Desirée Memme – Restituzioni a partire dagli incontri del seminario Lineamenti 2017

«So here’s the part where you make a choice: what if you could have that power…now? In every generation, one slayer is born…because a bunch of men who died thousands of years ago made up that rule. They were powerful men. This woman is more powerful than all of them combined. So I say we change the rule. I say my power…should be our power. From now on, every girl in the world who might be a slayer, will be a slayer. Every girl who could have the power, will have the power…can stand up, will stand up. Every one of us. Make your choice. Are you ready to be strong

(Buffy The Vampire Slayer)

Ripercorro qui tutte le impressioni, le riflessioni e i temi che abbiamo affrontato durante questo percorso insieme. Non mi dilungo troppo perché già in questi elaborati settimanali ho cercato di dare il mio contributo personale, raccontandomi, mettendo in circolo ricordi ed esperienze private, mettendomi in gioco in quel che è stata un’esperienza di cui ho goduto fino all’ultimo minuto, fatta di ore preziose all’interno delle mura universitarie, tempo da dedicare a noi stesse, insieme, da studentesse ma soprattutto da donne. È stato un privilegio far parte di questo progetto che spero si ripeterà negli anni e che fino a qualche tempo fa mi sembrava del tutto utopistico. Ne sono uscita arricchita, piena di stimoli e incoraggiata ancor di più a proseguire i miei studi in questa direzione. C’è tanto da fare ancora!

3 marzo 2017: Sesso / Genere / Relazioni

Pensando alla parola ‘sesso’, il primo collegamento che compio mentalmente è ‘tabù’, questo perché, quanto meno nella mia esperienza, di fatto lo è sempre stato: nessuno strumento mi è stato dato per analizzare e comprendere il ‘sesso’ (in tutti i diversi significati che esso può assumere) ed in questo il mio incontro con il femminismo è stato fondamentale nel raggiungimento di una consapevolezza che mancava. Abbiamo visto come questa parola cambi significato, da Beauvoir – sesso come stigma, caratterizzazione della sola donna rispetto all’uomo – al femminismo degli anni ’70 e al sesso come ‘sessualità’, energia pulsionale e vitale, liberazione. In particolare, trovo particolarmente aderente al vero ancora oggi (purtroppo) il discorso della filosofa francese sull’infantilizzazione della donna ma, soprattutto, sugli ostacoli interni alla sua piena realizzazione come essere umano. Quando Simone de Beauvoir descrive la donna come incapace di pensare se stessa al di fuori dello sguardo maschile, migliaia di esempi attuali mi son venuti in mente, tra ricordi ed esperienze quotidiane, a dimostrazione di come siamo ancora lontane da una totale liberazione e consapevolezza. Pensare la propria capacità seduttiva come convalidazione e legittimazione della propria esistenza rende le donne nemiche e rivali, focalizzate sul ‘chi ha la meglio’ in una piccola e misera scaramuccia che ci distrae dal vero problema, ovvero la dipendenza dallo sguardo maschile, il rappresentarsi solo in rapporto a questo sguardo. Un esempio recente: quando è avvenuto lo scandalo del servizio Rai sulle donne dell’Est, gran parte delle donne pareva indignarsi di più che qualcuno avesse osato affermare che quelle dell’est sono più ‘appetibili’ piuttosto che per il fatto di vedere descritta ancora nel 2017 la sottomissione come virtù e la donna stessa come una sorta di ‘sforna-figli’, badante, bambolina sexy, eterna infante! A distanza di una settantina di anni dagli scritti di Beauvoir è ancora possibile che una donna salti su dalla sedia paonazza in volto perché qualcuno ha osato dire che c’è un’altra più meritevole e desiderabile di lei, senza mai chiedersi il prezzo da pagare per questa desiderabilità. Questo pensarsi costantemente in rapporto all’uomo fa sì che una donna abbia in invidia e gelosia, addirittura, la schiavitù dell’altra, perché di questo si tratta. Ho vissuto a lungo secondo questi schemi che ci rendono sicuramente prigioniere e così distanti l’una dall’altra ed anche in questo l’incontro con il femminismo è stato fondamentale, in termini di liberazione, autoanalisi e scoperta di nuovi legami. La sorellanza è una pratica importante, da imparare dopo aver disimparato altro.

Su ‘sesso’ inteso come ‘sessualità’, sarei ridondante a rielencare i meriti del femminismo nel consegnarci consapevolezza del nostro corpo e del nostro piacere. Nonostante questo, lo stigma della donna isterica, frigida, talvolta ‘pazza’, continua a pesare su noi, entrando nelle nostre vite spesso e volentieri, magari nei discorsi quotidiani o nel confronto con un partner. Ci sono uomini che ancora descrivono la nostra sessualità come ‘passiva’, dimostrando d’altronde che visione limitante (e poco fantasiosa, concedetemelo) abbiano non solo della sessualità femminile, ma anche della propria. Sono stigmi che ritroviamo spesso e volentieri nel linguaggio, come quando si dice ad una donna di fare più sesso quando la si reputa acida (a chi non è capitato!) o, magari, ancora siamo qui ad elemosinare piacere, quando ci spetterebbe di diritto. Credo ci sia ancora una forte disparità di genere nel modo in cui il sesso – inteso come sessualità – viene narrato e rappresentato. La piena realizzazione e consapevolezza della propria sfera sessuale (desideri, bisogni, fantasie) viene ancora attribuita all’uomo, descritto sempre come soggetto attivo e consumante per natura, mentre sulla donna pesano ancora schemi tossici che la vogliono oggetto passivo e strumento di piacere per l’altro. Colei che dà (‘me l’ha data’), in senso quasi privativo, o colei che subisce un atto (‘me la sono fatta’), e via dicendo.

Per quanto riguarda il termine ‘genere’, anche questa è un’acquisizione che mi viene dal femminismo, mai avrei pensato che sesso e genere potessero essere due cose differenti e, a volte, non allineate. Identità di genere, ruolo di genere, identità sessuale, sono tutte definizioni e distinzioni molto importanti, ed interessante è stato ripercorrere la nascita e la diversa accezione che tali categorie hanno assunto nel tempo. La ‘questione di genere’ credo sia una delle rivoluzioni della nostra epoca e le reazioni che sta scatenando (spesso ai limiti della psicosi, per non dire della voluta controinformazione) ne dimostrano il valore critico e la potenza decostruttiva, il mettere radicalmente in dubbio l’ordine dato, la norma, la morale, il cosiddetto decoro, a partire dall’identità di ciascuno/a. Sono molto affascinata, per questo, dal femminismo queer e dai discorsi che ruotano attorno ad esso. Vi vedo, più che indifferenziazione e individualismo (come talvolta viene ingiustamente detto), una possibilità unica di mettere in discussione la realtà alla base e, soprattutto, un ampliamento della dimensione umana in termini di possibilità e riconoscimento. Vedo la ‘fluidità’ proposta dal queer come una dimensione molto più aderente al vero, alla realtà attorno a me e dentro me che mi sembra di percepire, e una possibilità di infinite interconnessioni che si traducono in infinite relazioni con sé e con l’altro/a (introducendo il terzo termine). Sicuramente devo ancora approfondire tante questioni, dato che mi sono avvicinata alle tematiche di genere da poco.

Mi affascina molto la ‘proposta’ di Beatrici Busi, con la quale voglio chiudere:

«La posta in gioco è la possibilità di costruire un’epistemologia queer del vivente che sappia davvero fare i conti con le anomalie, le variazioni, la plasticità e la persistente potenza degli hopeful monster, dei mostri di belle speranze.»1

10 marzo 2017: Natura / Cultura / Artificio

Riflettere sul rapporto Natura/Cultura è di estrema importanza per ridefinire la nostra idea di ‘umano’, la nostra percezione del mondo ma anche di noi stessi/e, ed anche per mettere in discussione pregiudizi che spesso ci portiamo dietro e reiteriamo inconsapevolmente, insieme a schemi mentali che usiamo in automatico ogni giorno, non interrogandoli mai. Il femminismo mi ha dato gli strumenti per mettere in discussione tutta una serie di discorsi, modelli e giudizi con i quali cresciamo e la prima grande avventura per me è stata proprio quella di decostruire la realtà e con essa me stessa, scoprendo così quante cose siamo abituate a pensare come naturali e invece non lo sono affatto. Basti pensare, come è stato detto durante il nostro incontro, al peso che ha l’argomento ‘natura’ nel discorso attorno al genere e a come il richiamo al ‘naturale’ sia usato per giustificare le peggiori discriminazioni verso altri esseri umani, attuando vere e proprie esclusioni di intere categorie di individui all’interno della società. Ciò che viene considerato naturale diviene la norma, il modello al quale aderire per non essere esclusi; il problema è che non tutto ciò che è definito ‘natura’ lo è davvero e, soprattutto, la norma è definita dalla narrazione dominante, generata ed imposta da chi ha il potere. Chi oggi si richiama alla ‘natura’, nei discorsi che tutti i giorni sentiamo, lo fa principalmente per opporsi alle soggettività della comunità LGBTQ+, per combattere la presunta ‘ideologia gender’ che vorrebbe scompaginare l’identità umana ma soprattutto deviare il naturale sviluppo di bambini e bambine, che crescerebbero dunque confusi/e su quel che è normale e quel che non lo è. Questo ragionamento disturba principalmente per due motivi, a mio parere: in primis non vede la grave e talvolta violenta forzatura che invece viene fatta proprio in nome di un presunto ordine dato (da un Dio o dalla Natura stessa), a causa per l’appunto di una totale confusione tra ciò che è natura e ciò che invece è cultura e talvolta rispetto allo stesso significato di questi due termini; inoltre crea uno stigma pesante, ovvero il rinchiudere determinate soggettività (che fino a prova contraria ESISTONO, i cui corpi ESISTONO nella realtà) nella gabbia della patologia, della stortura e della devianza. Questo è particolarmente evidente nella resistenza forte verso l’apertura della scuola al riconoscimento e alla rappresentanza di tali soggettività, come se si avesse paura di un’ipotetica epidemia gender o influenza malsana, come se l’identità di queste persone davvero rappresentasse una malattia, uno ‘scherzo della natura’, perciò non è ammissibile aprirsi in tal senso, poiché la norma resta ‘ciò che è naturale’ e tali persone sono e saranno sempre e comunque eccezioni, soggetti che possono esistere solo finché restano al loro posto, ai margini, invisibili.

Pensiamo anche al discorso fatto sul ‘corpo mostruoso’, corpo che devia dalla norma, corpo innominabile e non rappresentabile, corpo che deve restare chiuso nel segreto del suo orrore e, allo stesso tempo, della sua meraviglia. Pensiamo al corpo trans*, tra tutti quello che forse più rappresenta un tabù, generando allo stesso tempo repulsione e morbosa attrazione. Il corpo (e l’identità trans) non è ancora riconosciuto rappresentato a sufficienza, farlo sarebbe scandalo, sarebbe abominevole, perché corpo non ‘naturale’, corpo assemblato, modificato, deviante, corpo che disturba la quiete, le percezioni, che ci impone il farci domande. Un corpo che ancora oggi viene rappresentato quasi esclusivamente in quanto feticcio sessuale, oppure per esser dileggiato o compatito. Pensiamo poi alla psicosi che ha generato lo spettacolo teatrale Fa’afafine, storia di Alex, bambin* gender-creative; qui è proprio evidente la volontà di proibire la rappresentazione di quel corpo, di quell’identità ‘non naturale’, e se andiamo a vedere la prima giustificazione data da chi ha ben pensato di adoperarsi in crociate contro questo spettacolo, notiamo come emerge forte proprio l’ansia che in qualche modo il dare così tanta visibilità a queste identità possa sovvertire la norma, fino a sostituirla. In fondo, è sempre una questione di mantenimento del potere, ed in funzione di ciò viene spesso deciso cosa debba esser naturale e cosa no. Come abbiamo ben rilevato in aula, dietro c’è invece cultura, che viene investita di significati assoluti, in nome di determinate ideologie.

Focalizzandoci invece su come questa dicotomia abbia pesato sulla donna (ma, di riflesso anche sull’uomo e sul concetto di virilità e mascolinità) è da rilevare come sia limitato l’orizzonte nel quale molte di noi crescono, nel continuo sforzo di dover corrispondere ad un modello dato per essere davvero donne e perfezionare la nostra femminilità. Ma non solo: è grave che vengano ancora perpetrati luoghi comuni e stereotipi che vogliono propriamente femminili alcune doti o attitudini pratiche e psicologiche, propriamente maschili invece altre. Questo è limitante per la donna – che ne ha dovuto pagare storicamente le peggiori conseguenze – ma lo è anche per l’uomo. Quanti ragazzi vittime di bullismo ed emarginazione servono ancora per far capire che un certo modello di mascolinità che la cultura eteropatriarcale vuole far passare per ‘naturale’ è in verità una gabbia tossica e dannosa? Quel che viene nominato e imposto in quanto ‘naturale’ è la radice di molti mali, per tutti e tutte. Per questo mi stimola molto lo spunto dato a lezione: lo scopo di tutta questa analisi forse non è tanto il proporre un modello di donna differente, quanto piuttosto non proporre alcun modello! Sono perfettamente in sintonia con questo suggerimento. I ruoli di genere, spacciati per naturali, limitano i nostri orizzonti, ci creano fantasmi, insoddisfazioni, sensi di colpa, e costituiscono il sostrato (e spesso la giustificazione) per violenze, discriminazione e sessismo. Ci rendono persone che non siamo, creando simulacri di noi stessi/e a cui doverci adeguare, vivendo spesso vite insoddisfacenti. C’è ancora molto lavoro da fare, visto che nel 2017 tocca ribadire, ancora, che se io, donna, affermo di non voler figli, non sono per forza disturbata, egoista o immatura: questo giudizio cade su di noi perché ancora oggi la maternità è vista come obbligo e il desiderio di avere figli una naturale tappa nella vita di una donna, anzi, quel che in ultimo significa essere donne (il famoso orologio biologico, tic tac!).

A proposito della parola artificio, mi attirano molto le pratiche e performance di cui abbiamo parlato in quest’incontro, in cui viene messo al centro il corpo, un corpo che diventa soggetto di rivoluzione, perché non resta negli schemi imposti ma straripa, si appropria di spazio e visibilità. Mi affascina molto l’idea di poter usare il nostro corpo come mezzo di sperimentazione, rottura, talvolta anche scandalo. Quando sei donna questo non viene concesso. Il tuo corpo è costantemente vagliato, messo in discussione, omesso, sovrascritto. Tanto da arrivare al paradosso estremo, che mi fa sorridere quando ci penso: certa gente si richiama tanto a ciò che è ‘naturale’, salvo poi non essere in grado di accettare proprio la naturalezza del corpo femminile, pretendendo anzi un’artificiosità quasi esasperata. Quanto fa comodo crescerci con l’idea che è naturale, per noi, sposarci e avere figli da un lato, e dall’altro ingozzarci di modelli di perfezione assolutamente snaturati a cui dover aderire per essere prese in considerazione! È naturale avere peli sul corpo, imperfezioni, cellulite, ciclo: eppure queste cose vengono nascoste e destano ancora scandalo. Ironico!

17 marzo 2017: Tradizione / Memoria / Oblio

Mai avevo sentito parlare di Nicole Loraux e della particolare analisi che fa della democrazia ateniese, perciò questa lezione e la lettura del contributo di Federica Castelli mi hanno davvero colpito, soprattutto perché ho frequentato il liceo classico, dove solitamente c’è una totale esaltazione del modello ateniese, non priva di qualche criticità certo, ma la prospettiva di questa studiosa è totalmente rivoluzionaria. Proverò a riepilogare i punti che mi hanno maggiormente colpito e fatto riflettere anche su circostanze presenti.

Derealizzazione della donna

La derealizzazione della donna all’interno della polis ateniese avviene tramite la sua esclusione politica, lo spossessamento della sua funzione riproduttiva e della sua corporeità. In questi termini, la donna si profila come puro artificio, un supplemento all’umanità (maschile), oggetto di pura sessualità ed esteriorità, completa astrazione. Il meccanismo è subdolo e lo rivediamo anche oggi, in una certa cultura conservatrice, di matrice prettamente cristiana, per non dire nazionalista e fascista. La donna viene esaltata e lodata in quanto madre, dunque si compie su di essa una totale astrazione tramite la quale, in verità, la singola donna in carne ed ossa, con i suoi bisogni, desideri, rivendicazioni, sparisce per lasciare il posto alla narrazione della Madre. Sotto la finta impressione di lode e celebrazione si cela invece la radice di una continua riaffermazione della schiavitù della donna e di un costante controllo, fisico e mentale, su di essa. La Madre viene evocata per creare un modello al quale la donna deve aspirare e per ricacciarla nell’intimità di una dimensione casalinga scongiurando invasioni e interferenze nello spazio pubblico. Questo è particolarmente vero se analizziamo la questione femminile durante il Fascismo, la retorica attuale di una certa destra o quella dei vari Papi che, di volta in volta, hanno parlato della donna in questo senso, camuffando di onore e gloria quelle che sono catene…a dimostrazione di come il passato agisca nel presente.

Negazione

A contribuire al processo di derealizzazione della donna c’è un’elaborazione dell’immagine femminile sempre in rapporto a qualcos’altro, sempre come negativo di questo ‘altro’, in questo caso l’uomo. Alla donna viene negata la sua soggettività; ella non è soggetto nella città, è descritta sempre in negativo ed è sempre parlata da un discorso al maschile. L’uomo si crea un’immagine su misura della donna, un suo simulacro domabile e comprensibile, imponendo tale idea nella società e alle donne vere, in carne ed ossa, e la donna che non rientra nella norma è la pazza, la maga, la selvaggia, la degenerata.

Sono stata abituata durante gli anni del Liceo a considerare grandi eroine ‘femminiLIste’ (così le chiamava la professoressa) alcune donne della tragedia greca che tutto sono tranne che espressione di donne reali, quanto piuttosto dello sguardo maschile su di esse. Alcune tragedie vengono elogiate quasi come fossero letture ‘femministe’, solo perché le protagoniste sono donne…ma sappiamo che questo non basta, e bisognerebbe contrapporre a questa lettura semplicistica un’analisi più approfondita, tenendo anche conto di quel che ci dice Nicole Loraux, per esempio.

Per quanto riguarda la rappresentazione della donna in negativo rispetto all’uomo mi permetto di citare un esempio di questo procedimento, a dimostrazione di come certe narrazioni siano presenti e ritenute naturali, in certi contesti, fintanto oggi. Tempo fa leggevo un numero di Studi di Teologia, rivista semestrale a cura dell’Istituto di Formazione Evangelica e Documentazione, dedicato al tema Mascolinità e Femminilità. Nel primo capitolo un generoso teologo americano si propone di definire una volta per tutte i tratti caratterizzanti dell’uomo e della donna. Tralasciando il fatto che in questo contributo (ed in generale nell’intero numero, tranne che per le ultime marginali pagine) ad essere interpellati siano unicamente uomini, la lista di caratteristiche redatta mi ha davvero creato non poca rabbia: in sostanza, la femminilità è definita come tutto ciò che non è mascolinità o, peggio, tutto quel che è in risposta alla mascolinità, dunque in negativo, in passivo rispetto all’uomo. Dunque io, donna, sono ciò che l’uomo non è, sono ciò che l’uomo ha bisogno che io sia per sentirsi davvero uomo. Dopo aver elencato tutta una serie di mirabili tratti della mascolinità matura (audacia, responsabilità, autorità, ecc…) si dice, e cito testualmente, «la femminilità matura è una disposizione affrancante di accettare, ricevere e sostenere la forza e la guida di uomini degni..» e si commenta così:

è una disposizione piuttosto che un elenco di comportamenti o atteggiamenti, in quanto una femminilità matura si esprimerà in modi diversi a seconda delle circostanze […] questo concetto può esser meglio compreso se si definisce la sottomissione non in termini di comportamenti specifici, ma in termini di disposizione ad affidarsi all’autorità del marito e d’inclinazione a seguire la sua guida […] una predisposizione alla rinuncia. […] questo perché la femminilità è una predisposizione a confermare la forza e autorità di uomini degni, non semplicemente un’esperienza diretta. […] una femminilità matura trova naturale e piacevole accettare la forza e l’autorità di uomini degni […] ella è un aiuto “adatto a lui”.

Poi si passa alla sfera pubblica, e si delinea quello che è il ruolo e il tratto di una femminilità matura all’interno della società (dunque sul luogo del lavoro, nello spazio cittadino e politico) ovvero una costante consapevolezza della propria posizione davanti all’uomo, che non è solo il marito, ma l’uomo politico, il cittadino.

Questo è il luogo in cui altri vorrebbero confinarci, ieri come oggi…e mentre Federica Castelli parlava di tradizione, oblio e memoria queste pagine lette mi tornavano in mente, perché si configurano tutti i procedimenti che abbiamo analizzato tramite il pensiero di Nicole Loraux e l’esame che fa della democrazia ateniese e del ruolo della donna in essa. La nostra gloria, una gloria finta, era e continua ad esser rappresentata in questi termini: in base al grado di adesione alla cultura maschile. Più riusciamo ad aderirvi, più siamo donne degne, ma donne astratte, idee, rinchiuse nello spazio del focolare, l’oikos, e costrette ad incarnare la Madre, ma da totali estraniate, assenti a noi stesse.

La violenza, la morte, la follia, il dolore

Notiamo come c’è da parte dell’uomo un riassorbimento del femminile, volto a potenziarne la virilità, proprio a partire dal corpo e dall’esperienza del dolore. Il dolore che spetta alla donna è quello del parto, un dolore talmente inaccessibile e incomprensibile da esser paragonato alla guerra ed esser riassorbito nell’esperienza virile maschile. Ci sono tante metafore che pongono questo termine di paragone, e mi pare di averna letta qualcuna anche nella Bibbia, riferita a Dio stesso . Al di di questo, la morte femminile non è mai rappresentata detta, se non nel teatro, ed è morte violenta, senza forma. Basta compiere una rassegna delle tragedie più famose e notiamo come alla donna spetti quasi sempre un’unica fine: il suicidio.

La violenza tipicamente femminile è la follia omicida, è una violenza irrazionale, fatta di raptus, inganni, gelosie, trame e ribaltamento di tutto quel che costituisce l’ordine naturale, e spesso vediamo la donna abbinata a questi concetti di follia e violenza, non solo nell’antica Grecia…è un topic che attraversa la storia della letteratura, dell’arte, della poesia, dello spettacolo. Per questo la donna è esclusa dallo spazio pubblico, anzi ella è l’essere anti-politico per eccellenza, e compare in esso solo durante il momento anti-politico per eccellenza, ovvero quello della stasis, il conflitto civile.

Questo connubio tra femminilità, follia e violenza è particolarmente rintracciabile nella narrazione di tutte quelle donne che non hanno rispecchiato la norma imposta, e che sono divenute per l’appunto le grandi escluse della società, le selvagge, le barbare, le streghe…in un procedimento che ha attraversato davvero la storia, fino ai giorni nostri, e che non è semplicemente finzione letteraria, ma vita concreta, storia della nostra cultura e delle nostre società.

Mi vengono in mente alcune letture che, più o meno, richiamano tutto quel che abbiamo detto: in particolare consiglio Medea. Voci, di Christa Wolf, bellissima riscrittura di uno dei personaggi femminili più affascinanti e contraddittori della tragedia greca, operata (anche) dal punto di vista della stessa Medea, per ribaltarne la storia e riabilitarne la figura. Consiglio poi Ave Mary di Michela Murgia, che dedica alcune bellissime pagine all’analisi della rappresentazione della morte femminile oggi e, in generale, affronta molti temi attinenti a questo e agli altri incontri che abbiamo fatto.

Mi sono dilungata abbastanza, ma vorrei ancora spendere due parole per commentare invece l’incontro con Loredana Rotondo e le infinite suggestioni che ne son venute fuori. Tralasciando la giustificata emozione dovuta sia al tu per tu con questa grande donna, sia alla visione del documentario su Carla Lonzi, vorrei sottolineare come sia bello potersi confrontare di persona ma anche tramite delle pagine scritte con donne venute prima di noi che ci hanno lasciato più che esperienze, romanzi, poesie, studi…ci hanno lasciato una lotta, una visione. Ho 24 anni e tanti dei nomi di queste donne che sto scoprendo da un paio d’anni mi sono stati preclusi, perché aprendo un libro di letteratura, di storia e di filosofia i nomi delle donne che vi possiamo trovare sono ancora oggi pochissimi e quasi sempre trattati come appendici o approfondimenti. Come a dire: la storia, quella vera, è questa che leggi qui; quest’altro è un di più. Continuiamo ad essere appendici, ‘aiuti’, integrazioni rispetto all’uomo e alla sua storia e cultura. La rappresentanza è importante, e noi donne siamo ancora rappresentate ben poco. Cresciamo inconsapevoli del nostro passato, della nostra storia e delle donne che ci hanno precedute. Per tantissimi anni i miei ‘miti’ sono stati solo uomini, sulla mia mensola opere scritte da donne non c’erano, ed io stessa pensavo non ne valesse la pena, in fondo, perché percepivo quelle donne, i cui nomi leggevo rimpiccioliti e rinchiusi in riquadri a parte sulla pagina del libro di letteratura, semplicemente non degne di attenzione. Che paradosso! Sono felicissima che le cose stiano cambiando, per fortuna. Dobbiamo riscoprire la nostra storia, in modo che diventi anch’essa tradizione: nostra, di tutte e di tutti, anche.

24 marzo 2017: Libertà / Empowerment / Autodeterminazione

L’argomento portato durante quest’incontro dalla dottoressa Chiricosta mi colpisce molto da vicino, avendone fatto esperienza in termini negativi. Credo sia chiaro e lampante a tutte e tutti noi come l’infantilizzazione e l’addomesticamento del corpo femminile sia un costrutto ben lungi dall’esser definitivamente abbattuto e che, anzi, continua ad essere presentato, in certe narrazioni, come un dato puramente naturale ed assoluto. Purtroppo, per certi versi, questa narrazione ha avuto un peso nell’educazione che ho ricevuto da ragazzina, come sarà capitato probabilmente a molte di noi, con oggettive conseguenze di cui mi sono iniziata a rendere conto solo con una successiva rielaborazione e, ovviamente, con l’avvicinamento al pensiero femminista, che mi ha consegnato gli strumenti per poter riconsiderare e riscoprire la mia dimensione corporea, in tutti i sensi. Spesso, parlando di limitazioni affibbiate arbitrariamente al corpo femminile, si pensa principalmente a quelle di tipo sessuale (educazione alla verginità, ad esempio), eppure trovo che bisognerebbe dare un peso eguale alla narrazione tossica che continua a percepire il nostro corpo come fragile, destinato esclusivamente ad attività di cura e riproduzione, corpo da contenere, limitare, normare, ma soprattutto difendere e tutelare (verbo di cui ho personalmente paura!), in quanto ‘contenitore’ di vita. Un corpo spossessato dalla sua capacità di essere attivo, presente a sé, dinamico, aperto ad ogni possibilità. Trovo che questo limiti di netto la dimensione e lo spazio nei quali siamo abituate a pensarci, ma soprattutto ci priva di una piena consapevolezza di noi stesse, dei nostri limiti, delle nostre capacità, della nostra forza in senso di possibilità. Il mio spazio quando ero piccola era quello della strada, del giardino, del fango e della breccia. Il mio corpo era un corpo attivo, che si scontrava e mischiava ad altri corpi senza limitazioni. Che cadeva, si apriva scomposto, espandendosi, in gesti spontanei. Era tutto sommato un corpo consapevole di sé, dei propri limiti e delle proprie possibilità, un corpo che sfidava tutti e tutte, senza distinzione, e che in primis sfidava se stesso. Questa cosa è andata persa crescendo, dopo la pubertà e il cambiamento che ne deriva. Questo stesso corpo mi veniva riconsegnato cambiato, ed io ho imparato troppo presto che questo cambiamento significava anche un altro ordine di significati. Personalmente, la scoperta che con questo corpo allora, così com’era, le mie possibilità d’espressione e movimento s’erano praticamente dimezzate e limitate, è stato un vero e proprio trauma, nei termini di sentirmi diversa e di percepire questa diversità come qualcosa da cui derivasse una privazione rispetto ai miei coetanei maschi, fino a quel momento miei pari. Per me è stato molto difficile scontrarmi con questa realtà, essendo cresciuta con modelli femminili (serie tv e fumetti) di guerriere e combattenti, donne potenti, il cui corpo e potere invidiavo. Quando chiesi a mio padre di iscrivere ad arti marziali o kick-boxing mi rispose: ‘Non sono sport femminili. Fai qualcosa di più adatto’. Ora, può sembrare una sciocchezza, ma trovo che questa sia una forma di discriminazione. Non dare a bambine, ragazze, donne, strumenti per poter acquisire consapevolezza del proprio corpo e della propria forza, solo sulla base di un preconcetto infondato, è una grave privazione che facciamo loro, è una vera e propria violenza di cui scarsamente la società è consapevole. Mi ritrovo molto nell’ottica in cui Alessandra Chiricosta ha parlato di alcune pratiche marzialistiche femministe, abbattendo non pochi cliché su donne di altre culture ed etnie che un certo femminismo bianco continua a veicolare in termini profondamente colonialisti.

Per quanto riguarda il contributo di Eleonora Forenza, mi trovo in totale accordo sulla rilettura del potere in termini di possibilità ma, soprattutto, relazione, e sempre in questa chiave considero il concetto di libertà, che senza relazione diviene mero individualismo. Inoltre, sostengo ampiamente che senza lotta al capitalismo e al neoliberismo e senza una riflessione politica profonda sulle condizioni create dall’attuale sistema socio-economico, il femminismo divenga un vago girotondo rosa in cui diluire un po’ di tutto o, addirittura, alleato nel rinforzare e riaffermare questo stesso sistema che, ricordiamo, danneggia, affama e opprime donne (e non solo!) in ogni angolo del globo. Femminismo senza questa consapevolezza per me è pura ipocrisia.

31 marzo 2017: Autocoscienza / Soggettività / Agency

La riflessione che abbiamo fatto con Valeria Mercandino circa il significato dei termini autocoscienza e soggettività è stata ricca di spunti molto interessanti, precisazioni importanti e stimoli anche pratici. Quando si parla di autocoscienza femminista e soggettività si riscontrano ancora tante incomprensioni e fraintendimenti. Molte persone con cui mi confronto credono che per soggettività s’intenda, ad esempio, una certa dimensione individualistica ed egoica, dove ogni cosa acquista senso in sé e viene decisa in base ai propri egoistici bisogni e desideri. In quest’ottica, più di una persona con cui ho avuto modo di discutere mi ha risposto, convintissima, che il femminismo è un prodotto del capitalismo e del neo-liberismo, addirittura!

Come abbiamo detto, invece, la soggettività femminista si configura come una ricerca di affermazione delle donne nel loro statuto di soggetti rispetto all’uomo e alla cultura maschile, in contrapposizione alle lotte puramente emancipative. L’uomo non si è dovuto riscoprire e riaffermare in quanto soggettività, egli è sempre stato il soggetto della storia, sua e altrui. Alla donna questo statuto è stato negato, e in larga parte continua subdolamente ad esserle negato anche oggi in tante sfere della vita sociale, dei discorsi pubblici e privati. Per questo il femminismo ha avuto senso e ha senso ancora oggi: il nostro lavoro non è finito, penso ci sia sempre necessità di lottare per costruire e affermare nel mondo la nostra soggettività, perché – si è visto – appena si abbassa la guardia riemerge il pericolo di tornare ad esser oggetti passivi, parlate e narrate sempre dagli altri.

Quel che è più importante da dire rispetto alla soggettività femminista è che essa non parte da una spinta metafisica o normativa, ma dall’analisi di una situazione concreta, di vite concrete, esperienze dirette, corpi in carne ed ossa. Essa, inoltre, si costruisce in relazione e non è mai universale, non è un processo che una fa e le altre emulano, men che meno è lo stesso processo per tutte, ma un percorso di autocoscienza (e qui entra il secondo termine) a partire da sé, ma in relazione alle altre esperienze, al vissuto delle altre e alle pieghe che in esso individuiamo e che ci fanno riconoscere l’un l’altra.

Mi soffermo un attimo sul concetto di costruzione della soggettività – tramite autocoscienza – a partire dalla concretezza materiale della vita. Non saprei identificare niente nel mio percorso di crescita, a partire dall’educazione ricevuta da bambina, che abbia saputo darmi gli strumenti adatti per conoscermi e costruirmi in quanto donna se non il femminismo. L’educazione, l’istruzione, la società non ci danno grandi strumenti per sviluppare un’autocoscienza e affermarci in quanto soggetti, quanto meno nella mia personale esperienza. Sono cresciuta in una famiglia evangelica dove la mia soggettività è stata inizialmente costruita a partire da discorsi puramente metafisici e molto normativi, e dove una vera attenzione al corpo ‘in carne ed ossa’ e alla vita materiale non c’era…e questa non è una banalità, ma un qualcosa che può creare gravi danni e che, in ogni caso, ti lascia ‘scoperta’, senza armi, senza consapevolezza, in un mondo a immagine dell’uomo. La mia coscienza si è formata così. Il femminismo mi ha dato gli strumenti per sradicare tutto ciò, definirmi ed affermarmi in quanto soggettività, tramite la costruzione di una reale autocoscienza, in un continuo scambio, confronto e riconoscimento con la mia più cara amica, con la quale ho scoperto il valore del termine sorellanza (che è una pratica, in fondo!) ancor prima di capire cosa fosse il femminismo. Per questo mi sono ritrovata tantissimo nelle parole della dottoressa Mercandino e della professoressa Giardini mentre descrivevano la bellezza di questo processo forse infinito, di continuo ri-conoscersi l’un l’altra, non senza crisi e conflitto. Proprio questo sta a significare la frase ‘il personale è politico’: il mio vissuto può esser da te riconosciuto e, in quanto tale, può uscir fuori dai confini ristretti di un’esperienza individualistica che riguarda solo me e diventare bagaglio comune, lotta comune, consapevolezza condivisa…in questo credo risieda il seme della sorellanza, forse un’utopia o una realtà non priva di contraddizioni, ma che vale pur la pena ricercare. Penso anch’io, come è stato detto in aula, che la prima battaglia dev’essere quella di eliminare la competizione femminile, perché è uno scoglio che si erge a priori rispetto a tutto questo discorso appena fatto. Dobbiamo iniziare a dar valore e far risaltare le donne che hanno il merito di aver compreso o vissuto qualcosa prima di noi, dobbiamo imparare ad apprezzare ed omaggiare l’intelligenza, il coraggio, la caparbietà, la forza, a volte persino la durezza e la sfacciataggine delle altre donne…una donna libera talvolta fa più paura alle altre donne che agli uomini. Chiediamoci il perché! Dobbiamo imparare che l’affermazione della nostra soggettività non viene meno se sulla nostra strada incrociamo una donna che ha o sa qualcosa in più rispetto a noi, sia intellettualmente che fisicamente. Dobbiamo imparare a trasformare l’invidia in una possibilità di crescita personale e, perché no, comunione l’un con l’altra.

Vorrei soffermarmi poi sull’altro aspetto che tanto mi ha colpito, quello della non universalità del processo di autocoscienza. Questo mi porta a riflettere su un certo femminismo che spesso pretende di farsi dogma, quando invece dovrebbe essere pratica, confronto e autocritica quotidiana; un femminismo fatto di donne che vorrebbero parlare per tutte, ricadendo in atteggiamenti paternalistici talvolta degni del peggior uomo che pensa di poter spiegare alle donne come esser donne. Per non parlare, poi, di un certo femminismo bianco e borghese che pretenderebbe di parlare al posto di altre soggettività (immigrate, sex workers, donne trans, donne di altre culture e religioni) pensando che quello che è stato detto e fatto da una o per una si possa applicare all’intero genere femminile. Ci sono donne che, oltre ad esser colonizzate dalla cultura maschile, vedono il proprio corpo, i propri bisogni e desideri colonizzati anche da un femminismo sordo, presuntuoso e dogmatico. Per questo è importante ribadire che il processo d’autocoscienza e soggettività dev’essere personale, deve parlare della vita di chi lo compie, e non delle altre vite o delle altre donne.

Ma attenzione anche ad un certo ‘femminismo’ (uso le virgolette perché, a mio parere, di femminismo non si può nemmeno parlare in fondo) che usa linguaggi di valorizzazione della donna e che camuffa con il mantra della libertà, dell’ empowerment e del girl power i suoi intenti che nulla hanno a che vedere con una reale valorizzazione e presa di coscienza della donna. Il capitalismo e il neoliberismo assorbono linguaggi e idee, rendendo tutto merce e brand, in un pink washing assoluto di qualunque cosa passi sotto tiro. Oggi si ha un proliferare fortissimo di questo femminismo glitterato, pailettato, rosa shock; un femminismo fatto di magliette con slogan, pose e frasi fatte e che pretende appunto di valorizzare la donna facendola rimanere, però, in un sistema dove lei è ancora oppressa e dove le sue libertà sono limitate, laddove l’unica libertà concessa è quella di acquistare e consumare. Per questo bisogna stare attente/i, come ci ha invitato a fare la professoressa, al linguaggio, analizzandolo criticamente e collocandolo in un contesto, per riconoscere e additare quello che ormai è un brand, il brand donna’.

A proposito del discorso emerso circa gli uomini all’interno del femminismo, io mi limiterei a riportare qui una frase che mi piace molto: «Gli uomini che vogliono essere femministi non hanno bisogno di ricevere spazio nel femminismo. Devono prendere lo spazio che hanno nella società e renderlo femminista».

Forse, quasi verso la fine della lezione, si stava sfociando nel discorso sull’intersezionalità, prospettiva a mio parere molto interessante. Sarebbe bello, in futuro, dedicare un corso proprio a questo, per analizzare come l’oppressione e quindi le lotte di liberazione cambino seguendo le intersezioni tra genere, classe e ‘razza’.

7 aprile 2017: Giustizia / Diritto / Diritti

In quest’incontro sono state affrontate questioni senza dubbio non facili, che hanno infatti acceso un ampio dibattito, ma il nucleo fondante di quel che si è detto, al di di differenti opinioni particolari, è sicuramente la necessità di cambiare alla radice la struttura stessa del diritto, agendo anche alla base di un sistema in cui sì, parliamo sempre più di diritto, diritti e giustizia, ma che resta comunque invariato, generando non poche contraddizioni. La sfida è proprio questa, ed è valida per la donna ma anche per altri gruppi marginalizzati: non limitarsi a voler essere inclusi, ma mettere in discussione un sistema economico e sociale che resta sempre e comunque uguale a se stesso, nonostante tutto.

Con Silvia Niccolai in particolare abbiamo parlato della dicotomia AUCTORITAS/RATIO, e di come il diritto abbia sempre più la sua fonte nel primo termine piuttosto che nell’esperienza, nell’esistenza sociale. In riferimento a ciò, abbiamo visto come alcune pratiche di ‘liti strategiche’ per ottenere diritti, vadano ad amplificare e rinforzare questo slittamento verso la creazione di costrutti artificiali, favorendo lo sviluppo del diritto come norma.

Da qui, la necessità di una definizione giuridica del femminile che (ri)parta dal nostro corpo sessuato, nella sua materialità e concretezza, per la ricerca del ‘giusto’ e del ‘vero’, valorizzando le differenze, cercando un fondamento che, se proprio è da rintracciare, dovrebbe essere di natura conflittuale, e non di appiattimento.

Seppur condividendo generalmente i presupposti, andando nello specifico a parlare di omogenitorialità e GPA non riesco a condividere le conclusioni e le prospettive proposte dalla dottoressa Silvia Niccolai. Sicuramente sono argomenti delicati, di cui si sente parlare quasi sempre o con superficiale qualunquismo o nei termini della più dogmatica e ipocrita critica, non senza punte di paternalismo spesso da stesse donne che si reputano femministe. Non amo entrambi gli approcci: bisogna parlarne, ma con serietà, cognizione di causa, saperi reali, sempre tenendo presente le varie soggettività che spesso invece vengono escluse e cancellate da dibattiti di questo tipo. Ne abbiamo parlato anche durante i nostri incontri: il femminismo non è parlare al posto di un’altra, non è arrogarsi il diritto di dire ‘si fa così, punto’. Ben venga perciò confronto e dibattito, come quello avvenuto in quest’occasione: fondato e coraggioso.

Personalmente, sicuramente non ho i saperi adeguati per dare un giudizio dal punto di vista del diritto, ma non riesco a sentirmi a mio agio con la descrizione della GPA, ad esempio, come la nullificazione del corpo della donna e la realizzazione di una famiglia nuova ma antica: la famiglia paterna, patriarcale, dove è il seme ad avere un ruolo di ‘potere’, diciamo così; una famiglia che non tiene più conto, non nomina più, il ruolo generativo della donna. Non sono di questo tipo i miei dubbi. Innanzitutto, c’è sempre il solito paradosso tra quel che è autodeterminazione e libera scelta e le conseguenze poi, nella società e nell’ordine di valori vigenti, di queste due azioni. Da femministe possiamo condannare la GPA senza, di fatto, condannare e sovradeterminare, di conseguenza, tutte le donne che decidono liberamente di prestarvisi? Dov’è il limite? Quando parliamo di vera e propria libertà e quali sono i presupposti e le condizioni per una scelta libera e consapevole, e quando invece è scelta indotta da necessità e povertà? Stiamo parlando di un atto d’amore libero e profondo o di sfruttamento e mercificazione della vita umana? Tutte domande che mi pongo, a cui una risposta univoca forse non c’è. Forse dovremmo guardare caso per caso e valutare, sempre tenendo conto che resta sbagliato un atteggiamento paternalista e di vittimizzazione a priori.

E torna qui sempre il solito discorso del sistema da mettere in discussione, prima di rivendicare diritti e volere inclusione: nell’attuale sistema socio-economico capitalista e neoliberista, quali sono i rischi di legalizzare questa pratica? è opportuno parlare di libertà quando il divario economico all’interno della sola popolazione femminile è immenso? Forse questo dovremmo chiederci.

21 aprile 2017: Sessualità / Affettività / Parentela

L’ultimo incontro del laboratorio ha rappresentato una chiusura perfetta di questo percorso che abbiamo fatto insieme, lasciandomi piena di stimoli e sollecitazioni, soprattutto per quanto riguarda l’intervento della dottoressa Acquistapace circa il concetto di ‘coppia obbligatoria’ o tradizionale, tematica su cui ho sempre riflettuto anche per esperienze personali, come anche molte di noi che sono intervenute durante il dibattito. Credo che anche qui interferisca il solito conflitto natura/cultura, applicabile benissimo al concetto di coppia con cui cresciamo, a cui veniamo abituate (e abituati), fino a reputarlo normale, naturale. Quando si prova a metter in discussione questo costrutto, si incontra sempre infatti l’obiezione della naturalità di esso: si fa così perché si è sempre fatto così, e si è sempre fatto così perché è natura; tutto il resto è deviazione, accettabile, possibile e tollerabile, magari, ma pur sempre qualcosa di artificioso, addirittura pretenzioso…qualcosa da ri-allineare e ‘curare’.

Vero anche che si fa sempre più ricorso ad una morale dell’autorealizzazione, giustificando certe norme e imposizioni non più con ‘così vuole Dio’ o ‘così vuole la società’, ma portando in campo quelli che sono i valori privati: si fa così perché è il bene per te, perché è l’unica via per essere pienamente realizzate e felici, soddisfatte. Quante volte abbiamo sentito questo discorso? Personalmente, troppe. E così, ogni rivendicazione, ogni pensiero altro, viene nullificato e sovrascritto paternalisticamente, a volte, perché ci sarà sempre qualcuno/a che verrà a dirti ‘so io quel che è meglio per te’.

Questo modo di ragionare crea una frattura tra il singolo e la società, mentre si continua a puntare il dito nella direzione sbagliata. Il problema è che non si accetta che non esiste un solo tipo di felicità, un solo modello, ma molteplici. Essendo però quell’unico modello ‘naturalizzato’, è molto difficile per chi vive al di fuori della coppia tradizionale o obbligatoria realizzarsi pienamente. E nell’attuale sistema neoliberista, dove la libertà di scelta (anche sessuale) ci sembra sempre più a portata di mano, dove le opzioni si moltiplicano apparentemente all’infinito e basta scegliere quella a noi più affine (senza mai, però, mettere in discussione la base stessa di questo sistema!), l’infelicità diventa inevitabilmente una colpa individuale: se sei infelice è colpa tua, che tra così tante scelte non hai saputo far quella giusta, o semplicemente non ti è bastato accontentarti d’esser stata/o riconosciuta/o libera/o, chiedendoti invece, più a fondo, se lo sei davvero. Ecco perché è fondamentale, e in questo mi trovo d’accordo con la dottoressa, non limitarsi alla richiesta di maggior inclusione all’interno di un sistema che è viziato in sé, ma lavorare insieme per mettere in questione e denunciare le ragioni politiche per cui un certo modo di vivere non è possibile. Combattere per poi esser risucchiati/e all’interno dì un sistema di valori che resta invariato è inutile: ammiro chi, seppur dai margini, rivendica la propria differenza, la propria alterità, e combatte affinché sia riconosciuta e realizzabile, andando alla radice.

Anche dalle testimonianze in aula, il discorso sulla coppia ci tocca tutte e tutti nel profondo, e riconosciamo in tante quanto cultura ed educazione siano state insufficienti o spesso addirittura dannose e distruttive per la nostra formazione e realizzazione nella sfera relazionale. Modelli tossici di relazione – che agganciano stereotipi di genere, pregiudizi, dogmi – continuano ad esser portati avanti nelle narrazioni dominanti, costituendo il ‘bozzolo’ nel quale cresciamo e formiamo i nostri desideri, le nostre aspettative, i nostri schemi mentali. Per me è stato fondamentale l’incontro con il femminismo, ed anzi il mio percorso proprio da qui è iniziato: è stato il doloroso confrontarmi con me stessa dopo una relazione (auto)distruttiva che mi ha fatto approdare ad esso. Cresciamo con l’idea che coppia/relazione significhi annullarsi nell’altro/a, vivere simbioticamente; che amore sia sacrificio, rinuncia, cura ad ogni costo; che dobbiamo trovare il nostro senso nell’altro/a, che diventa il nostro Dio, la nostra priorità, primo ed ultimo referente di tutto quel che siamo, diciamo, facciamo, desideriamo…prima di noi stesse, prima di tutto il resto del mondo. L’idea di amore romantico, di coppia in questo senso, ci viene propinata fin dall’infanzia ovunque, e fa danni seri, se pensiamo anche soltanto alla cultura del possesso, all’idealizzazione e ‘romanticizzazione’ di quel che di fatto è dipendenza, controllo, abuso (psicologico e/o fisico).

Ecco, per me svincolarsi dal modello di coppia tradizionale/obbligatoria significa condannare tutto questo e riscrivere dalla base il senso che diamo alla nostra sfera relazionale, e lavorare per proporre altri modelli e un’altra società.

Le forme ‘altre’ di relazione e coppia non tradizionali hanno il merito di metterci in discussione in questo e far circolare per l’appunto saperi e pratiche che ci spingono verso un’analisi e un cambiamento complessivo, da fare insieme.

Storia delle mie caratteristiche di genere

Sono seduta qui, cercando d’orientarmi tra i molteplici ricordi – talvolta dolorosi, talvolta felici – di cui potrei restituirvi l’impressione per farvi capire chi sono e perché, ma la verità è che ‘donna’ è una parola complessa ed ancor più complesso e tentare di spiegare o rintracciare in me ciò che mi qualifica come tale. Il mio corpo? La mia vagina? I miei desideri? Il modo in cui mi acconcio, in cui mi muovo e parlo? Come vedo e percepisco il mondo? Non so, tutto mi sembra così insufficiente. La prima volta che mi hanno fatto questa domanda ‘quindi, per te cosa significa essere donna?’, assurdamente non ho saputo rispondere. Che sensazione strana: sono una donna, sì che lo sono, eppure non so dirti perché, non so stilare una lista di tratti riconoscibili, delimitare un recinto di certezze stabili o segni differenziati. Questa domanda (più una provocazione) me la fece mio padre, durante l’ennesimo litigio. Lui sapeva dirmi con chirurgica esattezza cosa una donna fosse (e cosa un uomo), e sprezzante mi restituì tutta la mia inadeguatezza nel non saper far fronte, allo stesso modo, a quella chiarezza, dogmatica e normante, eppure concreta. Piansi molto quel giorno, piansi dal nervoso, dall’intangibilità di quel che provavo e non sapevo esprimere, piansi perché sapevo criticare e sfidare, ma non affermarmi in maniera altrettanto stabile e decisa, davanti a lui, nella mia identità. Piansi perché sapevo distruggere e allontanare ormai quel che riconoscevo come tossico e sbagliato, ma non sapevo proporre ancora un’alternativa. Di che peso mi ero caricata, a pensarci! Volevo rintracciare la formula universale della femminilità, creando di fatto altre gabbie in cui rinchiudere chi io fossi e le altre con me, senza pensare che sarebbe bastato dire ‘eccomi, io sono questa donna che ora ti racconto, e se vuoi ti spiego perché ci sono arrivata e come, con quali traumi, quali ferite, ma anche con quale consapevolezza e forza! Siediti, che ti dico chi sono, papà, io, Desirèe, una donna’. Sarebbe bastato, oggi lo so, eppure non l’ho fatto. Alcuni percorsi si fanno marginalmente, distaccandosi, acquisendo consapevolezza ed indipendenza, facendo i conti col fatto che non sempre riusciamo infine a disvelarci e raccontarci alle persone che hanno contribuito, nel bene o nel male, a spingerci verso la ricerca – la più dura e cruciale – della nostra identità. Per me, l’affermazione della mia identità di donna ha significato in primis radicale e totale ribellione in famiglia. Ribellione da una serie di norme ed etichette che m’erano state appiccicate addosso ancor prima che me ne potessi rendere conto, ribellione nei confronti di aspettative e desideri sempre e comunque non miei, ma imposti, tanto che per un periodo ho davvero creduto mi appartenessero, prima di capire che nulla avevano a che fare con me, Desirèe, e con l’autoaffermazione della mia femminilità. Mi sono dovuta liberare dal peso del senso di colpa, dalla vergogna instillata e sedimentata come strati di cemento. Mi sono dovuta liberare da un Dio che voleva impormi chi essere e cosa volere, quando fare sesso e con chi. Mi sono confrontata con tutto quello con cui molte di noi si devono confrontare col tempo, mentre scoprono se stesse, il proprio corpo, i propri desideri, in un rapporto col mondo e con gli altri che è sempre conflittuale e ci restituisce la dimensione di ciò che siamo, ci forgia e, se non stiamo attente, ci prevarica. Per tanto tempo per me donna è stato sentirmi impotente, arrabbiata, indifesa, sempre pronta a dovermi giustificare per quel che facevo e dicevo. Per tanto tempo per me donna è stato, banalmente, non essere uomo, in una agonizzante guerra quotidiana contro sguardi, parole, violenze e bocconi velenosi da ingoiare. Donna spesso è stato sentirmi dire che ero troppo truccata, troppo svestita, troppo rumorosa, troppo esplicita, troppo intelligente e nerd ‘per essere una ragazza’; è stato un continuo dover dimostrare quel che ai ragazzi non era invece richiesto di dimostrare, perché riconducibile alle loro naturali attitudini. Donna ha significato sentirmi non tutelata in ospedale, in consultorio o in farmacia, sentendomi dare giudizi morali non richiesti, solo in quanto donna. Donna ha significato aprire i libri di storia, di filosofia, di letteratura…e sentirmi sola, perché di me non c’era traccia. Donna ha significato dover imporre la mia sessualità e il mio corpo come roba mia e solo mia, non negoziabile, non cedibile, qualcosa che non è sottoponibile a un dibattito pubblico, men che meno una proprietà a ‘gestione famigliare’. Ecco…forse sto divagando, forse sono troppo pessimistica, ma sono sincera: per me sentirmi donna, riconoscermi donna, per molto tempo ha significato un continuo scontro…la mia coscienza si è formata per negazione e sottrazione di me a me rispetto al resto. Poi è successo qualcosa, e quel qualcosa ha il valore di un incontro rivoluzionario, come quando incappi nel grande amore, quasi per caso, e tutto cambia. L’incontro col femminismo mi ha restituito per la prima volta consapevolezza di ciò che sono e, soprattutto, di ciò che significa essere donna. E questo non perché mi abbia spiegato cosa una donna sia o mi abbia dato una griglia di caratteri, no…ma perché ha raccontato me a me stessa, ha fatto in modo che mi scoprissi e che acquistassi coscienza di chi sono e perché…l’autocoscienza di cui abbiamo parlato durante i nostri incontri. Ecco, come spesso anche tra noi abbiamo detto, oggi so dirmi donna perché mi identifico in termini di relazione in una rete di valori e lotte comuni, in una storia passata e presente che ci riguarda tutte. La consapevolezza d’esser donna è nata da qui, così: in relazione alle altre donne, altre esperienze, diverse ma con un bagaglio comune. Esser donna è un fatto personale e intimo e, per quanto mi riguarda, significa condividere una storia comune, riconoscendosi l’un l’altra, pur nella propria irripetibile ed unica specificità. Donne si diventa, non c’è niente di più vero, ed è un percorso inesauribile, che dura tutta una vita intera.

Conclusioni

Mi piacerebbe concludere questo contributo con le parole di una donna che ha avuto il merito di avvicinarmi, anni fa, al pensiero femminista, Virginia Woolf:

Ad ogni modo, lei ci provava. E mentre la guardavo presentarsi alla prova, vedevo – ma speravo che lei non li vedesse – i vescovi e i decani, i dottori e i professori, i patriarchi e i pedagoghi che tutti insieme le gridavano ammonimenti e consigli. Non puoi far questo e non devi far quello! Consentito solo a professori e studenti calpestare l’erba! Signore non ammesse senza una lettera di presentazione! Aspiranti graziose scrittrici da questa parte! Così la assalivano, come una folla in gara assale un ostacolo alle corse; e la sua grande prova era saltare l’ostacolo senza guardare né a destra né a sinistra. Se ti fermi a maledire sei perduta, le dicevo, e ugualmente se ti fermi a ridere2.

E ancora:

[…] e se ognuna di voi ha cinquecento sterline e una stanza tutta per sé; se abbiamo l’abitudine della libertà e il coraggio di scrivere esattamente ciò che pensiamo; se usciamo un po’ dal salotto comune e vediamo gli essere umani non sempre in relazione reciproca, ma in relazione con la realtà, e anche il cielo e gli alberi o qualunque cosa ci sia in loro; se guardiamo oltre lo spauracchio di Milton, perché nessun essere umano dovrebbe chiuderci la visuale; se guardiamo in faccia il fatto, perché è un fatto, che non c’è alcun braccio a cui appoggiarci, ma che camminiamo da sole e che dobbiamo essere in relazione col mondo della realtà e non solo col mondo degli uomini e delle donne, allora l’opportunità si presenterà, e quella poetessa morta che era la sorella di Shakespeare rivestirà il corpo di cui tante volte si è spogliata. Attingendo la sua vita alla vita di quelle sconosciute precorritrici, come prima di lei fece suo fratello, lei nascerà. Che ritorni senza quella preparazione, senza quello sforzo da parte nostra, senza quella determinazione che, una volta rinata, possa vivere e scrivere la sua poesia, questo non possiamo aspettarcelo, perché sarebbe impossibile. Ma io sostengo che lei verrà, se lavoreremo per lei, e che lavorare così, pur nella miseria e nell’oscurità, vale la pena3.

1 Busi, Fare e disfare il sesso, 2016, p. 185.

2 Woolf, Una stanza tutta per sé, p. 104.

3 Ibidem, p. 126

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