di Sandra Burchi
già pubblicato in Questione giustizia
Un’alternanza forte, quasi violenta, fra natura e politica torna come un filo rosso nel corso di tutta l’esposizione, come se gli artisti e i loro progetti si dividessero su due grandi sponde: quelli che decidono di mostrare – più o meno da vicino – i disastri di una politica che non controlla più niente e che mostra catastrofi e rovine di ogni sorta, e quelli che si lasciano ancora conquistare dalla forza della natura, dandole il compito di rappresentare una forma ordinata o poetica di resistenza.
Inizia con una citazione da Angelus Novus di Benjamin il catalogo dell’ultima Biennale Arti visive di Venezia, con i pensieri sull’angelo della storia, una creatura che ad ali spiegate si allontana da quello che vede, dai tempi rovinosi e catastrofici del suo presente per spingersi, travolto da una tempesta, verso il futuro. Dall’immagine di questo angelo della storia parte una riflessione sul senso di una mostra come la Biennale.
L’arte non è obbligata a tenere conto della storia, né tanto meno a redimerla, ma – è questo che sembra essere alla base delle scelte del curatore di questa edizione – in questi nostri tempi è impossibile pensare a una grande esposizione restando indifferenti a quello che accade nel mondo. Se ogni artista ha diritto al disimpegno e a una presa di distanza radicale dalla realtà, se nei gesti di ogni artista può farsi spazio un rifiuto del mondo, non può muoversi così chi si prende la responsabilità di come riunire i loro lavori e ordinarli in uno stesso spazio, sembra volerci dire Okwui Enzewor, il curatore di questa edizione che ha pensato a un allestimento aperto, dialogante, molto pensoso. Una « arena » fa da perno al percorso. Un’ARENA al centro del padiglione centrale, in cui un programma fitto di performances lascia che parola, gesti, voci facciano da «intervallo» (come lo intenderebbe Deleuze) al lungo guardare degli spettatori.
E’ anche in questo modo che si crea uno slittamento fra spazio espositivo e spazio di dibattito pubblico. Ed è nell’ARENA che ha luogo Das oratorio capital, una performance affidata all’artista Isaac Julien in cui proprio il Capitale di Marx è proposto come «un’epica lettura dal vivo», una forma di lettura drammatica che si ripete più volte al giorno. Ad accompagnare, una sequenza continua di altre performances che riportano voci e corpi verso la materialità dei loro punti di partenza, quelli della cronaca politica in relazione all’arte (e-flux journal), del lavoro (work’s songs), del sintomo (the Sinthome Score di Dora Garcìa). Intorno a questa ARENA l’intera Biennale (All the word’s Futures è il titolo significativamente) con i padiglioni, ancora disposti ed ordinati novecentescamente secondo gli stati nazione (che pure nel frattempo sono molto cambiati come mostra il lavoro di Ivan Grubanov che con il progetto “United Dead Nations” occupa il Padiglione della Serbia, presentando i resti simbolici di dieci nazioni scomparse durante il XX secolo) è pensata in relazione alla sua storia, e organizzata attraverso dei filtri sovrapposti che utilizzano la traiettoria storica come linea curatoriale. Il passato della Biennale stessa è il corpo storico dei giochi di rimandi che introducono al presente e che spingono, secondo un’idea di necessità e di urgenza (quella dell’arte?) verso il futuro.
Entrando nel padiglione centrale si è accolti da un lavoro di Fabio Mauri, Il muro occidentale o del pianto (1993), una parete di valige di oltre quattro metri che evoca il carico dei deportati ad Auschiwitz e il tema penoso dei viaggi senza ritorno. Un tema che entra in molti lavori, dedicati ai profughi, ai migranti, ai carcerati, a tutti quelli che sono strappati dalla loro collocazione «naturale» nel mondo per cercarne una che non trovano o difendere, ricordandola, quella che hanno perduto.
E’ un mondo che produce diaspore e fughe, non solo quello dei regimi, ma quello del capitale appunto. Ci sono molte folle a raccontare la realtà di corpi riuniti in un solo punto. La folla della prima società industriale è traslata al presente da artisti come Chris Marker che presenta la folla del metrò, quella dello spostamento quotidiano e sotterraneo in cui coglie – attraverso il ritratto – i volti presi in espressioni quasi identiche. Nel momento che dà identità, la macchina fotografica, dimostra anche di non poterlo più fare. Le grandi foto di Andreas Gursky riprendono i raduni di massa dimostrando un occhio attento alle concentrazioni di persone e al loro fare febbrile muoversi: lo stesso in una borsa di Tokyo (Tokyo Stock Exchange 1990) e in un capannone asiatico in cui molte donne, sedute vicinissimo, intrecciano ceste. E’ lo stesso capitalismo, sembrano dirci queste foto, a produrre questo identico e diverso concentramento di persone.
Il lavoro è uno dei protagonisti di questa l’Esposizione. Fotografato, raccontato, ricordato dai canti: non solo quelli degli schiavi delle piantagioni, quelli delle fabbriche dell’ottocento, e dei canti di protesta riposizionati in un juke box da Jeremy Deller, autore anche di un pannello «Hello, today you have day off» che racconta con estrema sintesi la condizione di molti lavoratori a zero ore che oggi possono ricevere questo messaggio via sms. Ma il lavoro è visibile anche nelle forme concrete di una serie di mattoni, tutti i mattoni necessari per costruire una casa che l’artista argentino Rirkrit Tiravanjia distribuisce ai visitatori, in modo da creare un nesso fra l’esperienza della propria casa e quella del lavoro –operaio- che la produce.
Emily Kame Kngwarreye è stata una delle figure importanti per il popolo aborigeno degli Antmatyerr, in Australia, che andando oltre la pittura cerimoniale sulla sabbia del deserto e sui corpi delle donne, è diventata un’artista contemporanea attraverso una pittura astratta che usa i colori primari con forza. In Earth’s Creation (1994) in mostra a Venezia rappresenta la sua terra restituendole una forza perduta. Ma la natura può essere distantissima e allo stesso tempo presa e catturata dalla vicende degli uomini, come inVertigo sea, di John Akofram, un lavoro da cui si è letteralmente catturati: per 48 minuti tre schermi mostrano in parallelo immagini mozzafiato di una natura forte e pulita, quella dell’oceano, che non è stata risparmiata dalle tragedie della violenza umana, né quella attraverso cui i dissidenti dei regimi sudamericani hanno trovato la fine, né quella della spietata caccia ai cetacei. Le immagini si alternano lente e maestose proponendo dolore e bellezza in sequenza, lasciando gli spettatori silenziosi, quasi in preghiera.
Ed è proprio questa alternanza forte, quasi violenta, fra natura e politica che torna come un filo rosso nel corso di tutta l’esposizione, come se gli artisti e i loro progetti si dividessero su due grandi sponde: quelli che decidono di mostrare – più o meno da vicino – i disastri di una politica che non controlla più niente e che mostra catastrofi e rovine di ogni sorta, e quelli che si lasciano ancora conquistare dalla forza della natura, dandole il compito di rappresentare una forma ordinata o poetica di resistenza. Come nel padiglione olandese in cui un’autentica tassonomia di piante, sassi, rami, conchiglie, foglie e falcetti, prodotta come da tradizione dal biologo e naturalista, rigorosamente in minuscolo, herman de vries, lascia letteralmente cullati e ipnotizzati. Ma è soprattutto nel padiglione francese che la natura torna in forma di fiaba, di consolazione, di oasi in cui si piomba inavvertitamente. Revolutions di Celeste Boursier-Mougenot mette al centro un pino marittimo semovente, con blocco di terra e radici che sbucano alla base. Inavvertitamente l’albero si sposta nel salone centrale, emettendo un suono impercettibile che deriva dal fruscio dei rami, mentre a fianco, su tre lati, nelle sale laterali i visitatori sono invitati a sdraiarsi su comodissimi e lunghi divani per osservare e percepire l’incidere lentissimo dell’arbusto/bulbo. Ed è ancora un albero, quello di Robert Smithson artista-filosofo-scrittore americano, legato alla terra, quello che ci obbliga a sostenere due sentimenti opposti: ammirazione e sgomento. Si tratta di un albero di dieci metri che sta seccando sotto i nostri occhi, sdraiato a terra ha degli specchi fra i rami. Forse dovremmo provare a guardare lì dentro, a riflettere sulla nostra immagine passando, dentro quell’albero monumento che nonostante le radici tagliate sembra non voler morire.