1 settembre 2011. Roseto degli Abruzzi. Tilt.

Teresa Di Martino

Nel titolo di questo incontro ci sono parole che potrebbero tenerci qui a riflettere e discutere per giorni, sono proprio quelle parole che raccontano dello stato politico e sociale di un paese e che vediamo sotto attacco continuamente. Io vorrei capire con voi come lavoro, reddito e cittadinanza sono stati e sono legati insieme, per arrivare poi ad individuare quei diritti che ci rendono donne e uomini liberi. Il mio è un punto di vista sessuato, ma che, sono certa, può parlare a tutte e tutti.

Se andiamo indietro nel tempo, e neanche tanto (parlo del pre anni settanta), la cittadinanza non era cosa per donne. Come tutti sapete nella società fordista l’identità è data dallo status occupazionale, che permette all’individuo lavoratore di accedere al sistema di welfare. E l’individuo è maschio, perlopiù operaio, lavoratore salariato a tempo pieno e quindi soggetto politico di quello che Carole Pateman, femminista e grande teorica inglese, ha definito “lo stato sociale patriarcale”. Lei nel 2006 scriveva:
“Teoricamente e storicamente, il criterio principale di cittadinanza è stato l’“indipendenza”, e gli elementi compresi sotto il titolo di indipendenza si sono basati su abilità e attributi maschili. Gli uomini, e non le donne, sono stati visti come i possessori delle capacità richieste di “individui”, “lavoratori”, “cittadini”. Come corollario, il significato di “dipendenza” è associato a tutto ciò che è femminile – la cittadinanza femminile nello stato sociale è piena di paradossi e contraddizioni”.
Una delle contraddizioni più grandi è proprio nel superamento del modello simbolico culturale maschile di welfare: superare ciò che ha escluso le donne dall’essere cittadine dello stato sociale non significa integrarsi in tale sistema, perché la cittadinanza patriarcale, come ci dice ancora Pateman, conduce a due alternative soltanto: che le donne diventino come gli uomini, e quindi pienamente cittadini dello stato sociale da essi stessi strutturato (che poi è la politica fallimentare della pari opportunità); o che continuino a vivere come cittadine svalorizzate per il loro lavoro “da donne”. Ad entrare in crisi, per fare spazio alle donne, doveva essere, ed è stato, proprio il modello di stato sociale patriarcale, con il proprio soggetto di diritto e con il proprio sistema simbolico.

E allora come si compone la crisi del sistema sociale patriarcale? Arriviamo alla fine del sistema fordista, piombiamo nel magico mondo del postfordismo, c’è l’ingresso massiccio delle donne nel mercato del lavoro, quella che è stata definita femminilizzazione del lavoro e della società, ecc. Le donne quindi hanno avuto, almeno sulla carta, pieno accesso al lavoro e al reddito (anche se sempre pagate meno degli uomini). Sì al lavoro, sì al reddito. Ma la cittadinanza? E ora, quando parlo di cittadinanza, parlo della cittadinanza per tutti. Non sembrano cambiate molto le cose: una donna o un uomo sono cittadini dello stato sociale solo se lavoratrici o lavoratori. Sì, ora ci sono anche le donne all’interno di questa cittadinanza lavorista, ma il sistema non è stato rotto, anche se si vedono le crepe. Una riforma infatti, seppur sotterranea, del welfare esiste, con una cooperazione sociale mirata ad innovare ed allargare la sfera dei diritti esigibili, e tali pratiche coinvolgono milioni di persone (forme associative di volontariato, imprese no-profit) e tendono a costituire di fatto un aumento dei diritti sociali e una migliore qualità delle relazioni. E se lo stato del welfare ha provato, prova tuttora, ad imporre la costruzione di un’etica della cittadinanza come retorica della responsabilità individuale privata e privatistica, questa – la cittadinanza – deve invece assumere come valore sociale la responsabilità nei confronti degli altri, e questa è una delle caratteristiche che vanno a costituire il modo di stare al mondo delle donne.

Ancora Pateman ci dice che: “Se la conoscenza e la competenza delle donne nel benessere (il lavoro di cura) sono diventate parti del loro contributo di cittadine, come le donne hanno rivendicato nel ventesimo secolo (non ci dimentichiamo che il welfare dell’Italia sono le donne!), l’opposizione tra l’indipendenza maschile e la dipendenza femminile si rompe, e si va sviluppando una nuova conoscenza e pratica di cittadinanza. La dicotomia patriarcale, che separava le donne dalla cittadinanza basata sull’indipendenza e sul lavoro, sta subendo un cambiamento politico, e le basi sociali dell’idea di un’occupazione (maschile) a tempo pieno si stanno sgretolando. E’ visibile l’opportunità di creare una democrazia genuina, di spostarsi da uno stato del benessere ad una società del benessere senza esuli sociali involontari, di cui le donne, così come gli uomini, possano fare pienamente parte”. Questo è ciò per cui, ognuno di noi, per parte sua, lotta da tempo, è ciò che viviamo, noi tutti, nella nostra esperienza del quotidiano, nelle nostre politiche. Ma per far sì che una nuova cittadinanza entri nell’agenda politica di questo paese è necessario spostare, è necessario togliere il lavoro dal centro, è necessario metterci i diritti. E’ necessario lavorare alla riapertura di un possibile rapporto tra politica e diritti. Abbiamo la libertà di costruire una nuova lettura del mondo e del mondo del lavoro, chiediamoci se si può interrogare il lavoro diversamente, se si possono dare letture del lavoro diverse, o se dobbiamo tenerci quella dominante. Abbiamo bisogno di pensare una teoria del lavoro fondata diversamente, che ci permetta di pensare il soggetto che lavora e il cambiamento della crisi, il soggetto che lavora e le sue capacità di trasformare e di produrre. Non dobbiamo dimenticarci del piacere di produrre, il piacere di produrre cose, di produrre pensiero, di produrre azione politica, è il piacere del fare che mettiamo in ciò per cui siamo pagati e non solo in ciò per cui non lo siamo, è qualcosa che il sistema-lavoro in cui siamo inseriti oggi non contempla.

Vorrei che da qui uscissero proposte per prepararci ad un autunno caldo che non sia solo proteste alla manovra e difesa dell’articolo 18. Questo sarà, noi ci siamo, ci siamo sempre stati, ma è necessario spostare per far sì che da una crisi si esca riformati e non solo conservati e scardinati. E allora, da una parte, sì che continuiamo a difendere i diritti legati al lavoro, che il mercato ci ha tolto, in particolare a chi come me e le mie compagne e altri 4 milioni di giovani e meno giovani è precario, senza creare quel conflitto tra garantiti e non garantiti (che per come stanno andando le cose non esiste più), tra vecchi e giovani, che non fa altro che dare vita ad ulteriori frammentazioni. Dall’altra parte però è ora che il nostro Paese faccia i conti con quei diritti slegati dal lavoro, quei diritti di cittadinanza a cui le donne prima ed oggi tutti siamo esclusi, perché qui tutti conosciamo il valore di identificazione che viene dal lavoro, ma sappiamo che non è l’unico valore: c’è la politica, ci sono le relazioni, c’è quella dimensione collettiva che negli anni hanno tentano di sfaldare, ci sono i saperi, ci sono le pratiche, ci sono le narrazioni, c’è questo a dare vita a quel tessuto culturale e sociale di cui tutti siamo soggetti politici attivi, che tutti produciamo e abbiamo il piacere di produrre, ma che non ci viene riconosciuto, né in termini di reddito diretto né indiretto. E’ di un nuovo welfare che abbiamo bisogno, oltre che di un posto di lavoro. E allora io rilancio una proposta che è simbolo della costruzione della cittadinanza che vogliamo: diritto alla maternità universale. Allora, Acta nel manifesto dei lavoratori autonomi di seconda generazione, la propone così: “maternità universale”, ossia un importo da corrispondersi per cinque mesi a tutte le madri, indipendentemente dal fatto che siano dipendenti o autonome, che siano stabili o precarie, che lavorino o che non lavorino ancora; l’assegno di maternità dovrebbe comprendere il riconoscimento di cinque mesi di contributi figurativi da calcolare con riferimento al periodo di maggior reddito dell’intera vita lavorativa e da distribuire su entrambi i genitori.

Allora, visto che oggi il nostro paese corrisponde l’assegno di maternità solo alle donne lavoratrici con contratto stabile o con determinati requisiti, tutte le altre sono escluse da questo contributo e quindi non percepiscono reddito, perdono lavori, oppure evitano direttamente di fare figli per non rischiare. Ma attenzione, non è su questo, o almeno non solo, che vorrei portare la vostra attenzione. La maternità universale intesa da Acta è un assegno della durata di 5 mesi che lo stato dovrebbe riconoscere a tutte le madri, indipendentemente dalla loro occupazione, che già slega un diritto alla cittadinanza dal lavoro. Ma quando io parlo di diritto alla maternità universale parlo a tutte e tutti. Vi spiego, non è un ricadere di nuovo nella dicotomia produzione/riproduzione, maschio/femmina, è altro. E’ riconoscere un tempo ed uno spazio non produttivi nel senso capitalistico del termine, è riconoscere un tempo riproduttivo, generativo, dedicato alla cura, di sé, dell’altro, quel tempo per sé che la dittatura del lavoro e del non lavoro ha cancellato. E’ riconoscere ai cittadini, donne e uomini, il tempo della rigenerazione dei corpi, è riconoscere politicamente che il paradigma della produttività a tutti i costi ha fallito. Lottare tutti insieme, donne e uomini, per un diritto esplicitamente sessuato come quello alla maternità universale, significa mettere in piedi un’alleanza tra donne e uomini, per una cittadinanza che veda la produttività dipendere dalla cura del prodotto: oggi qui non parlo di lavoro di cura come quello delle donne o degli uomini che mantengono una casa, dei figli, dei genitori anziani. Cominciamo a pensare il lavoro di cura non più limitato all’assistenza relazionale, domestica, familiare o di aiuto, ma come un modo di fare e trasformare, come cura del processo di produzione e di lavoro, cura dell’organizzazione, del sistema, dei contesti, cura delle attività, cura del bene comune, cura dell’ambiente in cui si vive.

E allora ecco che il paradigma della riproduzione come cura – paradigma pensato dalle donne – diventa quello di tutti, diventa il nuovo paradigma del lavoro. E allora ecco che dal lavoro, dai diritti al lavoro, passiamo ai diritti di cittadinanza: alla casa, allo studio, alla maternità e paternità, al reddito garantito per tutti, perché si scardina il sistema di produzione che invade i tempi di vita, perché si riconosce a tutte e tutti il tempo e lo spazio della riproduzione e della produzione come detto sopra. E allora ecco che è proprio dalle donne, soggetto escluso ed eccentrico rispetto al sistema dominante – pensato, fatto e conservato dagli uomini – che parte il ripensamento teorico e politico della cittadinanza, che si slega dal lavoro, ma non ne è in conflitto, e che va a rompere il paradigma dominante di un sistema-paese che non solo ci conta solo nelle classifiche della precarietà, della disoccupazione o dell’inattività, ma non ci garantisce quei diritti costituzionali che potrebbero finalmente renderci cittadine e cittadini della cittadinanza che vogliamo.