Introduzione
Pubblicato originalmente da Dinamopress e risalente al mese di Ottobre del 2016 questo articolo, diviso in due parti, rappresenta un focus sulla Turchia di Erdogan e sul suo governo dittatoriale e sulla pulizia etnica nei confronti delle minoranze. E di come questo si interseca con gli interessi statunitensi, russi ed europei. L’articolo ripercorre delle tappe violente e cruciali della formazione del nazionalismo a partire dal periodo Ottomano. Rievocando in finale le analisi di Simone Weil sul totalitarismo, di fronte alla dittatura ancora in corso in Turchia, l’articolo tratto da Dinamopress richiama alla necessità, in Europa, di una partecipazione responsabile al proprio tempo storico, mettendo in discussione- attraverso l’esperienza alternativa di democrazia diretta nella Federazione Democratica del Nord della Siria- la colonialità del potere, il nazionalismo e lo Stato-Nazione. Questo articolo infine richiama ad oggi anche l’attenzione sulla situazione delle città distrutte al sudest della Turchia (Bakur) in situazione emergenziale in vista della loro necessaria ricostruzione.
La Turchia di Erdogan tra islamo-nazionalismo e colonialità del potere: il fascismo più preoccupante del XXI secolo
Nello scenario geopolitico del Medio Oriente è oggi in corso una guerra mondiale che coinvolge e concentra nella regione le maggiori potenze internazionali e i loro interessi strategici. Il preoccupante ruolo ricoperto dalle politiche della Turchia di Erdoğan, con la quale al contempo gli Stati Uniti, gli Stati dell’Unione Europea, l’Iran, il Qatar, l’Arabia Saudita, Israele, e la Russia tessono legami, sembra essere sottovalutato nel genocidio fisico e culturale che sta attualmente compiendo attraverso atroci mire politiche razziste e islamo-nazionaliste.
Pericolose visioni normalizzanti
Rispetto alla guerra mondiale in corso in Siria, il punto d’inizio delle analisi che vengono diffuse sul Medio Oriente è spesso mediaticamente rappresentato in ambito occidentale da una linea interpretativa che mette in risalto gli accordi sul campo presi tra le potenze mondiali. Si guarda alla situazione presente e ai suoi possibili sviluppi futuri in un ordine discorsivo situato già dall’ottica del potere di chi detiene sulla regione degli interessi specifici, il raggiungimento dei quali avviene per mezzo di alleanze strategiche sul campo diplomatico del visibile. Ma isolando i fenomeni politici e sociali dal loro contesto e tenendo in conto da una prospettiva eurocentrica solo gli interessi statali particolari si perde la possibilità di una visione d’insieme, organica, di uno sguardo storico critico più ampio e complesso. Così se nel tentativo di comprendere la guerra mondiale in corso oggi in Siria si svolge una mera analisi della politica governativa ufficiale, prendendo in considerazione solo gli accordi tra Stati-Nazione a seconda dei rapporti di forza noti e consolidati, non si scorge la possibilità di andare alle fondamenta dei problemi, dei conflitti e della loro posta in gioco, né si scorge possibilità di porre in atto una discussione critica dell’ordine esistente.
Spesso in stretti bilanci analitici, lo scacchiere che viene disegnato impone a chi lo guarda uno sguardo legato a schemi astratti, in una macroanalisi geopolitica che a volte equivale a una visione settoriale e presentificata: allora si ripropone, nella mera descrizione acritica, uno status quo. Avviene così una narrazione normalizzante del conflitto e dello scenario di guerra di fronte al quale ci troviamo.
I quotidiani e le riviste si riempiono ora di dati e compilazioni asettiche, poi di pietismo: procedono ad una deresponsabilizzazione collettiva, come se ci si potesse abituare alle invasioni illegittime, alle continue morti, al genocidio, alla distruzione di intere città, nella reiterata visione di immagini di devastazione, nella lettura ripetuta dei numeri dei bilanci, arrivando ad uccidere ogni coscienza e presa di posizione. Si tratta di un processo di normalizzazione, che porta a percepire la più pericolosa banalità del male: questo avviene se le analisi sviluppate non hanno lo scopo di restituire in profondità una comprensione critica degli sviluppi storici della guerra in corso, che ne evidenzino il suo legame con il potere, tenendo in conto elementi del passato per comprendere la fase storica presente.
Proprio la guerra mondiale scoppiata in Medio Oriente, guidata dagli interessi della Turchia nel suo tentativo di conquista coloniale, attraverso guerre d’aggressione con la violazione dei confini in Siria, in spregio ai diritti umani e al diritto internazionale, nella riproposizione di un progetto ottomanista, ha infatti tra i suoi tentativi esattamente quello di cancellare ogni memoria storica e ogni capacità critica che faccia agire un’opposizione democratica diffusa al suo operato. Dichiarando di voler invadere anche l’Iraq nell’operazione militare di Mosul, Erdoğan, dopo aver già invaso militarmente il nord della Siria con l’esplicita collaborazione delle bande jihadiste e con il beneplacito delle potenze mondiali, e dopo aver distrutto intere città nel sudest della Turchia, vuole costruire il suo progetto di espansionismo sunnita attraverso una politica razzista e settaria di pulizia etnica, guadagnando il controllo oltre che in Siria anche in Iraq, prendendo di mira in primo luogo quella parte curda dell’opposizione democratica che ha costruito in questi anni un sistema di autogoverno democratico per mezzo di una rivoluzione sociale conosciuta in tutto il mondo come un’ alternativa reale della modernità democratica, in atto nel Kurdistan del nord e dopo le Rivoluzioni Arabe nel sistema cantonale e comunale del Rojava, basato sull’autogoverno, sull’ecologia, sull’economia sociale, sulla parità tra i generi e sull’autodifesa¹.
In questo momento in Turchia, avviene un controllo totale dell’informazione, con la soppressione della stampa, con l’oscuramento di internet e dei canali e tv di opposizione: il progetto dittatoriale di Erdoğan mira a eliminare culturalmente e fisicamente ogni dissenso, impedendo così una comprensione diffusa dell’attuale e reale gravità del momento.
Sembra allora quanto mai urgente riuscire ad avere gli strumenti per comprendere il momento delicato che oggi viviamo. E’ un dovere intellettuale ma prima di tutto morale opporsi e non sottovalutare il regime dittatoriale che lo stato turco di Erdoğan sta oggi portando avanti, sino alle più estreme conseguenze per l’intero pianeta. Altrimenti, il rischio che si corre, è di non rendersi conto della portata degli avvenimenti in atto e di lasciare morire ogni giorno, insieme a migliaia di civili e a chi lotta per un’alternativa democratica, ogni memoria storica, ogni coscienza e pensiero critico. Appelli più recenti, come quello della studiosa Judith Butler nella rivista “The Cairo Review of Global Affairs”, dal significativo titolo “Global Trouble²” che esprimono la preoccupazione per la situazione della libertà accademica in Turchia, sono importanti e rappresentano uno stimolo di analisi, ma richiedono anche un approfondimento, condiviso in ogni ambito della società, con tutta la capacità di coinvolgimento, di dissenso e di riflessione di cui si è oggi capaci.
Ottomanismo, repressione kemalista e colpi di stato in Turchia
E’ stato il XIII secolo a vedere la nascita dell’Impero Ottomano. Una piccola tribù turca guidata dal condottiero Osman avviò allora la conquista dell’Asia Minore. Nel 1299 Osman si attribuì il ruolo di Sultano. Dopo di lui dagli Ottomani sarebbero venuti importanti califfi o sultani -l’ultimo dei quali è stato destituito dai kemalisti nel 1922- che dando l’impressione di rinnovarsi secondo linee democratiche, condussero in realtà spedizioni punitive contro ogni minoranza, in particolare contro la popolazione curda, instaurando regimi di terrore. Al modello d’Impero Ottomano nell’ unificazione islamica si rifà oggi il governo di Recep Tayyp Erdoğan. L’impero ottomano è noto per aver compiuto tra il 1915 e il 1916 il genocidio del popolo armeno, con deportazioni che causarono circa 1,5 milioni di morti. Di questo genocidio della storia portato avanti dal nazionalismo ottomanista dei “Giovani Turchi”, Erdoğan ha pubblicamente negato l’esistenza.
Dal 1923 quando, dopo i trattati di Losanna, fu proclamata la Repubblica Turca, si praticò sempre con maggior chiarezza la centralità del nazionalismo turco come asse portante del nuovo Stato. Fu sciolta l’Assemblea Nazionale, e molti dei 74 dei deputati curdi che prima ne erano parte, furono impiccati. Furono da allora dichiarati nulli tutti i trattati che tutelavano i diritti della popolazione curda, chiuse le scuole e vietate le pubblicazioni; anche la lingua curda fu bandita: in uno Stato fondato sull’ideologia dell’unità nazionale la presenza nel territorio di un’altra comunità nazionale si configurava di per sé come tradimento dello Stato. Si apriva così la strada a una politica in Turchia di sistematico annichilimento di chi non volesse riconoscersi come cittadino turco. Da quel momento in poi il Paese ha conosciuto una guerra sistematica che doveva essere occultata altrettanto sistematicamente. Si ebbero massacri e sollevazioni e rivolte sin dai tempi in cui, nel 1930, il ministro della Giustizia Mahmut Esat Bozhurt proclamò nel quotidiano Milliyet che tutti coloro che non potevano vantare “un’ascendenza puramente turca avevano un solo diritto: quello di servire e essere schiavi”.
Seguirono gli anni del massacro di Dersim (tuchizzata con il nome di Tunceli) nel 1932 e poi gli anni della sua ribellione e resistenza tra il 1937 e il 1938. Non è difficile scorgere una continuità ideologica, con le tendenze che hanno attraversato l’Europa durante le politiche del nazismo e del fascismo. E d’altronde i legami ideologici continuativi con la politica del nazismo non sono stati negati da Erdogan, ma anzi di recente confermati pubblicamente: quando è stato accusato dalle opposizioni di voler stabilire un sistema presidenziale forte nel paese, durante un discorso di fine anno, il 31 dicembre 2015, Erdogan ha difeso il suo proposito citando come un buon esempio di sistema presidenziale la Germania nazista di Adolf Hitler: “Ci sono esempi nel passato, se si pensa alla Germania di Hitler, è possibile vederlo”.
Nel periodo della Guerra Fredda, nel 1952 la Turchia fu annessa alla NATO in funzione antisovietica. Due anni più tardi gli USA hanno realizzato lì un suolo missilistico che tuttora riserva loro strategicamente molte basi militari. I quasi cinque miliardi e mezzo di dollari americani ricevuti all’ora come aiuto economico dalla NATO non furono utilizzati dal governo turco per aggiustare la grave situazione economica su cui versava in quel momento il Paese, ma per incrementare l’apparato militare. Dal 1958 in poi il Primo Ministro Menderes, in seguito al malcontento generale e alla grande povertà, arresterà, anche con l’obiettivo di distogliere dalla grave situazione economica, diversi intellettuali dissidenti. La Turchia ha una storia consolidata di colpi di Stato: il 27 Maggio 1960 Menderes viene impiccato dopo un golpe e la nuova giunta di militari che si rifà al kemalismo nazionalista di Ataturk inizia allora ad avviare la sua spietata politica anticurda.
La giunta al potere procedette alla turchizzazione dei nomi delle città e dei villaggi curdi e il regime promulgò una legge che consentiva il trasferimento forzoso degli abitanti verso altre zone del territorio nazionale, applicandola, con il pretesto di “comportamenti pregiudizievoli per l’interesse nazionale”, solo alla popolazione curda. Durante gli anni ‘60 del governo di Kemal Gursel, la polizia turca disciolse con violenza le manifestazioni uccidendo un gran numero di partecipanti con un bilancio amaro che ha portato a più di mille uccisioni in pochi mesi compresi tra Mardin e Diyarbakir³.
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1. Per approfondire si rimanda allo studio inedito sulla rivoluzione sociale in Siria di Michael Knapp, Ercan Abyoga, Anja Flach, Laboratorio Rojava. Redstar Press, Roma, 2016
2. Per l’intervista completa a Judith Butler si rimanda al sito https://www.thecairoreview.com/q-a/global-trouble/
3. Namo Aziz, Kurdistan. Storia di un popolo e della sua lotta, Manifestolibri, Roma, 2000
Il fascismo di Erdogan, il nuovo colonialismo, lo stato d’emergenza e la repressione nel Kurdistan Bakur.
Ogni fase storica in Turchia e ogni golpe ha sempre mostrato un’involuzione calzante nei modelli di panturchismo messi in atto, sia che questi fossero legati al kemalismo laicizzante, che all’islamismo ottomanista: è emerso un rigido statalismo e un conservatorismo carico di persecuzioni razziste. Il partito dell’AKP di Erdoğan in Turchia è supportato materialmente e diplomaticamente da Stati Uniti, Unione Europea e Giappone e dai circoli industriali e finanziari mondiali. Le nuove forme di assimilazione e genocidio sono sempre state vincolate ad alleanze strategiche di controllo internazionale: a partire dagli anni ‘50 in periodo di guerra fredda, dietro alla politica della Turchia troviamo gli Stati Uniti. Negli anni delle mobilitazioni del ‘68[1], che ebbero importante effetto sulla gioventù curda e la sinistra turca, si assistì ad una crescita significativa del TIP, il partito dei lavoratori in Turchia, che, per aver affermato l’esistenza del popolo curdo nella Turchia orientale, verrà in questi anni duramente eliminato con l’accusa di “politica separatista” e i suoi esponenti saranno così incriminati dopo il secondo colpo di Stato ad Agosto del 1971 dinanzi ai giudici militari di Ankara. Già qualche mese prima, il 12 Marzo 1971, con l’obiettivo di bloccare lo sviluppo del movimento curdo nella Turchia orientale, le gerarchie militari sotto la direzione dei generali Tagmac e Nihat Erim si erano impadroniti del vertice dello Stato con un secondo golpe. Ma è nel 1980 che viene realizzato il terzo colpo di Stato della storia della Turchia, nel periodo in cui si era già avviata, a partire dalla sua fondazione avvenuta il 27 Novembre 1978, l’attività del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) destinata ad assurgere notorietà mondiale.
Lo scontro coinvolgeva diverse forze repressive e scopi globali precisi cosicché con il supporto di Washington e della NATO, con la successiva dichiarazione di un decreto militare che legittimò la deportazione di chiunque fosse sospettabile di operazione a danno dell’unità nazionale e dell’ordine pubblico, il 12 Settembre 1980 il generale Evren prese il potere inneggiando al ritorno del kemalismo e dell’unità nazionale, abrogando la Costituzione e sciogliendo il Parlamento. In questo periodo il tribunale di Diyarbakyir avviò un processo imputando l’appartenenza al PKK a 2.231 prigionieri[2]. All’ora, come oggi, avvenivano dei veri e propri programmi di rinsediamento demografico della popolazione, spargendo le persone, dai centri abitati per numerosi villaggi, fuori dai loro distretti di appartenenza. In termini di governamentalità[3] volta a dirigere le condotte delle vite, ci fu la realizzazione di nuovi villaggi pianificati per l’obiettivo strategico di controllo del territorio. Questa modalità di pianificazione statistica governamentale e di ricollocamento demografico delle popolazioni avviene di fatto ancora oggi in Turchia con il supporto dell’esternalizzazione dell’accesso alle frontiere per mezzo dell’accordo sui flussi migratori siglato ad Aprile del 2016 tra Turchia e Unione Europea. Mentre l’Unione Europea ha finanziato le opere di divisione consentendo la costruzione di mura di separazione al confine della Turchia, aggravando la crisi umanitaria e le uccisioni ai confini, i flussi migratori vengono usati strumentalmente per riconfigurare l’assetto demografico delle città, per mezzo dell’attivazione di una pulizia etnica e culturale connessa non solo all’annientamento delle zone a maggioranza curda ma anche all’elaborazione di infiltrazioni di destabilizzazione jihadista in Europa. La Turchia sta usando la crisi dei rifugiati come ricatto contro l’Europa e gli Stati Uniti perché possano rimanere in silenzio e chiudere gli occhi di fronte ai genocidi portati avanti. Sappiamo che le politiche d’attacco e le mire espansioniste portate avanti in questo momento non sono svincolate dalle politiche interne di eliminazione del popolo curdo, che avviene nel 2016 oggi nella stessa maniera brutale con cui avvenne nel 1915 il genocidio armeno e il genocidio di Dersim dopo le rivolte nel 1938[4].
Il governo di Erdoğan dopo aver nuovamente invaso il territorio curdo a Sudest della Turchia, attraverso massacri e tentativi di genocidio fisico e politico, cerca ora di invadere anche il Nord della Siria, il Rojava, mentre il territorio iraqeno rimane sotto ricatto, se si guarda ai discorsi della Turchia sulle città di Mosul, Shingal, e ora Raqqa[5]: la Turchia mette questi nomi nella lista dei suoi piani di invasione, quindi non solo in Siria, ma anche in Iraq. I passi che Erdoğan farà non sono solo limitati a creare caos nella regione: lo scopo è inasprire il caos in Iraq e Siria per portare lo stato iraqeno e le forze internazionali ad avere interessi nella regione. Sappiamo che dal 2003, con l’invasione dell’Iraq da parte dell’esercito americano c’è stato il fallimento del progetto di americanizzazione del Medio Oriente, tentativo conclusosi nel 2011 con il passaggio dei poteri alle unità irachene da parte dell’esercito statunitense. Russia e Usa ora prendono accordi per un controllo strategico sulla regione. Inasprendo con la Turchia conflitti e divisioni tra gruppi e fedi diverse, armando bilateralmente le loro pedine, creando situazioni senza apparenti vie di uscita. Questa è una situazione veramente pericolosa e a fronte di ciò Erdoğan non si astiene dal continuare a mettere l’intera regione a rischio allargando il conflitto attraverso tutto il territorio.
Nel XX secolo si è esercitato contro il popolo curdo una politica che non ha esempi in tutto il mondo. Per guardare con realismo alla situazione attuale, dopo aver preso seriamente atto del crollo del socialismo reale, non è minimamente possibile ragionare sulla base binaria della divisione di blocchi contrapposti. Bisogna eliminare ogni visione di mondo bipolare e capire come il controllo militare dei territori e delle risorse nella modernità capitalista, comporti contemporaneamente processi di assimilazione e differenziazione: questo avviene per mezzo di un sistema di equilibrio multipolare e su base di alleanze bilaterali, attraverso l’esternalizzazione della guerra con armamenti bifronti che implementano la divisione interna e gestiscono le aree di destabilizzazione a livello millitare, politico, culturale. Da questo punto di vista dobbiamo considerare l’Isis, supportata e addestrata dalla Turchia, un atroce prodotto delle intelligence delle potenze internazionali. Anche la Russia, come gli Stati Uniti, come Israele, partecipa esplicitamente al controllo imperialistico delle aree in Medio Oriente. Un esempio più recente è l’accordo stretto tra Putin e Erdogan per la costruzione del gasdotto nominato “Turkish Stream”- che rifornirà l’ Europa- e, uno meno recente, la presenza russa ad Aleppo, strumentale al controllo dell’accesso al mare per mezzo della propria base militare situata nella città portuale siriana di Latakia. Nonostante siano state analizzate prima alcune sue caratteristiche, il meccanismo del nazionalismo di Stato della Turchia non può dunque essere isolato per essere compreso, perché coinvolge un’impostazione del neoliberismo globale e con essa, una responsabilità per una presa di posizione consapevole in ciascuna e ciascuno di noi. Agisce inoltre collegandosi ad una dimensione del potere legata a interessi di controllo mondiali e alla colonialità: ciò ci porta a riflettere e a situarci, a comprendere che le relazioni di potere nate come conseguenza della dominazione coloniale non sono scomparse con l’emancipazione dei nuovi Stati, al contrario, sono sopravvissute e si riproducono costantemente in diversi ambiti, da quello politico a quello economico, nei genocidi, nel razzismo culturale e nelle discriminazioni sessuali e di genere. Colonialità è un concetto elaborato in America Latina dal sociologo peruviano Aníbal Quijano[6] e si diversifica dal classico colonialismo, di dominazione diretta. Viene usato per spiegare la formazione di relazioni di dominio e controllo, a livello diacronico, e la loro vigenza nel mondo attuale.
Quijano analizza il modello di potere eurocentrato e le successive relazioni originatesi con il colonialismo e il capitalismo moderno. La colonialità del potere ci richiama a vedere e considerare una connessione tra il livello internazionale, le relazioni interne agli stessi Paesi e le nostre condotte. E può valere quanto mai oggigiorno quanto veniva considerato da Rosa Luxemburg, sulla funzione del militarismo e della guerra all’interno dell’economia neoliberista nel suo assetto coloniale: se la politica mondiale è diventata teatro di minacciosi conflitti, non si tratta tanto dell’apertura desiderata da nuovi paesi per il capitalismo e dalle loro mancanze nel loro tentativo di modernizzazione, quanto di antagonismi europei già esistenti che si sono trapiantati nelle altre parti del mondo e là portano alla rottura. Per Quijano, questo vale negli anni della Conquista europea in America Latina, nel Medio Oriente questi antagonismi sono stati trapiantati dall’Europa con l’accordo Sykes Picot del 1916, con il Trattato di Losanna del 1923, e non cessano oggi, qui, come altrove, di riprodursi. Ne consegue che tutti gli Stati-Nazione vengono spinti al conflitto proprio dall’omogeneità del loro alto livello capitalistico[7]. Per fare degli esempi, vedremo che la Germania, già dal 1880, ai tempi del periodo Ottomano, nella sua impresa di colonizzazione, si faceva sostenitrice dell’ideologia islamica per supportare e promuovere la turchità contro l’imperialismo della Russia zarista. La trasformazione capitalista in Turchia nell’era della Repubblica dal 1950 nasce in seno a modelli di sviluppo occidentali (Kemal dichiarava di ispirarsi alla ruolo avuto dalla borghesia nella Rivoluzione Francese) e qui aveva avuto un ruolo di primo piano la politica occidentale anticomunista degli USA. Con l’offensiva del 1980 e il conseguente colpo di Stato si sono rafforzate l’integrazione sovranazionale e il ritorno al modello dello stato nazionale e del nazionalismo come fondamento concettuale delle relazioni.
Dall’imposizione dello Stato d’Emergenza, alla necessità di pensare al di là dello Stato
Il mondo intero ha assistito al tentativo di colpo di stato del 15 Luglio 2016 in Turchia con immensa preoccupazione. Al tentativo di golpe, è infatti seguito, come prospettato – è chiaro qui l’insegnamento fornito dai passati eventi storici- un assetto centralistico e autoritario del governo dittatoriale del partito conservatore dell’AKP di Erdoğan che ha portato a Luglio alla dichiarazione di uno Stato d’Emergenza, prorogato per i prossimi mesi da Ottobre, e quindi ancora in corso. Anche se non era stato ufficialmente dichiarato, uno stato d’emergenza era comunque ben presente dai mesi precedenti al tentato golpe. Il mondo intero ha visto le città del sudest della Turchia come Cizre, totalmente rase al suolo dall’esercito dello stato turco. A Cizre sono state bruciate vive, chiuse negli scantinati, centinaia di persone. Il governo turco ha negato questo crimine contro l’umanità, ma le denunce di deputati come Faysal Sariyildiz (Partito Democratico dei Popoli, in Turchia) hanno dato testimonianza diretta al mondo intero. Con l’uso di armi chimiche sono state attaccate anche Nusaybin, Sirnak, Yuksekova, Silvan, Silopi, Hakkari, Lice e sono stati imposti lì coprifuochi e deportazioni. Era stata già dichiarata dal governo turco prima dello Stato d’Emergenza la revoca dell’immunità parlamentare ai deputati democraticamente eletti. Due giorni fa, dopo il commissariamento e la sostituzione di sindaci in ben 28 municipalità, anche i co-sindaci di Diyarbakir, Gültan Kışanak and Fırat Anlı, e la eurodeputata Feleknas Uca sono stati arrestati e le manifestazioni pacifiche di protesta sorte davanti alla Municipalità della città subito dopo le detenzioni, represse brutalmente.
Ogni dichiarazione ufficiale sull’arresto dei co-sindaci che non si pronunci criticamente contro il contesto antidemocratico e contro le misure repressive che in Turchia stanno avendo luogo ne legittimano di fatto un ulteriore sviluppo soprattutto se si tiene in conto della preoccupante decisione, in seguito allo Stato d’Emergenza, di sospensione temporanea, da parte della Turchia, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dichiarata invocando l’articolo 15 della convenzione “guerra o altre emergenze pubbliche che minacciano la vita della nazione”[8]. Dal fallito colpo di stato militare del 15 Luglio, sono state più di 35 mila le persone arrestate, quelle indagate più di 82 mila; altre 3907 sarebbero ancora ricercate e altre 26 mila sarebbero state rilasciate sotto “controllo giudiziario”. Più di 100 mila persone sono state cacciate o sospese dal loro posto di lavoro, nella magistratura, nella scuola, nell’Università, nelle amministrazioni pubbliche, nei media ed in altri settori.
La violenza perpetrata da Erdoğan, nel fascismo più preoccupante del XXI secolo, lega istanze d’unificazione islamica, nella sua collaborazione con l’Isis, a mire imperialistiche di neo-ottomanismo, razzismo, ultranazionalismo, ed è strategica in questo suo piano la persecuzione nei confronti del popolo curdo, che aspira secondo principi di libertà, ad una democratizzazione nel Paese.
Contro l’ideologia settaria dello Stato-Nazione, le soluzioni democratiche del movimento curdo sono in corso con successo da anni in Medio Oriente, ed è proprio in seguito al loro successo che con paura si sta intensificando una reazione internazionale e turca di tale entità. Il problema curdo e l’alternativa proposta dal movimento di liberazione è mantenuto in vita dal sistema globale del neoliberismo egemonico e dalle politiche scellerate degli Stati-Nazione, che, come quello turco, offrono un ruolo chiave nella perpetuazione del caos. Ma la soluzione può trovarsi solo con la presa di posizione e con la costruzione, al di là dei confini statali, di una dimensione solidale che si riconosca nella lotta globale per una modernità democratica. Tutte le forze sociali che muovono verso una democratizzazione della Turchia possono unirsi oltre questa violenza di Stato al fine di ottenere una soluzione alla guerra in corso.
Nel Nord della Siria e al Sudest della Turchia sia durante i periodi di pace che durante periodi di guerra e resistenza, sono stati attivati, da anni, dal movimento di liberazione curdo, secondo i principi confederali del Contratto Sociale, modelli di convivenza e organizzazione noncapitalisti che hanno portato curdi, assiri, siriani, armeni, turcomanni, ezidi, arabi, ceceni, a realizzare insieme un autogoverno comunale antigerarchico, antisessista, per la parità dei generi e ecologico. Il movimento curdo, attivo da 40 anni, da prima dello scoppio delle Primavere Arabe ha portato avanti un’autorganizzazione che ha permesso di scegliere una terza via tra il Regime di Assad e l’opposizione che si appoggiava al nazionalismo arabo, diventando un esempio per tutti i popoli della regione e altrove in altre parti del mondo. Oggi, la dimensione politica della questione curda ha una portata tale che senza la sua soluzione, i problemi del Medio Oriente e del mondo intero a stento possono essere risolti a lungo termine. Ma il sistema statale, che ha in realtà una storia molto recente, come entità politico-militare, non possiede la capacità e la forza di risolvere i problemi che esso stesso ha prodotto e tende a paralizzare un pensiero svincolato, col rischio di alimentare, nei confini fisici e mentali imposti, un silenzio assordante, una comprensione che ragiona per blocchi, di fronte ai problemi del fascismo globale attuale. Era l’estate del 1932 quando Simone Weil osservava gli ultimi mesi prima della presa del potere da parte di Hitler, rendendosi conto della portata degli avvenimenti tedeschi. E spingeva la sua analisi sul totalitarismo sino a un raffronto del presente con altre forme di potere della storia, come quelle attuate dall’Impero romano, da lei detestato. I termini in cui si è discusso, anni dopo, con nuova consapevolezza, sul nazismo, erano tutti già presenti nel pensiero di Simone Weil, proprio mentre i fatti stessi stavano accadendo. Sentendoci parte di quel che avviene, capiamo come la guerra ha per effetto più pericoloso quello di disattivare qualunque capacità di opposizione e decisione autonoma da parte della società. Il neoliberismo è impegnato anche in Europa, dove è lampante l’ascesa preoccupante dell’estrema destra, a sfasciare la democrazia. Il fascismo, è una realtà con cui dobbiamo fare i conti[9]. Prima che sia troppo tardi, è necessaria una partecipazione responsabile alla propria epoca, che sia adesione piena alla realtà storica del nostro tempo. Consapevoli di questo, e eredi delle catastrofi che il fascismo delle potenze mondiali continua a realizzare, è necessario opporsi fortemente al sistema dittatoriale che il presidenzialismo di Erdoğan sta alimentando in modo sanguinario ogni giorno. Possiamo attivare elementi di comparazione con il passato, abbracciando una visione complessa della realtà e, nel fare-storia insieme, rompere l’inerzia del silenzio, esprimere il più chiaro dissenso, come urgente punto d’unione, d’origine e d’approdo.
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Note
[1] A. Ocalan. Oltre lo Stato, il potere, la violenza. Scritti dal carcere IV, Edizioni punto rosso, Milano, 2016 [2] Cfr. Sara Sakine Cansiz, Tutta la mia vita è stata una lotta, Vol. I e II, Mezpotamien Verlag – UIKI Onlus, Neuss, 2015 [3] Cfr. Michel Foucault, Sicurezza territorio, popolazione. Corso al College de France (1977-1978), Feltrinelli, Milano, 2004 [4] Bese Hozat, intervista, di Erdal Er, pubblicata su Kurdish Question, 27 Ottobre 2016 [5] Aldar Xelil, L’operazione Raqqa sta per iniziare, ANF, 29 Ottobre 2016 [6] Anibal Quijano, Colonialidad del poder, eurocentrismo y America Latina, in Edgardo Lander (a cura di) La colonialidad del saber: eurocentrismo y ciencias sociales. Perspectiva latinoamericanas, CLACSO, Buenos Aires, 2000. [7] Rosa Luxemburg, Scritti politici, Editori Riuniti, Roma, 1970. pp.164-168 [8] In seguito agli arresti non è stato fatto riferimento, nella dichiarazione dell’Alta Rappresentate UE agli Affari Esteri Federica Mogherini all’antidemocratica situazione dello Stato d’Emergenza. Sono sorti per questo dei comunicati di denuncia, si veda: http://www.retekurdistan.it/2016/10/27/sulla-dichiarazione-di-federica-mogherini-rappresentante-dellue-per-gli-affari-esteri-sullarresto-di-gulten-kisanak-e-firat-anli-comunicato-stampa/p>