Tratto da dwf, Questo sesso che non è il sesso 2, 2011, pp. 79-86
a cura di Teresa Di Martino
Torniamo al lavoro sul lavoro. E lo facciamo dopo i due numeri dello scorso anno “Diversamente occupate” e “Lavoro. Se e solo se”, dopo numerosi incontri in varie città d’Italia con altre donne, in un percorso che ci ha viste e ci vede tuttora coinvolte come interlocutrici di un pensiero. E lo facciamo ripercorrendo proprio quel percorso, per restituirlo a noi stesse e perché diventi traccia del lavoro di relazione e pensiero dell’esperienza che abbiamo fatto nostro. È stato proprio il pensiero dell’esperienza a condurci, senza una chiara consapevolezza iniziale, dritte al tema del lavoro. La mia tesi sulla femminilizzazione del lavoro ha dato le coordinate del già pensato ad un discorso che era nostro, nel senso dell’esperienza. I primi incontri con le donne della redazione di questa rivista si concludevano immancabilmente con le nostre narrazioni e riflessioni sul lavoro – una viva insoddisfazione nei confronti di quel mondo – e lo sconcerto delle più grandi sulla centralità del tema. Le scelte di Angela ed Eleonora di lasciare un posto di lavoro ben avviato “alla carriera” e sicuro, per resistenza ad un mercato che chiedeva loro disponibilità di tempo ed energie permanente, era la chiara dimostrazione, sì della loro forza, ma anche dell’insofferenza che molte di noi mostravano verso un mondo del lavoro che non tiene conto dei nostri desideri, dei nostri tempi, dei nostri corpi. La voglia di saperne di più, di scoprire le esperienze delle altre, di conoscerne i desideri, si sono incontrate con la voglia delle donne più grandi di capire cosa fosse cambiato nella vita delle donne, perché le loro narrazioni si concentrassero su un tema – il lavoro – che nel femminismo degli anni Settanta non sembrava aver avuto la stessa urgenza. Paola Masi e Patrizia Cacioli hanno scommesso sulle nostre capacità di individuazione e ricerca di senso di un tema che poteva essere affrontato da più parti e ci hanno messe alla prova con un atto di fiducia che ci ha rese più forti e ci ha dato la possibilità di vivere un rapporto intergenerazionale che è stato conflitto e trasmissione allo stesso tempo. È iniziato così un ricco periodo di confronto, con le donne più grandi e tra noi, che avrebbe portato alla stesura di due numeri di DWF dedicati al lavoro, alla nascita di diversamente occupate come soggetto politico, all’incontro con altre donne.
Il lavoro, oltre la precarietà
Scegliere di pensare e di dire sul lavoro oggi ha significato, per parte nostra, scegliere di farlo a partire dalla differenza, senza perdere l’orizzonte del qui ed ora, ma senza farci schiacciare dalla retorica della precarietà, che sì esiste ed è una condizione comune a tante e tanti, ma non esaurisce certo la questione. È piuttosto una forma che potenzia il modello lavorativo che si va imponendo e ne aumenta il potenziale ricattatorio, riducendo al contempo gli spazi di relazione e di azione collettiva (poiché siamo tutte e tutti impegnati nella lotta per farci “confermare”), un meccanismo che enfatizza la nostra vulnerabilità e la contraddizione di barcamenarsi tra la necessità di reinventarsi continuamente per non essere improvvisamente espulse/i, l’impegno assoluto che dedichiamo al lavoro e la sensazione che ne segue di essere indispensabili e allo stesso tempo lo scoprirsi inessenziali quando l’impegno di mesi viene vanificato alla scadenza di un contratto che non sarà rinnovato. Il lavoro precario è contesto ideale ma non esclusivo dell’espropriazione dei talenti, delle intelligenze e in generale delle soggettività, se si pensa agli schemi di pressione per l’autosfruttamento sperimentati anche nel contesto di lavori strutturati, continuativi e tutelati da contratti regolari. Ancora una volta la retorica dell’assunzione di responsabilità e del portare se stesse al mercato si salda con la spinta a competere, per salvarsi, per ottenere riconoscimento o per uno status superiore, che ci tiene ancorate alle regole del sistema. Ripristinare la solidarietà al posto della competitività diventa allora precondizione per affrontare la questione del lavoro in un discorso che tenga conto nuovamente del bene comune. In questo quadro avevamo bene a mente il già detto e il già pensato dalle donne, ne riconoscevamo il valore aggiunto, ma a volte anche la miopia di un pensiero per nulla ancorato all’esperienza. Diversamente occupate nasce così, con l’idea di parlare di lavoro e stare nel lavoro a partire dal pensiero della differenza, tenendolo saldo però, senza costruzioni artificiose, al nostro tempo, alla nostra storia, alle nostre esperienze. L’equilibrio instabile e faticoso tra lavoro retribuito e non retribuito, i corpi tesi alla ricerca del desiderio, la voglia di ritrovare una dimensione collettiva, la necessità di dire e dirsi le condizioni e a quali condizioni. Il pensiero dell’esperienza, teorizzato da Federica Giardini e Annarosa Buttarelli (2008), ha preso corpo tra noi senza che ce ne accorgessimo: diversamente occupate prende forma prima ancora di diventare rivista. Un freddo pomeriggio domenicale, a casa di Antonella, riunite per mettere in parola i nostri confronti, Claudia ha l’idea del blog (http://diversamenteoccupate.blogspot.com/). Siamo on line prima che su una rivista tradizionale, ci costruiamo uno spazio in cui prendere parola, in cui esprimere pensieri e narrare esperienze al di là della rivista: è l’inizio di un percorso che ci vede soggetto politico al di là di DWF ma che a questa rivista si lega per scelta e prospettiva politiche. Diversamente occupate è il titolo di un numero di DWF, è un blog, è un soggetto politico in cui riconoscersi e da cui prendere parola, è la nostra condizione rispetto al mondo del lavoro e non solo: precarie sì, ma non solo. È il nostro modo di starci nel mondo del lavoro a renderci differenti, è la prospettiva dalla quale partiamo a renderci occupate diversamente, è l’equilibrio che ci ostiniamo a mantenere tra lavori fatti per mantenersi e lavori fatti per piacere e desiderio a renderci diverse. In più, rispetto alle donne più grandi di noi, c’è la precarietà, quella condizione postfordista che si fa compagna di vita e che rende tutto più complicato, a partire dalla volontà di mantenere in vita il desiderio.
Ci piace chiamarla tournée, è stato un viaggio
Con il nostro bagaglio – di riviste, di pensiero e di esperienza – giriamo l’Italia per incontrare altre donne, per confrontarci, per conoscerci, per mettere in rete i saperi e le pratiche, gli strumenti e le competenze. Ancora una volta è il rapporto con le più grandi a renderci forti. Le donne della redazione di DWF ci lasciano ampio spazio d’azione: è una novità per la rivista viaggiare in mano alle autrici di città in città per mettere in pratica la politica delle relazioni, e i numeri sul lavoro vanno a ruba. È la costanza nel tenere i fili del discorso e dei rapporti di Federica Giardini e Sandra Burchi, le donne della generazione di mezzo, a sostenere il nostro viaggio e a farci acquisire autorevolezza. Ogni trasferta, ogni incontro, ha avuto in sé l’idea di “portarci a casa qualcosa”, di dare e ricevere, di arricchirci dell’esperienza e del sapere delle altre. È stato bello scoprire che insieme a questo bisogno di mettersi o rimettersi in relazione, si sia riconosciuta l’importanza del pensare insieme, del pensiero in presenza, dell’incontrarsi appunto. Siamo state a Livorno, ospiti dell’Associazione Centrodonna Evelina De Magistris (11 dicembre 2010), e lì è emersa con forza la necessità di individuare gli strumenti a disposizione: non solo quelli di insieme, che permettono di inquadrare la prospettiva, ma più che mai quelli concreti, giuridici, quotidiani, improvvisati in mancanza di riferimenti certi (contrattuali, ma non solo) e soprattutto efficaci. Lì c’erano alcune avvocate. Quello è stato un incontro importante, per noi e per loro: noi abbiamo scoperto donne che vivono e gestiscono la propria professione a partire dalla differenza, loro hanno trovato lo spunto per mettere nero su bianco un “Abbecedario del lavoro femminile” (Faucci, Lessi, Magi, 2011), per dare quelle conoscenze e quegli strumenti utili alle giovani donne al lavoro, “per un mondo nuovo in cui la condivisione si sostituisca alla competizione”. L’incontro con loro, come con altre, ha dato parola alle cose vecchie ma sovversive (la costituzione, il primum vivere), ma soprattutto ha aperto a quelle nuove e agli spostamenti cui danno vita: smettere di identificare l’uscita dal domestico solo con il lavoro, togliersi dal denaro come misura dominante, ri-conoscere alla società e non al mercato il ruolo di luogo dello scambio e di conseguenza riconoscere scambi non economici che arricchiscono. Le donne di Livorno hanno risposto al desiderio che avevamo espresso circa un mese prima a Milano, all’Università Bicocca, ospiti di Carmen Leccardi (Centro interdipartimentale per lo Studio dei Problemi di Genere, 16 novembre 2010): Vogliamo costruire una rete di saperi e pratiche che a partire dalle condizioni materiali delle donne nel mercato e nei luoghi di lavoro possano dare gli strumenti (teorici ed empirici) alle donne per viverci con agio, per riconoscere potenzialità e limiti delle modalità femminili di lavorare, per vigilare rispetto ai modi in cui le istituzioni si organizzano, per vigilare sul proprio tempo e sul proprio spazio, per impedire che il lavoro ci divori e ci digerisca, per ridare vitalità al nostro desiderio, che non più e non per forza deve realizzarsi nel mercato del lavoro, perché se il mercato, oggi, non ci vuole, la nostra occupazione può continuare ad essere differente (Diversamente occupate), ma se ci vuole, come sembra che sia, deve stare alle nostre condizioni (Lavoro se e solo se). La conditio sine qua non della nostra azione politica è stata ed è il lavoro con le altre e con gli altri: ridisegnare le coordinare di quella dimensione collettiva che abbiamo sentito come una mancanza, quel desiderio di condividere le esperienze comuni in un mondo comune. È questo che abbiamo portato “in tourné”, come ci piace dire, è questo che ci ha fatto incontrare donne ricche di saperi e pratiche, che ci ha messo in contatto con loro e i loro mondi in una relazione di scambio e nutrimento reciproci. Penso a Pina Nuzzo dell’Udi, a Paola Bora della Casa della donna di Pisa, a Susanna Camusso della Cgil.
2 marzo 2011: l’incontro in Cgil nazionale
È stato proprio a partire da qui, dalla ricerca di un orizzonte condiviso sul lavoro che potesse renderci meno sole nella negoziazione, che siamo arrivate in Cgil nazionale, a Roma, luogo estraneo ai circuiti femministi ma accogliente. Accogliente perché ad ospitarci c’erano delle donne – Susanna Camusso, segretaria generale della Cgil, Ilaria Lani, responsabile nazionale delle Politiche Giovanili Cgil e Claudia Pratelli dei “Giovani NON più disposti a tutto” (Campagna di comunicazione e viral marketing promossa dai giovani della Cgil contro le condizioni di precarietà lavorativa che interessano in particolare le giovani generazioni) – e perché lì dentro, in uno spazio che non era il nostro, sono nate relazioni politiche feconde. Siamo arrivate in Cgil con un titolo eloquente: “In equilibrio tra lavori e diritti” e con un desiderio chiaro: un desiderio che parla della necessità di re-inventare una dimensione collettiva andata persa, di ritrovarsi al di là delle appartenenze, di tornare a vivere un mondo comune, di ricomporsi. Ricomporre le capacità a cui ognuna di noi quotidianamente dà corpo reinventando al meglio le condizioni di lavoro, usando il proprio percorso di vita come laboratorio di invenzione, di re-invenzione, di cambiamento. Abbiamo scelto la contaminazione di pensiero con la Cgil per condividere il “di più” dell’esperienza delle donne, anche al lavoro, e per sollecitare strumenti, concreti, da giocarsi nel mondo del lavoro. Perché è proprio quel di più che le donne vogliono, un di più fatto di strumenti, dispositivi e forza che possano restituire il valore aggiunto che sono proprio loro a portare al mercato. E se quel di più al lavoro si trasformasse in un “di più di diritti”? Niente di così nuovo in fondo, ma più che mai attuale se pensiamo che la direzione intrapresa dall’economia è quella di mettere a profitto l’intera esistenza, liberandosi dall’idea stessa di regole e diritti e soprattutto se a nominarlo sono le donne che,quando prendono parola, parlano per tutti, per la società intera. Dovremmo forse partire da qui, dalle condizioni materiali che vivono quotidianamente i nostri corpi al lavoro, per dare vita a quella teoria del lavoro delle donne che potrebbe parlare a tutte e tutti. La politica torna così a essere caratterizzata da ciò che innesca di partecipazione e non più di rappresentanza, con la riapertura di un possibile rapporto tra politica e diritti che Federica Giardini ha definito “politica giusgenerativa”. Partire dalle azioni che effettivamente si compiono ed esprimersi non solo nella sfera pubblica, ma anche fermando un momento giuridico in questo agire, riconnettere agire giuridico e diritto. Passare quindi dall’urgenza alla fattispecie giuridica significa avere la possibilità di riconnettere politica e diritto, senza pensare che la politica abbia senso solo quando consegue diritti, e senza pensare che i diritti preesistono all’agire politico. In questo percorso la politica delle donne fa due passi avanti. C’è un guadagno dal punto di vista teorico perchè le donne possono, a partire dall’eccentricità rispetto al passato recente, parlare una situazione e aprirla per tutti. E c’è l’acquisizione di una pratica: partire da sé per produrre elementi giuridici, quella pratica che può rinnovare il rapporto tra politica e diritto in modo generativo.
Dalla narrazione all’agire politico
Come evitare il corto circuito fra “il di più” dell’esperienza femminile, e il segno negativo che caratterizza – da sempre – la partecipazione delle donne al mondo del lavoro? Dove fondiamo la nostra differenza nel lavoro per trovare una nuova idea del lavoro? Il problema è che non si ha una figura di riferimento, come lo è stata per il lavoro maschile l’operaio-massa. È difficile definire il lavoro delle donne senza avere un’idea di un lavoro delle donne. Il punto di partenza deve essere un modo di desiderare il lavoro diversamente, e quindi come stare nello spazio pubblico, in relazione con la produzione, la retribuzione, le competenze ed il desiderio di utilizzarle, altrimenti non si va oltre il tema della discriminazione femminile al lavoro (Camusso). Partiamo togliendo il lavoro dal centro: la questione non è “solo” il lavoro, quanto e come ce n’è, bensì la relazione che noi tutte incrociamo con il lavoro e con tutto ciò che a esso si collega, quindi produzione, denaro, indipendenza, ma soprattutto tempi e modi. E ancora, la questione non è quanto e come lavorare, bensì che tempi e che modalità vogliamo portarci al lavoro, e a che condizioni. C’è un modo per evitare che quel “di più” che le donne hanno portato al mercato venga espropriato dal mercato stesso? Esiste un sistema per evitare che si instauri una relazione di sfruttamento verso quel desiderio di lavorare diversamente espresso dalle donne e preso in consegna dalle ultime generazioni? La questione è allora come “rendere politico” quel qualcosa in più che diversamente portiamo al lavoro, qualcosa che dia risposte al nostro desiderio e al nostro piacere. Perché non è tempo di rinunciare al piacere della produzione, perché è una parte costituente della realizzazione di sé, è il piacere di creare, il piacere del lavoro fatto bene e del lavoro ben fatto. E se lavorare è un piacere, è necessario tornare a considerare la dimensione socializzante ed espressiva del lavoro, che può permettere a tutte e tutti l’esodo da quella passione triste che sembra diventato il lavoro. Questo senza dimenticarci delle condizioni delle donne al lavoro e delle variabili che le compongono, prima fra tutte il tempo, oggi più che mai terreno di possibile alienazione. È questo il tramite per prendere in considerazione la tensione tra vita e lavoro, o, come l’ha definita Camusso, “la perdita della percezione della differenza tra lavoro e vita”. È questo, soprattutto per le lavoratrici e i lavoratori della conoscenza, il terreno in cui si perde il senso di ciò che è vita e ciò che è lavoro, spesso in contrasto con i desideri delle donne, e quindi discriminatorio. Ma c’è sempre quella relazione con le condizioni: perché se la mia vita è lavoro e il mio lavoro è piacere, sono le condizioni di lavoro e di vita a fare la differenza. Cos’è che ripaga il mio lavoro? Non è solo il denaro, c’è qualcosa in più: c’è una parte di senso, c’è la relazione e il piacere delle relazioni, c’è il desiderio di “darsi” e “dare” alla società, c’è il riconoscimento di se stesse in uno spazio, anche simbolico, da condividere con altre ed altri. È la relazione guidata dal desiderio e dal piacere che permette di ri-creare quella dimensione socializzante e collettiva che oggi si è disgregata e frammentata, e che non può che ri-prendere vita da quei soggetti che non hanno contribuito alla costruzione di un modello dominante fallimentare, ovvero le donne.
Prendere parola per tutti
E negli ultimi anni dal mondo dei femminismi italiani si è detto e scritto molto sul lavoro: prima le Storiche con Genesis “Flessibili/precarie” del 2008; poi la Libreria di Milano con il manifesto “Immagina che il lavoro” del 2009; poi DWF con “Diversamente occupate” e “Lavoro. Se e solo se” nel 2010; e infine Leggendaria “Voglio lavorare. A modo mio” del 2011. È leggibile il desiderio delle donne di pensare e dire del lavoro, di narrare ma anche di andare oltre, di portare con sé strumenti e competenze da condividere con le altre. E anche con gli altri. Noi lo abbiamo fatto insieme il 9 aprile 2011 in occasione della manifestazione “il nostro tempo è adesso, la vita non aspetta”, di cui siamo state promotrici insieme ad altre reti e associazioni tra cui i giovani NON + disposti a tutto della Cgil. Il 9 aprile è stata una data importante e come tutte le date porta con sé un percorso politico. La manifestazione è stata il frutto di un lungo lavoro di tessitura, di tutte quelle reti, associazioni e gruppi che negli anni sono nate attorno al tema del lavoro e alla condizione di precarietà, lavorativa ed esistenziale. L’unione di forze, energie, desideri, saperi e pratiche ha preso corpo senza omologare, ha creato una dimensione collettiva unificante ma non ha dimenticato le differenze e la differenza. Diversamente occupate, tra le promotrici della manifestazione, ha portato e porta la politica delle donne nella politica mista. L’alleanza con i maschi si traduce in lavoro e politica comune in cui dire – sempre – della differenza, in cui nominare ed agire la politica delle donne – nelle modalità, nei tempi, nel linguaggio e nei contenuti – per arrivare a prendere parola per tutti, partire da sé per arrivare all’altro. La relazione, nata dall’incontro del 2 marzo, con le giovani donne della Cgil – Ilaria e Claudia – si è tradotta nella condivisione dell’esperienza del lavoro, nel confronto tra due e più mondi – quello del femminismo e quello del sindacato – che si è nutrito del desiderio di tutte e tutti di trovare un terreno comune. È proprio da quella politica delle relazioni – consapevole per parte nostra, agita quasi naturalmente per parte loro – che ha preso vita il 9 aprile, un forte desiderio di ricomposizione, di ri-dare corpo a quel tessuto comune che è andato perso nel tempo: così si è inaugurato un percorso che parla di diritti al lavoro e alla vita. Noi ci siamo dentro, donne e uomini, insieme.
Riferimenti bibliografici
A.Buttarelli, F.Giardini, a cura di, (2008) Il pensiero dell’esperienza, Baldini Castoldi Dalai: Milano
DWF, (2010) Diversamente occupate, n.1 (85)
DWF, (2010) Lavoro. Se e solo se, n.2 (86)
A.Faucci, M.P.Lessi, J.M.Magi, (2011) Abbecedario del lavoro femminile, Marco Del Bucchia: Lucca
Genesis, (2008) Flessibili/precarie,VII/1-2
Leggendaria, (2011) Voglio lavorare. A modo mio, n.86
Sottosopra, (2009) Immagina che il lavoro, Libreria delle donne di Milano