(Bompiani, Milano 2011 – Estratto)
L’ulteriore questione che qui si apre comporta uno spostamento del fuoco dell’analisi dai meccanismi del potere alla potenza dei soggetti, passando per una radicale ridefinizione dei rapporti interni alla triade reale-immaginario-simbolico e per una riproposta dell’auctoritas non più come fonte verticale di legittimazione della potestas ma come energia orizzontale, donazione-di-senso che si sprigiona — contro i cristalli di potere — dal tessuto relazional-conflittuale dell’esperienza concreta (p. 16).
Auctoritas
Per evitare di essere frainteso, dichiarerò subito che non è certo mia intenzione proporre un elogio dell’autorità costituita. L’autore di questo libro si è formato sulla critica di quello che, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, veniva chiamato «autoritarismo» – e al nocciolo razionale di quella critica non intende certo rinunciare. Sta di fatto, però, che oggi come ieri – anzi, oggi, ancor più di ieri – le forme autoritarie procedono in senso diametralmente opposto alla simbolica dell’autorità. Per questo sono convinto che uno dei meriti maggiori del pensiero femminista della differenza sia consistito nella proposta — una proposta coraggiosa e controcorrente rispetto agli stereotipi del “pensiero critico” maschile — di una ridefinizione radicale del concetto di autorità. Una ridefinizione che — come ho tentato di dimostrare nei miei lavori degli ultimi anni, in particolare in Dopo il Leviatano e inPassaggio a Occidente — restituisce al concetto il suo significato etimologico e, insieme, la sua carica simbolica originaria. Derivando — secondo la fondamentale indicazione contenuta nel Vocabolario delle istituzioni indo-europee di Emile Benveniste — dalla radice indoeuropea aug– (da cui il verbo augere), il lemma auctoritas, al pari di augurium e auctor, reca in sé il significato di un “aumento” iperbolico: di un incremento non meramente quantitativo ma simbolico. Ma l’aspetto decisivo innervato in questa dimensione simbolica si manifesta con chiarezza nel momento in cui poniamo in rapporto l’auctoritas con la potestas: con l’ambito della potestà assoluta, originariamente regale. Rispetto alla potenza simbolica, “augurale”, dell’autorità, il potere rappresentato dal rex e istituzionalizzato nel regnum funge da operatore e regolatore geometrico, a un tempo spaziale e normativo. (p. 34)
La potestas regale, in altri termini, traduce l’augmentum, l’incremento di senso (e il conferimento di autorità) implicito nella funzione augurale, in dispositivo di segni. L’etimo di rex — dal tema nominale *reg — rimanda al significato di regere, “segnare”, tracciare in linea retta, dunque delimitare e perimetrare uno spazio. Ma è opportuno a questo punto affidarsi direttamente al testo di Benveniste:
“Attestato solo in italico, in celtico e in indiano, cioè alle estremità occidentale e orientale del mondo indoeuropeo, rex appartiene a un gruppo molto antico di termini relativi alla religione e al diritto. L’accostamento del lat. rego al gr. orégo ‘stendere in linea retta’ (dove la o– iniziale si spiega con ragioni fonologiche), l’esame dei valori antichi di reg– in latino (per esempio in regere fines, e regione, rectus,rex sacrorum) fanno pensare che il rex, più simile in questo al sacerdote che al re in senso moderno, fosse colui che aveva autorità per tracciare i limiti della città e per determinare le regole del diritto”. L’espressione rex regit regiones sta, pertanto, originariamente a significare: «il segnatore segna i segni».
La coppia augurium–regnum — con il flesso, ma anche con l’irresolubile tensione, che vi si istituisce viene in tal modo a configurarsi come la costante che sorregge il simbolismo del potere e dello spazio pubblico, pur nelle sue molteplici varianti e metamorfosi storiche. (p. 35)
In sintesi: la dinamica del potere pone perennemente il problema di un’eccedenza di senso che deve di volta in volta tradursi in un (intrinsecamente coerente) sistema di segni. È da questa polarità, dalla sua insolubile tensione, che trae origine la segreta logica che presiede a tutti i miti di fondazione: la mitologia di una fonte unica e “sovrana” del potere. Ed è, conseguentemente, dalla scollatura dei due poli dell’augurium/augmentum/auctoritas e del regnum/regerepotestativo che si produce sempre quella che chiamiamo crisi di legittimità di un ordinamento o di un regime politico. Se è vero che una tale crisi investe oggi la forma democratica — come è attestato dalla ribellione populistico-mediatica contro il “ljberalismo procedurale” — ne consegue che per fronteggiarla vi è un solo modo: interrogarsi ancora una volta sulla sua “essenza” e sul suo “valore” (da cui in ultima analisi dipendono anche le sue “regole” e le sue “tecniche”); verificare se e dove essa rechi ancora in sé una riserva simbolica un'”augurale” ridondanza di senso — che i suoi attuali segni codificati non sono più in grado di trasmettere. Ma è dubbio che una tale verifica possa darsi senza sottoporre i due poli di “individuo” e “comunità” a un approfondimento “ben oltre i termini in cui la loro relazione è stata pensata, tra XIX e XX secolo, dai paradigmi dominanti del liberalismo e del socialismo. (p. 36)