Recensione di Mara Montanaro
Pensées Rebelles. Intorno a Rosa Luxemburg, Hannah Arendt e Françoise Collin è un saggio uscito qualche mese fa in Canada, Francia e Belgio. Originale in prima istanza perché a scriverlo è una docente di filosofia politica dell’Università di Montréal, ma che ben conosce alcune delle questioni chiave legate al femminismo francese e italiano: in modo inedito si muove su temi come quello di una genealogia femminile, di trasmissione e autorità femminile; in seconda istanza perché Françoise Collin continua a lavorare a Parigi e dunque la genealogia che Lamoureux costruisce è una genealogia viva, mobile, dialogante, creativa.
Rosa Luxemburg, Hannah Arendt e Françoise Collin appartengono a delle generazioni differenti e le loro opere sono diverse, ma tutte e tre sono a titolo diverso delle ribelli.
Tale genealogia femminista cerca di stabilire un dialogo tra queste pensatrici politiche, dialogo abbozzato nella misura in cui Hannah Arendt si riferisce a Rosa Luxemburg e Françoise Collin a Hannah Arendt e chi dice genealogia dice anche trasmissione, trasmissione che non significa tracciare un filo di discendenza e dipendenza tra le tre pensatrici ma piuttosto giocare sui rimandi.
L’idea di genealogia sui cui lavora è di chiara ascendenza foucaultiana nella misura in cui la genealogia per Foucault è un’inchiesta storica che si oppone all’impiego metafisico delle significazioni ideali, che si oppone all’unicità della narrazione storica e alla ricerca dell’origine e che ricerca al contrario la “singolarità dell’evento fuori da ogni finalità monotona”.
Nell’introduzione, l’autrice sottolinea anzitutto come il femminismo abbia cambiato un certo numero di cose nella vita delle donne, al di là di quanto esse si riconoscano o meno in questo movimento sociale.
“Femminismo è il nome di questa presa di parola e dei diversi movimenti che a esso si sono ispirati, non solamente per ottenere l’uguaglianza tra donne e uomini, ma ugualmente per sovvertire il posto che a loro è stato assegnato e vedere come il disaccordo è al cuore stesso della politica” scrive Lamoureux sottolineando come forse parlare di femminismi sia preferibile, perché sottolinea al contempo la diversità delle pratiche e delle resistenze dei movimenti e il loro pensiero critico.
È importante notare però che, delle tre pensatrici soltanto Françoise Collin è esplicitamente femminista, Rosa Luxemburg e Hannah Arendt sono solo coscienti di cosa significa questione delle donne e femminismo.
Ciò che le avvicina è che tutte e tre hanno fatto un’opera e che quest’opera ha costituito e costituisce una base a partire dalla quale altre donne e altri uomini possono pensare.
Precisamente, Hannah Arendt ha ripreso certe tematiche presenti in Rosa Luxemburg, soprattutto occupandosi di rivoluzione e imperialismo e Françoise Collin si è ispirata ad Arendt per risolvere alcuni paradossi del femminismo, principalmente quando parla della possibilità di fare una politica che non sia dell’ordine della rappresentazione e dell’istituzionalizzazione.
Ciò che Lamoureux in modo inedito sottolinea è che non sono discepole una dell’altra, ma che in ognuna delle loro opere ci sono rimandi e riferimenti all’opera dell’altra, rimandi e riferimenti che hanno permesso di costruire le proprie riflessioni.
In particolare Arendt e Collin hanno altresì elaborato una riflessione sulla trasmissione intergenerazionale lavorando in modo originale sulla nozione di natalità.
L’opera di Lamoureux risulta veramente importante per gli studi femministi nella misura in cui non solo rende omaggio (lei parla difemmage neologismo per opporsi all’hommage) a tre eccezionali pensatrici ma riflette altresì sulla possibilità di una genealogia al femminile che non passa esclusivamente per la procreazione, pur non negandola.
Non si tratta perciò di ricadere nel binomio procreazione/creazione o natura/cultura nei quali per lungo tempo sono state bloccate le donne, ma piuttosto di vedere cosa significa parlare di genealogia grazie al femminismo.
Partire da Rosa Luxemburg significa per l’autrice, tirare le fila della sua giovinezza marxista e poter iniziare a riflettere sulle modalità di trasmissione del sapere da una generazione all’altra e di vedere come una donna si rapporta alla politica.
Rosa Luxemburg era una militante di un partito marginale, una specie di contro-società nella Germania imperiale, in un’epoca in cui le donne non avevano lo stesso diritto di voto. La politica elettorale non era la sua preoccupazione principale, ma in ogni modo si ritrovava regolarmente nella situazione paradossale di essere un’oratrice che partecipava alle campagne elettorali della social-democrazia tedesca senza essere elettrice.
E la lista dei paradossi aumenta: rivoluzionaria in un partito essenzialmente riformista, donna in un mondo di uomini, intellettuale in un partito di lavoratori, donna emancipata senza essere femminista e inoltre essere cerniera in un momento in cui le donne come gruppo sociale dominante cominciano ad accedere tanto al sapere formale che al mondo politico.
Se da una parte, sottolinea l’autrice, si può concepire l’accesso delle donne al sapere attraverso la modalità della resistenza, bisogna altresì prendere su serio tre grandi acquisizioni del femminismo: l’accesso delle donne al sapere formale, i collettivi femministi come luogo di discussione e di azione delle donne tra loro e l’emergenza delle parole delle donne che possono avere una certa autorità. Ma, ma come tutte le acquisizioni, queste dureranno fintanto che vivrà la memoria delle lotte, la rottura che rappresentano e l’importanza che rivestono per le lotte future. Da qui la necessità della vigilanza, perché la storia non è irreversibile.
L’accesso delle donne al sapere formale non regola certo il problema della struttura profondamente gerarchica del sapere, ma la loro presenza nelle istituzioni ci fa pensare che non è necessario ripartire da zero.
I collettivi femministi hanno ugualmente giocato un ruolo importante divenendo dei luoghi dove le donne possono parlare e agire di concerto e dunque accedere alla politica. Attraverso il movimento femminista, è stato possibile trovare le parole per dire la dominazione patriarcale e le sue diverse declinazioni, per condurre lotte in grado di modificare le leggi e dare corpo all’idea di cambiare la vita per immaginare un altro modo d’essere al mondo per le donne e gli uomini.
E infine, l’autrice sottolinea che è anche attraverso il femminismo che le parole delle donne fanno autorità.
Se alcuni hanno sostenuto che tutta la filosofia occidentale non era che una nota in basso alla pagina aggiunta all’opera di Platone, non c’è un equivalente femminile a Platone e in un certo modo, quest’assenza è auspicabile.
Pensare l’autorità delle donne che ci hanno preceduto è piuttosto accordare loro il credito di aver pensato prima di noi, di aver aperto dei percorsi che noi possiamo scegliere di percorrere di nuovo o a partire dai quali possiamo cambiare strada.
Lamoureux in Pensées Rebelles costruisce dunque una genealogia femminista prendendo contropelo la tradizione patriarcale maschile e cerca di pensare la genealogia femminile identificandone tre aspetti: il doppio riconoscimento della madre sul piano filiale e simbolico, il riconoscimento delle voci femminili nella filosofia come voci autorizzate e la possibilità di stringere amicizie femminili sul modello della philia politiké così come era costituita nella Grecia antica e aggiungendo che le genealogie femminili procedono in senso inverso delle genealogie maschili: se nelle genealogie maschili è il padre che fa il figlio attraverso del riconoscimento legale, è la figlia che fa la madre, che rende una donna madre nel gesto di partorire.
Ciò che la nostra autrice fa è allora pensare le genealogie femminili al contempo sul piano intergenerazionale (su un asse verticale) e sul piano intragenerazionale (su un asse orizzontale), un po’ come la cittadinanza può essere vista simultaneamente come un rapporto di cittadini e cittadine al potere istituito e sul modo della con-cittadinanza.
Allo stesso modo, anche la genealogia, nella quale non si impone né continuità cronologica né alcun legame di causalità, le appare interessante nella misura in cui riprende in modo ironico la stigmate della procreazione che per lungo tempo è servita come pretesto all’esclusione delle donne dalla produzione intellettuale, e le permette di considerare le autrici scelte nella continuità e nella discontinuità.
Continuità dunque perché certe tematiche tornano da un’autrice all’altra, discontinuità perché queste riprese danno anche luogo a delle infedeltà, a delle dislocazioni che ne trasformano il senso.
Leggerle dunque per trovare di cosa alimentare la nostra riflessione facendo astrazione dalla tradizione che le circonda, tanto più che seguendo quanto afferma Arendt noi viviamo in un mondo in cui “il tempo non è un continuum, un flusso ininterrotto; è rotto nel mezzo, nel punto in cui si tiene, e il suo luogo non è il presente quale noi lo comprendiamo abitualmente ma piuttosto una lacuna nel tempo che la sua lotta continua, la sua resistenza al passato e al futuro fa esistere”.
Dal momento che il passato non struttura l’avvenire, appartiene a ciascuna/o di costituirsi una tradizione recuperando le perle del passato, come il collezionista evocato da Benjamin, che sostituisce la trasmissione alla citabilità.
Intento di Lamoureux in quest’opera non è, dunque, un’esposizione sistematica del pensiero di ciascuna di queste autrici, non le interessa la coerenza globale delle loro opere, ma piuttosto cercare di farle entrare in dialogo attraverso il tempo e scegliendo di volta in volta i temi del loro dialogo, mostrare come spesso si sono fatte eco: Arendt si appoggia alla Luxemburg per pensare il fenomeno rivoluzionario e riprende alcune sue idee sull’imperialismo e Collin intrattiene un dialogo esplicito con Arendt sulle questioni della natalità e della pluralità.
Ciò non significa pertanto che esse donino lo stesso senso ai termini in questione: quando Luxemburg parla di rivoluzione, si tratta della rivoluzione socialista come modalità di rottura con l’ordine sociale capitalista, mentre Arendt parla del fenomeno rivoluzionario come modalità più generale di rottura e Collin impiega il termine di rivoluzione femminista per sottolineare un lungo processo di lotta permanente.
Per Lamoureux inoltre tutte e tre sono delle pensatrici politiche prima che filosofe, ciò che le interessa è la loro capacità di riflettere in contesto: Luxemburg ha pensato la rivoluzione a partire dalle esperienze rivoluzionarie russe del 1905 e del 1917, Arendt ha pensato il mondo politico occidentale a partire dai totalitarismi in Occidente, Collin ha pensato il femminismo deprecando che il politico produce una teoria ma raramente un pensiero.
Riunirle poi in una trama genealogica è anche dovuto al loro proprio lavoro: Arendt ha consacrato un capitolo a Luxemburg e a lei si è più volte riferita nelle sue opere principali; Collin ha fatto conoscere Arendt nell’universo intellettuale francese pubblicando molti suoi testi e da Arendt ha ripreso alcuni elementi di riflessione in un periodo in cui il femminismo le sembrava aver perso il suo potenziale insurrezionale per intraprendere la sua lunga marcia nelle istituzioni.
Inoltre in tutte e tre c’è un riferimento a Marx: questa referenza è esplicita in Luxemburg che si interroga sulle modalità dell’avvento del socialismo in Europa, è più attenuata in Arendt ma presente nel suo lavoro sulla modernità e sulla rivoluzione e si trova ancora più velata in Collin che difende il carattere politico e rivoluzionario del femminismo in un confronto con la rivoluzione socialista rivista al prisma del maggio 1968.
Ciò significa che queste pensatrici , queste voci di donne del passato hanno fatto autorità lo stesso se le genealogie che Lamoureux ha costituito non sono le sole genealogie femminili possibili per ciascuna di loro.
Altro elemento che le avvicina è che tutte e tre sono state (e Françoise Collin lo è tuttora) militanti, attiviste politiche, hanno compreso che agire si fa sempre in comune e agire è ugualmente scatenare un processo del quale è impossibile prevedere la direzione che prenderà, che non riposa su alcuna verità, ma si appoggia sul probabile, sul plausibile, sull’auspicabile.
Riflettere dunque sull’opera di Rosa Luxemburg, Hannah Arendt e Françoise Collin, sostiene l’autrice, solleva altresì la questione di pensare una politica che includendo il femminismo prenda il mondo e non solamente le donne per oggetto.
E poco importa se Luxemburg e Arendt non sono state toccate dal progetto femminista, ciò che conta è che tutte e tre le hanno permesso di pensare il femminismo come politica e le condizioni per le quali può effettivamente divenire una politica non solamente ribelle ma autenticamente sovversiva.
Tutte e tre sono delle ribelli a diverso titolo: nella loro storia personale, sono poi insorte contro i valori dominanti delle loro rispettive società e hanno cercato di tradurre il proprio ideale di giustizia nel socialismo, preservando la libertà politica durante i totalitarismi o ancora nel femminismo.
Rosa Luxemburg non ha esitato a criticare Marx, gli esponenti del movimento socialista: Bernstein, Kautsky, Jaurès, Lénine lasciando un’opera che ancora ispira gli attuali movimenti contestatari.
Hannah Arendt può sembrare meno ribelle. Dall’uscita della sua prima opera Le origini del totalitarismo è stata subita apprezzata intellettualmente ed ha avuto riconoscimenti accademici.
Françoise Collin è stata associata al movimento femminista che lei ha sempre concepito in modo rivoluzionario. È stata molto attenta a far sì che le femministe avanzassero politicamente senza teorie prestabilite, se si è interessata ad alcune femministe che l’hanno preceduta, tra cui Simone De Beauvoir, non è stato per trovare una teoria pronta da utilizzare, ma piuttosto per affrontare gli impasse e i loro impensati.
Tutte e tre sono delle adepte del “pensare con”, di un pensiero che non si elabora interamente nella solitudine, anche se hanno avuto bisogno ugualmente di isolarsi per riflettere e mettere in forma le loro idee, non si sono accontentate di una camera tutta per sé, pure se ottenerla rappresenta sempre una vittoria per una donna.
Nel testo consacrato a Luxemburg, Arendt svela l’importanza che il pensiero della Luxemburg ha avuto nel suo percorso, consacra una buona parte di tale analisi a mostrare che Rosa L. non era una marxista ortodossa.
Secondo Lamoureux, c’è anche una certa dose di identificazione se Arendt insiste sul fatto che Luxemburg era profondamente ebrea ed era “coscientemente donna”. Arendt vede nell’essere ebrea e nell’essere donna di Luxemburg degli elementi che la rendono un’estranea alla social-democrazia tedesca e permettono di comprendere altresì la sua attitudine critica.
Nello stesso modo, nell’introduzione del numero dei Cahiers du Grif dedicato ad Hannah Arendt, Collin insiste sull’attualità del pensiero di Arendt: “cette pensée nous accompagne désormais où que nous soyons, dans quelque direction que nous allions, comme une ressource indispensabile pour les temps présents et à venir”.(Françoise Collin, “Introduction: Actualité de Hannah Arendt”, Cahiers du Grif , n.33, printemps 1986, p.5).
Françoise Collin precisa che Arendt chiarisce esattamente la frattura o il ritorno che conosce il pensiero politico nel momento in cui le ideologie che hanno mobilitato i grandi movimenti sociali rivelano il loro deficit.
Attraverso Arendt, Collin riflette sulla differenza tra le rivoluzioni moderne segnate dall’aspetto economico-sociale e le rivoluzioni postmoderne di cui fa parte il femminismo come rivoluzione politica e fa sua altresì la distinzione arendtiana tra privato e pubblico, distinzione che ha causato dei problemi alle altre femministe che hanno riflettuto su Arendt.
Proponendo infine una lettura genealogica delle tre autrici, Lamoureux ha posto in filigrana così anche le condizioni di un femminismo ribelle per il presente; in tale prospettiva Luxemburg, Arendt e Collin possono essere utili su tre piani per la nostra attualità, sottolinea l’autrice: nella loro rottura con l’idea di una politica strumentale per la quale il fine giustifica i mezzi; per una problematizzazione dei rapporti teoria/pratica e delle forme di politicizzazione, per una comprensione della complessità del dominio e del carattere essenzialmente politico della lotta contro le sue diverse manifestazioni.
Se Rosa Luxemburg resta fedele alla visione marxista della rivoluzione sociale, è ugualmente sensibile al processo rivoluzionario e ai mezzi per fare in modo che questa rivoluzione sia veramente il prodotto dell’azione operaia e non quella di un’avanguardia autoproclamatasi che prende il potere in nome dei proletari senza farli partecipare alla loro emancipazione. La sua idea è quella di una rivoluzione come praxis; allo stesso modo, Hannah Arendt insiste sul fatto che l’azione politica è anzitutto azione imprevedibile, perché noi siamo gli attori ma non gli autori della politica e infine intendere il femminismo come movimento rivoluzionario conduce Françoise Collin al rifiuto di piegarsi alla logica dell’efficienza e dell’istituzione, a profitto di un movimento che si disloca.
Luxemburg accorda un’importanza capitale alle pratiche sociali reali, come testimonia la sua minuziosa analisi della rivoluzione russa, Arendt ha sempre insistito sul fatto che il pensiero deve restare ancorato all’evento, piuttosto che cercare di piegare il reale al suo proprio dispiegamento e Collin insiste sul fatto che il femminismo non procede su una teoria preesistente ma che i suoi problemi si dislocano a partire dall’esperienza pratica delle donne e degli effetti delle lotte femministe.
Pensare genealogicamente non significa allora solo girarsi verso il passato, ma lasciar aperto il futuro, ciò che pone la questione della trasmissione che non è mai un movimento a senso unico: implica il dono, ma anche la scelta; così come l’immaginazione che è sicuramente rivolta verso l’avvenire non trova difficoltà ad appoggiarsi anche sulle esperienze passate.