbiamo le risorse per pensare oltre alle opzioni allestite dai rapporti di forza: le donne come valore aggiunto per la conferma dell’ordine esistente, oppure le donne come soggetti da tutelare. Per usare il lessico di Arendt, la genealogia al presente della rivolta femminista, trasforma lo stesso materiale di vita, di cui è fatta la posizione della parvenue, in eccedenza, in posizione di paria: non l’esclusa come materia malleabile, dove soggetti più consumati sono più capaci di resistenza, bensì colei che ha la memoria di essere stata vinta e “non intendere ripetere la storia dei vincitori” (Lonzi), per immaginare un ordine della convivenza, delle relazioni secondo il bisogno di giustizia di cui sono portatori i vinti. Parafrasando Lonzi: “la parità di retribuzione è un nostro diritto, ma il nostro comune sfruttamento è un’altra cosa”. (Manifesto di Rivolta Femminile, p. 8).
Così proponiamo – ne abbiamo discusso a lungo, cercando materia per sostenere questa svolta epistemologica e politica – di considerare la posizione di una donna come la posizione da cui pensare una giustizia per tutti, ovvero le forme delle relazioni pensate su grande scala.
La posta in gioco non è quella di trovare misure di inclusione, di considerare le donne come uno specifico, ma di partire dalle caratteristiche della vita e della memoria storica di una donna, per produrre un’idea di società per intero, proprio a partire dalla sua posizione strategica, ma anche per la complessità di questa vita. Alcuni spunti di partenza:
– abbiamo memoria della nostra “cittadinanza incompiuta”. Manteniamoci nella posizione di “migranti” rispetto alla cittadinanza, cosa significa allora essere cittadine? Pensare così alla nostra posizione può dare risorse di analisi e politiche anche ai cittadini espulsi dall’equazione lavoratore=cittadino dotato di diritti.
– sappiamo che avere un corpo fertile è un serio intralcio a far coincidere diritti e produzione. Ripensiamo allora ai diritti a partire dal corpo – di tutti – che non è sempre e solo produttivo. (Teresa ha parlato in altre sedi di diritto universale alla maternità, ovvero diritti che contemplino corpi non solo individuati dalla produzione)
– un ultimo spunto a partire dalla cura, per toglierle quei tratti edificanti che le tolgono efficacia realistica, e dunque di analisi. Le cosiddette attività di cura, ma Cristina Morini l’ha detto bene, sono attività necessarie, lavoro “sporco”, che hanno a che fare con la malattia, la morte. Invertiamo allora il vettore della femminilizzazione del lavoro di tutti, caratterizzato dalle caratteristiche “molli” della cura: capacità compositiva, affettiva, etc. Chiediamo alla produzione – e apriamo delle analisi conseguenti – di modificarsi secondo le caratteristiche “dure” della cura, capacità di pensare e provvedere al negativo che è insito in essa.
GLI SPAZI. Per ricostruire il paesaggio di vita (Deleuze, dérouler un paysage, personnages philosophiques, pagus, paganus, resistenti alla cristianizzazione, paysage, composizione da un punto di vista), a partire dall’esperienza del lavoro, il primo passo è scombinarne gli elementi di cui è composta. Li do come titoli, attorno a cui aggregare ricerche già svolte e a venire. Nell’esperienza del lavoro rintraccio almeno tre elementi. A) socializzazione e senso di sé; b) Risposta a bisogni essenziali; c) contropartita per denaro.
Sono dimensioni strettamente intrecciate, ma in un primo momento è promettente districarle, perché dare per scontate le connessioni spesso conduce in vicoli ciechi o porta ad attribuire uno stesso valore a cose disparate. Inoltre distinguere questi elementi permette di rimettere a fuoco obiettivi di lotte e di azioni politiche.
a) socializzazione e senso di sé
Se stiamo alla genealogia femminista nel presente, se assumiamo cioè che viviamo il presente elaborando una memoria di genere, allora appare con evidenza quanto attribuiamo al lavoro la capacità di immetterci in un tessuto di relazioni. Lo lego alla memoria di genere perché – e ne ho esperienza diretta – avere un lavoro è quel che ci tira fuori da quella recinzione domestica povera di relazioni con estranei. Ieri parlavo con una compagna, e in effetti mi parlava del telelavoro, che invece perde questa capacità, perché riconfina nel domestico e in una relativa solitudine. E in effetti la percezione è che quel tipo di lavoro manca a una funzione che gli attribuiamo, è meno desiderabile.
Quindi, il desiderio di lavorare è desiderio di un’abbondanza di relazioni.
Lavoro in effetti ha significato l’entrata nel circuito degli scambi sociali. Per dirla in una parola, l’entrata nell’ambito della cittadinanza. Quella cittadinanza che, non a caso, è nella nostra costituzione “fondata sul lavoro”. Ma che accade nel momento in cui è lo Stato stesso ad allentare il legame tra cittadinanza e lavoro? Nel momento in cui il lavoro – sia per scarsità sia per frammentazione delle condizioni entro cui si svolge – non è più sinonimo di socializzazione? La domanda che riapre i giochi nel contemporaneo è: dove rilanciare e ricollocare il nostro desiderio di un’abbondanza relazionale?
Dire abbondanza di relazioni, non è tuttavia sufficiente. Lavorare non è l’equivalente di avere tanti rapporti di vicinato, fare volontariato – e allora attenzione all’equivalenza tra lavoro e tenersi occupate.
La socializzazione che il lavoro comportava rimanda a una dimensione di necessità: una necessità non immaginata soggettivamente – “senza di me le cose non possono andare avanti” – ma il senso di far parte di una connessione tra azioni, corpi e cose, che è dirimente. Detto in altre parole, è un tipo di socializzazione per cui non sono “io” a dovermi far promotrice del senso e valore della mia partecipazione. Tale valore risulta da una dimensione collettiva. La mia partecipazione allo scambio sociale non è un privilegio che chiedo, ma è riconosciuto come necessario da altri. Come per l’autorità su cui hanno lavorato le pensatrici della differenza – l’autorità è nelle mani di chi la riconosce – il valore viene per il riconoscimento altrui.
Questo potrebbe essere un modo per rimettere a posto anche la percezione di sé, il rapporto con i diritti e con la cittadinanza: mettere a fuoco la dimensione necessitante della nostra partecipazione… Necessità che permette di ridefinire anche la questione della libertà: non tanto e solo indipendenza dalle condizioni materiali – come diceva S. de Beauvoir – bensì spazio di elaborazione di ciò che ci è necessario per vivere.
In questa prospettiva, torno ancora sulla cura. Il valore che vogliamo sia attribuito alle nostre attività, non è legato al problem solving – in cortile c’è sporco ci attiviamo per toglierlo – ma a un’istanza collettiva e generale. Un esempio: la Val Susa non è una questione di conservazione del territorio ad opera di benitenzionate cittadine, è un’idea diversa di cosa è giusto e necessario. Così spiego la valenza politica nazionale di questa lotta, il fatto che non sia considerato un problema locale, ma una lotta su criteri generali della convivenza.
b) risposta a bisogni essenziali
Ciò che ci è necessario per vivere. Molte parole legate al lavoro rimandano al bisogno. “Devo lavorare perché ne ho bisogno”. C’è stato un periodo, penso agli anni Ottanta e Novanta, in cui era una frase che giocava su uno spostamento implicito, non detto. “Ne ho bisogno per il senso di me che ne risulta”. Ma oggi ha riguadagnato tutta la sua letteralità: devo lavorare, altrimenti non so dove abitare, come mangiare, etc.
Serve allora una ricognizione di quel che percepiamo come bisogno (Agnes Heller). Bisogno indica qualcosa che del corpo non può farsi mettere a tacere, pena la morte. Se non bevo, se non mangio, se ho troppo freddo.
Ma, in un taglio femminista, siamo sicure che i bisogni sono solo quelli del corpo fisiologico?
Avanzo due suggerimenti per ridefinire il “bisogno”. Il primo è la figura dell’”isterica” su cui molto femminismo ha lavorato, e che per alcune psicoanaliste ritroviamo nella figura dell’anoressica o della bulimica (Molfino). Il sintomo isterico non era una questione fisiologica, bensì segnalava l’impossibilità di tenere insieme corpo e possibilità espressive, culturali, sociali. Il corpo dunque deperisce anche per mancanza di cultura. Non esistono bisogni necessari perché corporei e bisogni di second’ordine perché bisogni della mente.
Arrivo così all’altro suggerimento. Lavorando sui beni comuni, all’epoca delle mobilitazioni contro la privatizzazione dell’acqua e dell’università, abbiamo messo a fuoco come la formazione, la cultura vada di pari passo con il bisogno fondamentale legato all’acqua. Le donne lo sanno bene, attraverso la memoria della privazione secolare dell’accesso all’istruzione. Ma posso aggiungere un’ulteriore evidenza: in mancanza di cultura – cioè della libertà di dare una veste simbolica al corpo – regredisce persino la percezione dei bisogni: un esempio per tutti, la regressione delle risposte che diamo al bisogno di nutrimento. Senza cultura abbiamo bambini sovralimentati ma denutriti. Più in generale, in assenza di cultura abbiamo una riposta ai bisogni attraverso surrogati.
c) lavoro come contropartita di denaro
Veniamo ora al denaro. Un primo passaggio di memoria di genere. Il denaro è mezzo/misura di scambio. Ora, una donna elabora ancora il fatto che, come il denaro, è stata mezzo di scambio. Al di là degli studi di antropologia di un Levi-Strauss, abbiamo ancora la messa in scena del padre che accompagna la sposa e la dà, la scambia, con il futuro marito. Io sono denaro, io sono la misura, ci parla di una letteralità, di un’adesione della misura a noi stesse. E’ così che mi spiego quella difficoltà femminile di prendere distanza dalle misure di valutazione di quel che fa. Perché quel che la misura è lei stessa. Le nostre anziane la chiamavano una mancanza di trascendenza (Beauvoir, ma anche Irigaray e Lonzi). Io la rintraccio nella difficoltà di dare un prezzo a quel che facciamo. Non riusciamo a compiere quell’operazione di taglio, per cui cedo una parte – non me stessa – in cambio di denaro. La famosa forza lavoro. Ma pensiamo anche alla numerosa letteratura che rilegge le prestazioni sessuali come prestazioni lavorative. E ancora, pensiamo alla difficoltà a considerare un voto o un giudizio negativo a un concorso come qualcosa che non ci giudica integralmente, ma che parla solo di una situazione parziale, circoscritta, composta di molte variabili. Mentre al contrario siamo bravissime a misurare quel che ci si incolla al corpo, come le taglie dei vestiti.
Anziché procedere per ortopedia di questa difficoltà, la prendo come elemento positivo ma che deve trovare i suoi canali di espressione. Il denaro non è misura del valore di quel che facciamo. Teniamo come un elemento prezioso di civiltà l’incredulità femminile: non stimiamo una donna perché è ricca. Non andiamo in automatico sulla sequenza: ricchezza in denaro-valore sociale.
Come ridire allora l’esperienza di avere soldi in cambio del lavoro che facciamo? Lo dico a partire da me: avere denaro significa avere accesso a una serie di possibilità/necessità. Se ho soldi posso comprare libri, andare in vacanza, provvedere a mio figlio, e via dicendo. E’ anche possibilità di uso, penso a un’altra esperienza: il piacere di stare in un bel posto, senza esserne proprietaria. Il denaro dunque sarebbe – non tanto mezzo di indipendenza – ma possibilità di accesso e di uso.
Diversamente dalle teoriche del dono (Vaughan), non credo che si possa ricollocare la questione del denaro tornando a valorizzare la gratuità dello scambio. Piuttosto penso che al denaro va sottratto ciò di cui è mezzo per ricollocarlo conflittualmente: l’accesso, l’uso. Così, come non penso che la partita finisca nella valorizzazione a mezzo denaro delle attività misconosciute che mettiamo sotto il termine “cura”, altrettanto penso che il “reddito di cittadinanza/di esistenza” è solo un primo passo, realistico, data l’organizzazione sociale in cui ci troviamo. Avere denaro significa in realtà possibilità di uso, avere accesso a. E qui torniamo alla questione della dimensione socializzante. Il denaro in realtà rimanda al suo potenziale di immetterci in circuiti di scambio, ovvero di relazioni.