Can One Lead a Good Life in a Bad Life? (trad. it., A chi spetta una buona vita?, a cura di N. Perugini, Nottetempo, Roma 2013)
Che cos’è una “vita buona”? E una “vita cattiva”? Come dare forma a una vita buona quando si vive nella vulnerabilità di una vita cattiva? In che modo la rivendicazione del diritto a una vita buona può mettere in discussione le forme di potere contemporaneo che organizzano le vite umane? A queste domande Judith Butler ha provato a rispondere in occasione del conferimento del Premio Adorno, consegnatole a Francoforte nel settembre del 2012, e preceduto da polemiche e attacchi feroci riguardanti uno dei fronti sui quali l’autrice è maggiormente impegnata (l’occupazione israeliana della Palestina), a cui ha risposto con il secondo dei testi pubblicati in questo libro, che è nato in collaborazione con il blog il lavoro culturale.
Nelle riflessioni di Butler, l’interrogativo politico-morale del come condurre una vita buona solleva la questione piú ampia del “che cos’è la vita” negli ordinamenti politici del mondo contemporaneo; inoltre, chiedersi come condurre una vita buona significa riconoscere il limite dell’idea stessa del “condurre una vita”, dato che non tutti i processi vitali sono sotto il controllo di chi si interroga su come condurre quella stessa vita. È in questa tensione tra vitale e morale che Butler sviluppa la sua riflessione sul rapporto tra il concetto di biopolitica teorizzato da Michel Foucault (un insieme di operazioni, tecniche, logiche di governo e regolazione politica delle vite) e la questione morale posta da Adorno: “Che cos’è una vita vera?”
Se la biopolitica è l’ordinamento e l’amministrazione differenziale delle vite (non a tutte le vite viene attribuito lo stesso valore), allora chiedersi “che cosa è degno di essere chiamato vita” significa porre sotto scrutinio la ragione sottostante a questa forma di governo. Ma Butler non si limita a identificare i presupposti dei governi biopolitici in cui viviamo. Il suo percorso di pensiero spoglia la ragione biopolitica con l’obiettivo di delineare una strada di resistenza a questo ordine delle vite, uno spazio di incontro tra chi vive vite con valori diversi ma è in grado di riconoscere questa condizione differenziale. Questo processo di verifica dell’ordinamento biopolitico nello spazio di tensione tra vitale e morale trova un’importante chiave di lettura e di proposta politica in una delle riflessioni piú ricche degli ultimi lavori di Butler: quella sul lutto, sulle vite considerate degne o meno di essere piante, degne o indegne di lutto. La comprensione delle modalità di attribuzione di valori differenziali alle vite umane non può che passare anche per la comprensione di come alcune vite siano considerate non-vite – vite “già morte” – molto prima della morte.
La questione che Butler pone consiste proprio nel domandarsi come, da un lato, in una condizione di vita già abbandonata alla morte, sia possibile formulare e costruire un’irruzione politica e una pratica di resistenza; dall’altro, quali attenzioni siano richieste a chi ha a cuore la questione della “vita buona” al fine di riconoscere queste pratiche. Come si può sfuggire al manifestarsi della propria “dispensabilità” e all’incrinarsi di quella condizione fondamentale del vivere sociale e dell’agire politico – cosí come li intende Butler – che si trova nell’“ indispensabilità” di tutte le vite? Come contrastare la cronicizzazione della precarietà che ormai sembra essere normalizzata dalle forme contemporanee di organizzazione del politico? Come fare della critica all’ordine biopolitico una “questione vivente”?
Butler prova a fare un passo avanti rispetto all’analisi di Foucault e alle teorie del potere biopolitico. In un regime biopolitico, in cui a corpi diversi si attribuiscono valori diversi, chiedersi “come si sta vivendo” la propria vita significa rivelare il meccanismo di funzionamento di quel regime, poiché attraverso tale questione si riconosce proprio la dispensabilità o indispensabilità della propria vita. Interrogarsi sulla vita del proprio corpo (e di quello altrui) significa dunque porsi un interrogativo su come funziona il campo del (bio)politico, e porre le basi per una critica della ragione che regola questo campo.
Ma in questo passaggio cruciale, Butler inserisce un accostamento, combinando in maniera pungente la critica dei regimi biopolitici con quella della divisione tra pubblico e privato nell’ideale repubblicano di politica (a partire dalla polis greca). In quest’ideale, il pubblico è inteso come momento politico (“la vita della mente” di Hannah Arendt) e il privato come momento pre-politico (la protezione e la cura della vita del corpo, la “vita buona” nella concezione di Arendt: che sia proprio qui la chiave del mancato incontro tra lei e Foucault?). Se questa distinzione risultava già problematica in un ordine ideale repubblicano, è a maggior ragione che, in un ordine biopolitico in cui il campo del politico funziona come amministrazione e attribuzione di valori diversi alle vite, questa distinzione viene e va superata. Un corpo dispensabile è una vita politicamente dispensata dal punto di vista dell’ordine biopolitico (pubblico e privato non sono piú antitetici). E quando i corpi che quest’ordine rende dispensabili irrompono nel pubblico e producono atti corporei (verbali e non) di rifiuto della propria condizione di vita, non è possibile relegarli dentro lo steccato di un affare privato.
Là dove i corpi sono gli oggetti del controllo politico, entrano nella sfera dell’atto politico anche i gesti e le performance corporee con cui le persone esprimono un’opposizione, un rifiuto della propria dispensabilità o una forma di solidarietà – pure nelle condizioni in cui ogni solidarietà sembrerebbe impraticabile. Questo è ciò che Butler chiama democrazia percepibile. Se la biopolitica può essere compresa (con Foucault) solo tramite un’analisi microfisica del potere, le forme percepibili di insorgenza e rifiuto della disuguaglianza vanno riconosciute e indagate tramite una microfisica della resistenza, in tutte le forme corporee che questa resistenza assume. Sembra essere proprio questo il cuore della proposta critica di Butler.