da “Alfabeta2, n. 29
Quando c’è di mezzo una donna, anche con elevati incarichi di responsabilità, l’intero universo sembra organizzarsi a partire da categorie domestiche, semplici, docili, familiari. Lei conosce il linguaggio della cura. Lei sa usare – ovunque nel mondo e qualunque cosa faccia – il codice della riproduzione.
Femminile comunque convenzionale e obbligato, eternato, che abita l’inconscio collettivo, signora della natura ma anche angelo del focolare e vestale della città. Questa strumentazione culturale e valoriale viene sfruttata e reificata dal lavoro cognitivo-relazionale contemporaneo fondato su relazione e linguaggio. Il lavoro da sempre svolto dalle donne nelle case o negli ospedali diventa modello sul terreno della valorizzazione sociale. Ora, nell’approfondirsi della crisi generale di questi cupi inizi del secolo XXI, la costruzione del ruolo di cura incarnato dalla donna prevede un’altra funzione che approfondisce quella di «madre della patria», già ampiamente conosciuta. Nilde Jotti fu un’eccezione durata tredici anni, un riconoscimento per via femminile all’opposizione di un paese che si era rassegnato a morire democristiano. La giovane e severa Pivetti una meteora, simbolicamente uccisa dai maschi capi padani quando tentò di ribellarsi. Riapparve poi in televisione in versione dark, nerovestita, rasata, borchiata.
Le attuali rappresentanti femminili delle istituzioni incarnano la necessità di tradurre la materialità e la realtà all’interno di stremate e inferme «democrazie» pervertite dalla finzione, cioè completamente prive di veridicità. Una specie di «maternizzazione» della politica, un tentativo di confezionare un divenire umano della politica nel precipitare del senso collettivo dello Stato e della fiducia nella retorica abusata del «bene comune». Come si cura il distacco dalla rappresentanza, dalle istituzioni? Come si riempie il vuoto tra il palazzo e il popolo? Come si entra in contatto con gli esseri umani in carne e ossa, con i mercati rionali, le case popolari, la precarietà, gli sfratti, le cartelle Equitalia? Il governatore lombardo Roberto Maroni sceglie sette assessore donne. Nel Lazio, Nicola Zingaretti ne incarica sei su dieci in Giunta, stabilendo il record del primo sorpasso di genere. Si prova così, insomma, attraverso il maternage delle istituzioni.
La madre è il «contenitore autentico» cui ci si ispira. Donne che donano la propria capacità di rêverie (la cura degli stati di angoscia del neonato, nella dizione dello psicanalista Wilfred Bion) a fasce sociali di cittadini sempre più ampie che soffrono per il male di vivere contemporaneo. In realtà, come tutti i sistemi che accettano le diseguaglianze, «l’ordine neoliberale detesta le vittime», ha scritto Kajsa Ekis Ekman in L’être et la marchandise. Prostitution, maternité de substitution et dissociation de soi. Ma, pragmaticamente, nel taglio complessivo del sistema welfaristico, una buona mamma è ciò che possiamo mettere immediatamente a disposizione, ciò che ci possiamo permettere e che, come sempre, ci fa risparmiare. È noto che, nei secoli, sono state proprio le figure femminili del welfare familiare a mantenere in piedi il sistema.
Del resto, come ha sottolineato Wendy Brown nel saggio Moralism as Anti-politics, nel mezzo di catastrofi pubbliche come quella che stiamo vivendo in Italia, che portano con sé anche i segni dell’irrequietezza sociale, si amplifica la tendenza a personificare la politica, a legarla più strettamente a figure individuali che vengono singolarmente responsabilizzate per la situazione e per lo stato delle condizioni sociali. In questa fase di crisi avanzata e irreversibile delle democrazie capitaliste «è come se le figure dello Stato (o di altre istituzioni mainstream) non fossero portatrici di specifiche decisioni politiche o economiche, come se non fossero rappresentative delle varie codificazioni delle forme sociali del potere». Si nota, piuttosto, la tendenza a valutarle come figure umane, «genitori che, magari, momentaneamente sbagliano, dimenticando la loro promessa di trattare tutti i figli allo stesso modo». Mamma, papà, perché non mi volete bene?