Donna Haraway e la lotta del Teatro Valle Occupato. Sull’uso politico di Le promesse dei mostri

Donna Haraway e la lotta del Teatro Valle Occupato. Sull’uso politico di Le promesse dei mostri

Le promesse dei mostri. per una politica rigeneratrice per l’alterità inappropriata, è un saggio scritto da Donna Haraway nel 1992, e proposto ora, per la prima volta, in italiano grazie alla casa editrice DeriveApprodi e alla traduzione di Angela Balzano. Gli altri testi di Haraway a cui faremo riferimento in questo articolo sono l’edizione italiana di Manifesto cyborg, scritto e pubblicato in inglese nel 1985, ma arrivato in Italia nel 1995, per le edizioni Feltrinelli, grazie alla traduzione di Liana Borghi; e l’edizione italiana di Staying with the trouble. Making Kin in the Chtulucene, scritto e pubblicato in inglese nel 2016, e parzialmente pubblicato quest’anno in italiano (sono stati elisi i capitoli 5, 6 e 7 dell’edizione originale) dalla casa editrice Nero, con il titolo di Chtulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, e la traduzione di Claudia Durastanti e Clara Cicconi.

Come recita la prima frase del saggio: “Le promesse dei mostri è un diario di viaggio, un tentativo di mappare i paesaggi mentali e terreni di ciò che può valere come natura in alcune lotte locali e globali” (Haraway 2019: 37), laddove lo scopo del viaggio è “scrivere la teoria, cioè di produrre una visione informata per capire come muoversi e cosa temere nella topografia di un presente impossibile ma fin troppo reale, alla ricerca di un ancora assente, ma forse possibile, presente alternativo” (ibidem), metodologia per certi versi simile alle “cartografie” di Rosi Braidotti, e da cui la filosofa italiana deve aver preso più di qualche ispirazione. Al centro del discorso troviamo la “natura”, che nel pensiero harawayano si delinea sia come topos, la terra intesa come luogo comune (40), sia come tropos, ovvero figurazione, costrutto, artefatto, movimento e dislocamento (41). Per far emergere questa doppia articolazione, la proposta di Haraway è quella di mappare la natura indossando le lenti di un artefattualismo dinamico.

Cosa significa artefattualismo? Significa principalmente che la natura è fatta, nel senso che è al contempo finzione e fatto. Questo vuol dire che, ad esempio, gli organismi sono oggetti naturali, ma non nascono, piuttosto vengono costruiti da determinati attori collettivi, in determinati luoghi e tempi, attraverso determinate pratiche tecno-scientifiche. Questo elemento costruttivo avvicina pericolosamente il pensiero di Haraway al paradigma postmodernista, in cui la realtà soccombe alla forza dei segni. Tuttavia Haraway, cosciente di questa vicinanza, interpreta il postmoderno non tanto come una decontesualizzazione tecnologica, a cui ne conseguirebbe la derealizzazione dell’esperienza, quanto piuttosto come un particolare tipo di produzione della natura: il mondo intero è rifatto a immagine della produzione di merci (41-44).

Per questo motivo Haraway si chiede se sia possibile collocarsi in posizione differenziale rispetto al prodigio postmodernista, pur tuttavia rimanendo fedele alla sua tesi iniziale: la natura è un artefatto. Rispondere a questo interrogativo richiede due rovesciamenti correlati: il primo è la liberazione dalle narrazioni celebrative della storia della scienza e della tecnologia come paradigmatiche del razionalismo; il secondo è la riconfigurazione delle attrici/ori nella costruzione delle categorie etno-specifiche di natura e cultura, laddove le attrici e gli attori non iniziano né finiscono in “noi”. Il fatto che il mondo, per “noi”, esista come “natura” indica piuttosto un particolare tipo di relazione con molti attori/trici umani, non solo organici, non solo tecnologici. Conseguente a questo doppio rovesciamento è la critica all’altra caratteristica nefasta dell’iperproduzionismo postmodernista, laddove quest’ultimo, in stretta correlazione con il naturalismo trascendentale, rifiuta la capacità di agire di ogni altro elemento che non sia l’Uno, e desidera produrre e riprodurre solo l’immagine speculare di sé stesso, motivo per cui questo paradigma può solo fingere di fare la differenza. Di contro, secondo Haraway, la natura è sì fatta, ma non interamente dagli esseri umani, piuttosto è una co-costruzione tra umane/i e non-umane/i (46).

Solo riconoscendo una capacità di azione che travalica i confini dell’Uno possiamo seguire Haraway nel viaggio che ci porta nell’articolazione di un artefattualismo dinamico, differenziale e oppositivo. In questo quadro la narrazione della natura assume nuova centralità, utile per mostrare la molteplicità di elementi umani e non-umani che concorrono alla generazione della realtà. Ricollegandosi alla lettura che Terence Hawkes fa degli attanti teorizzati da Algirdas J. Greimas (funzioni e non personaggi), Haraway propone una visione “pubblica” della natura, in cui diversi elementi, umani e non-umani, concorrono alla narrazione della vita collettiva (47). Da questo punto di vista è necessario anche mettere a critica la trama del fallologocentrismo propria dell’uomo costruttore-di-utensili e utensile, figura posta alla base del produzionismo e dell’umanesimo, come? Traslando il motto di Simone de Beauvoir, “donne non si nasce, si diventa”, per cui, di conseguenza, gli organismi non nascono ma sono fatti (47).

Nello specifico, l’artefattualismo harawayano mostra come gli organismi siano costruiti in quanto oggetti di sapere, per mezzo di pratiche di discorso scientifico, ad opera di attrici/ori particolari e sempre collettivi, in momenti e luoghi specifici. Per dare corpo a questa affermazione Haraway trasla il concetto di “apparato di produzione letteraria” di Katie King, in “apparato di produzione corporea” (48). Con “apparato di riproduzione letteraria” King intende l’emersione della letteratura all’intersezione tra arte, affari e tecnologia, in modo tale da mettere a fuoco l’oggetto poetico (poem) in quanto oggetto di valore, ma anche (s)oggetto dotato di agency. In questo orizzonte, Haraway rileva anche i limiti dell’identificazione (immedesimazione), che si basano su logiche di appropriazione, incorporazione e tassonomie, in favore di meccanismi che inducono l’affinità, come i rituali della poesia, della musica e certe forme di pratica accademica, ovvero in favore di un’unità politico/poetica, di cui aveva già parlato in Manifesto Cyborg(Haraway [1985]1995: 49).

Haraway parla dunque di natura sia come luogo comune sia come potente costruzione discorsiva, che si concretizza nelle interazioni tra attori semiotici e materiali, umane/i e non. Ne sono concreto esempio i cosiddetti “corpi biologici”, i quali emergono all’intersezione tra ricerca biologica, scrittura, pubblicazioni, pratiche mediche ed economiche, produzioni culturali di ogni sorta, incluse metafore, narrazioni e tecnologie di visualizzazione. Secondo Haraway, entrare in questo nodo di intersezioni vuol dire avere a che fare con i linguaggi dinamici che si intrecciano attivamente nella produzione del valore letterario, divenendo trickster in un mondo che è attore e attante spiritoso.

Se gli organismi sono incarnazioni biologiche, è anche vero che emergono da un processo discorsivo, laddove la biologia è un discorso e non il mondo vivente in sé. Inoltre, come ha mostrato recentemente Karen Barad, riprendendo alcune intuizioni di Haraway, gli esseri umani non sono gli unici a decidere di tali discorsi, poiché anche gli strumenti tecnologici usati per “osservare” concorrono alla costruzione degli oggetti scientifici “osservati”. E ancora, va specificato che questo tipo di costruzione discorsiva non coincide con una variante della costruzione ideologica, poiché i corpi sono storicamente determinati, dinamici, possiedono diverse specificità e gradi di efficacia, provocando diversi tipi di impegno, intervento, e quindi discorsi (48).

Fin qui il percorso delineato da Haraway è composto dall’artefattualità della natura, dall’apparato di produzione corporea, e, aggiungiamo ora, da una certa corporalità della teoria: questo vuol dire identificare l’esperienza con un processo di semiosi (De Lauretis 1984), e dunque dislocare la scienza dei segni lontano dalla psicanalisi, e vicina alla tecnologia (intesa foucaultianamente come confusione tra sociale e tecnico).

Un altro tassello da aggiungere al discorso politico degli anni ‘90 di Haraway, è quello che risignifica ciò che si intende per riproduzione. Riprendendo Zoe Sofia, la quale sostiene che ogni tecnologia è una tecnologia riproduttiva, Haraway propone di sostituire la terminologia della riproduzione con quella della generazione: infatti, visto che gli “oggetti” della cultura della scienza sono le forme di vita, raramente, con riproduzione, si intende il “clonare” ciò che già esiste. A differenza dell’autopiesi dell’Uno e del medesimo, l’artefattualismo differenziale di Haraway diffrange, componendo fantasie a interferenza. Queste modalità sono strettamente imparentate con le inappropriabili altri/e di cui parla Trinh Minh-ha. In questo contesto essere inappropriati/bili significa trovarsi in una razionalità diffrattiva e non riflettente (55). Il pensiero di Zoe Sofia viene ripreso da Haraway altresì per diffrangere le narrative della nascita dell’Uno maschile e patriarcale, contrapponendovi piuttosto l’allegoria femminista differenziale e diffrattiva dell’identità inappropriata/bile, che nasce in un mondo fantastico chiamato “altrove”. Per comprendere meglio questo passaggio è necessario sostare ulteriormente sulla processualità della diffrazione.

La diffrazione non produce “il medesimo” semplicemente perché lo disloca, come fanno la riflessione e la rifrazione. La diffrazione è alternativo alle pratiche di riproduzione del “medesimo” perché è una mappatura di interferenze, ovvero disegna una mappa di luoghi in cui gli effetti della differenza si manifestano. (56) È allora dal punto di vista della metodologia proposta da Haraway, e al riparo dal tecnoutopismo proprio dell’ultimo decennio del Novecento statunitense, che vale la pena prendere in considerazione le varie alterità inappropriate/abili che vengono interpellate de Haraway nel tardo capitalismo, in quella specifica collocazione che prende il nome di “posizionamento della soggettività cyborg”.

Inoltre, con la mole di discorsi nati attorno all’Antropocene, sta oggi riemergendo l’urgenza di mettere in crisi il dualismo Natura e Società, o natura e scienza, proprio del sistema neoliberista patriarcale, e di cui troviamo già traccia in Le promesse dei mostri. Proponendo di situare le tecnoscienze all’interno degli studi culturali, già negli anni ’90 Haraway apre al continuum naturcultarale grazie a una diversa analisi delle narrazioni, capace di animare una narrativa diffrattiva, ovvero una storia basata sulle differenze, che resistere alle modalità scientifico-oggettive-patriarcali (in cui si agisce come ventriloqui per l’alterità). Da questa prospettiva, l’obiettivo è narrare una possibile politica di articolazione piuttosto che di rappresentazione (87).

Nel perseguire questo scopo, Haraway propone una meteodologia che prende spunto dal quadrato semiotico di Grimas, eletto a dispositivo artificiale che genera significati e, al contempo, rumore di fondo. Il quadrato di Haraway è suddiviso in quattro parti, e la filosofa si muove al suo interno in modo orario, dal quadrante A al quadrante non-A (71). I primi tre quadranti, A, B e non-B, raccontano una storia a partire da figurazioni popolari di natura e scienza, che a prima vista possono apparire convincenti e amichevoli, e tuttavia, per mezzo della loro diffrazione, si rivelano essere segnate da profonde strutture di dominazione e oppressione. Ma Haraway non si accontenta di decostruire, e in modo creativo, propone immagini differenziali/opposte, dando vita a narrazioni/pratiche che potrebbero promettere qualcosa di diverso.

Proponiamo di seguito una descrizione approfondita del primo quadrante (A), mentre andremo veloci sul secondo (B) e il terzo (non-B), per sostare infine sul quarto e conclusivo quadrante (non-A).

Nel quadrante A siamo nello “Spazio Reale” chiamato “Terra”. Qui Haraway diffrange una pubblicità colonialista e tropicale della Gulf Oil Corporation, che recita “Understanding is Everything”, e raffigura un tocco tra due mani: quella di una donna bianca e quella di uno scimpanzé, immagine commerciale che fa riferimento agli speciali televisivi della National Geographic Society — finanziati dalla stessa multinazionale petrolifera –, e in particolar modo ai famosi reportage di Jane Goodal. “Eccoci al cospetto di una scienza naturale, codificata come inconfondibilmente femminile, che contrasta gli eccessi strumentali di un complesso militare-industriale-tecnoscientifico, in cui il codice della scienza è pregiudizialmente antropocentrico e maschile” (72), sostiene Haraway, per mostrare come il messaggio salvifico della natura per mano di una donna occidentale e bianca funziona come Pink-Green-Washing di una delle industrie petrolifere più potenti e distruttive al mondo. Con un’analisi articolata e approfondita delle narrative tossiche sottese a questo spot, Haraway mostra successivamente come, nel mondo mercificato moderno e postmoderno, le narrative siano di due tipi: la scienza che parla per la natura, e la natura come portatrice di un messaggio salvifico.

Rimanendo nel quadrante A, si può abbandonare questa doppia narrazione, dice Haraway, guardando ad un’altra pubblicità colonialista e tropicale: una storia contenuta nella rivista “Discovery” dal titolo Tech in the Jungle (Agosto 1990). Siamo in Amazzonia, e l’articolo è accompagnato da una grande foto a colori che ritrae un indiano Kayapo con in mano una telecamera, durante una protesta per proteggere la foresta in cui vive. “Discovery” invita a leggere questa immagine come il dramma dell’incontro tra “tradizione” e “modernità”, narrazione che lungi dall’essere un resoconto fedele della realtà, conferma l’esistenza di queste stesse categorie epistemologiche.

Diversamente Haraway propone nuove forme di relazioni e solidarietà con la pratica dell’uomo Kayapo, esplorando altre possibili narrazioni, che articolano diverse pratiche di relazione umano e non-umano (indigeno e telecamera). Sulla scia di Susanna Hecht e Alexander Cockburn, Haraway inizia col diffrangere la foresta amazzonica, criticando la narrazione di “paradiso sotto campana” (81) e, passando a visualizzarlo come esito dinamico della storia umana e biologica, sostituisce il paradigma di “salvezza della natura” con le politiche per la “natura sociale”. Il che vuol dire, ad esempio, non chiedere parchi nazionali o riserve recintate, ma tentare una diversa organizzazione tra terra e persone, “che sappia ristrutturare il concetto di natura attraverso la pratica della giustizia” (ibdem).

Ecco allora che si fa più chiaro come la natura contro cui si scaglia Haraway è il costrutto prodotto dall’Uomo Bianco Occidentale, che crea altri costrutti a sua immagine e somiglianza. Di conseguenza, da questo denso saggio emerge la necessità di narrare un’Amazzonia che non è mai stata vuota di cultura in quanto natura, ad esempio riconoscendo le popolazioni indigene che vi abitano da tempo, e i loro stili di vita. A questa storia si aggiunge quella dell’attivista Chico Mendes, che da questi popoli proveniva e che fu ucciso per la sua visione poetica/politica capace di mettere in relazione diversi attori e attanti che vivevano la foresta, rivendicando potere decisionale su di essa, perché persone e foresta sono elementi costitutivi di una relazionalità sociale, e non perché possedevano il potere di rappresentarla. Attraverso una serie di pratiche politiche e di lotte, come la costruzione della Forest People’s Alliance — che Hetch e Cockburn hanno chiamato “ecologia della giustizia” –, Haraway mostra come il “punto fondamentale è che la Biosfera amazzonica è un’entità collettiva irriducibilmente umana/non-umana” (86), in cui Natura e Giustizia non sono una dicotomia oppositiva, piuttosto un groviglio interrelato, elemento material-semiotico.

Qui la questione non è, come propone Joe Kane, quella di rispondere alla domanda chi parla per il giaguaro?— molto simile ai pro-vita quando asseriscono chi parla per il feto?, ovvero domande che si fondano sulla politica semiotica della rappresentazione, e quindi su tecniche di distanziamento che rifondano l’autorevole dominio del rappresentante (88-89), in cui l’autorialità spetta solo a quest’ultimo —  piuttosto si tratta di guardare ad attrici/tori e attanti con un approccio alternativo, per fondare un altro modo di lavorare nelle scienze, una altro modo di lavorare con i saperi, e situandosi nel quadro di alcune specifiche lotte.

Visto che gli attanti sono entità collettive che fanno cose in un campo d’azione strutturato e strutturante, la questione è porsi l’obiettivo di costruire pratiche di articolazione, piuttosto che di rappresentazione. La politica di articolazione di Haraway — pratica culturale che prende la produzione dei saperi come terreno di conflitto — è immediatamente operativa. Il primo esempio si riferisce alla foto dell’indigeno Kayapo che lotta per mantenere il suo stile di vita non moderno con una telecamera in mano: “potremmo benissimo dire che l’uomo stia forgiando un nuovo collettivo di umane/i non-umani, in particolare formato dalle/ai Kayapo, da videocamere, terra, piante, animali, pubblico vicino e lontano; potremmo affermare che non vi è alcuna violazione di confine. Lo stile di vita non è non-moderno (più vicino alla natura); la fotocamera non è moderna o postmoderna (nella società). […] Dove non esistono natura e società non esiste piacere, non vi è più posto per il divertimento che deriva dal rappresentare la violazione del confine tra di esse” (95). In questo modo Haraway diffrange l’idea di confine patriarcale, aprendo contemporaneamente a zone liminali, naturculturali, in cui si producono nuovi tipi di azioni e responsabilità.

Il quadrante B, ovvero “l’altro spazio” o l’extraterrestre, mostra come esso sia codificato in modo del tutto generale, in opposizione al costrutto della “natura” terrestre. Lo “spazio” non riguarda le origini dell’umanità sulla terra, ma il suo futuro, allocronico tempo-chiave nella storia della salvezza. Lo spazio, così come i tropici, sono figure utopiche e topiche negli immaginari occidentali, le loro caratteristiche dialetticamente opposte stanno a indicare origine e fine della creatura, la cui vita materiale si suppone sia al di fuori di entrambe: l’uomo moderno o postmoderno (98). In modo simile alla metodologia usata nel quadrante A, Haraway diffrange e articola una nuova narrativa, passando per il primo essere mandato nello spazio (lo scimponauta HAM) e per le rappresentazioni dello spazio durante la Guerra Fredda, luogo principale della guerra finale simulata raccontata dal punto di vista maschilista e patriarcale (103), con la conseguente codificazione sovra-determinante del genere della cultura patriarcale nucleare, che ha assegnato alle donne della responsabilità della pace, “mentre lascia che gli uomini si trastullino con i loro pericolosi giocattoli di guerra senza dissonanza semiotica” (105). Di contro Haraway racconta di alcune pratiche di Environmental Action, dalle Mother’s and Others’ Day Action alle Surrogate Others del Nevada, quale connubio di eco-femminismo e pratiche di lotta non-violente, che hanno dato vita a una politica di articolazione, con l’obiettivo di contrastare i test nucleari e la minaccia della guerra atomica, ma anche la necessità che gli uomini si prendessero cura della terra, così come questioni legate ai diritti umani e all’antirazzismo (107-109).

Nel quadrante non-B, caratterizzato dai discorsi su uno spazio interno del corpo umano — il sistema immunitario –, Harway diffrange le narrative del corpo biomedico. Come già era avvenuto in Manifesto Cyborg, ciò che interessa Haraway è capire come funzionano le narrative del normale e del patologico quando il corpo biologico e medico viene simbolizzato e operato in quanto testo codificato, organizzato e costruito alla stregua di un sistema di comunicazione, ordinato da un network fluido e diffuso che funge da comando-controllo-intelligenza (Haraway [1985]1995: 145-146). Nella narrativa del sistema immunitario governata da semantiche della difesa e dell’invasione (Haraway [1992] 2019: 113), i conflitti sono sorti per determinare cosa può considerarsi soggetto e cosa attore (110). Di nuovo, applicando la visione diffrattiva alla soggettività (116), Haraway propone come esempio di politica semiotica di articolazione la lotta contro l’AIDS, per come agìta da ACT UP, ovvero praticata come simpoiesi e teoria delle reti, piuttosto che come logica della guerra (119-122).

Il quadrante finale, il non-A, ovvero lo spazio virtuale alla fine del viaggio, la SF, è caratterizzato da una figura-guida, Lisa Foo, personaggio di un racconto di fantascienza di John Valery. Nella riscrittura proposta da Haraway, la questione dell’articolazione assume le sembianze del potere di produrre connessioni proprio dello spazio virtuale, nonostante esista il rischio che queste producano un’incapacità di agire nel mondo reale. Haraway ci mostra allora come il narrare nuovamente la figura di Lisa Foo, ovvero rilevare come il personaggio poteva muoversi altrimenti nella storia, serva a “smantellare le logiche di chiusura della nefasta misoginia razzista” (130). Il saggio si chiude con l’immagine di un dipinto di Lynn Randolph del 1989, Cyborg, usato anche dalle edizioni Feltrinelli per la prima pubblicazione italiana di Manifesto Cyborg, come possibile narrazione di un’alterità inappropriata/bile: “Una tale cyborg non ha struttura aristotelica. Non è la dialettica servo-pardone a risolvere i conflitti tra risorsa e prodotto, passione e azione. L(u)ei non è utopica né immaginaria; l(u)ei è virtuale. Generata, insieme ad altre/i cyborg, dal collasso reciproco di tecnico/organico/mitico/testuale/politico, viene costituita dentro e fuori ogni figura da articolazioni di differenze critiche” (135). Di conseguenza la teoria “modesta” di Haraway ha lo scopo di mostrare i mutamenti di metafore e confini posti alla base di una sapere e una politica della speranza per questi tempi mostruosi.

Riprendendo il pensiero di Gloria Anzaldua, il solo piacere promesso è quello connesso alla rigenerazione possibile in zone di confine meno mortali e cancerogene.

Dopo questa carrellata di strumentazione analitica mi ritrovo a domandarmi: per chi è stato tradotto questo testo denso e difficile di Donna Haraway? A giudicare dallo stato in cui versa il sistema universitario italiano, fortemente de-finanziato, con il turn-over bloccato, le porte della ricerca sbattute in faccia a quasi il 90% degli assegnisti di ricerca, un sistema che si regge per il 59% su lavoratori precari (VIII indagine ADI, 2018), il pensiero femminista di provenienza statunitense non è esattamente lo strumento per fare carriera in questo ambito. A fungere da ironica e paradossale conferma della marginalità del pensiero di Haraway nei dibattiti italiani, è la presenza della filosofa statunitense nella genealogia della scrittrice italiana più influente nella contemporaneità, Elena Ferrante, e al contempo meno studiata nel Belpaese.

Piuttosto, anche conoscendo committenti della traduzione e traduttrice, mi sembra che questa pubblicazione si rivolga a quanti vivono liminalmente il mondo accademico, magari in connessione con i molteplici focolai di lotta, o con gli ambiti artistici più innovativi, oltre alle tante che si interessano, per diversi motivi, al pensiero femminista. Forse anche per questo motivo mi sento tuttavia libera di proporre un piccolo esperimento, sia per mettere a verifica gli strumenti proposti da Haraway con una lotta di cui ho potuto fare esperienza diretta, sia per interrogarmi su come, sempre grazie agli strumenti che rintracciamo in questo testo, sia possibile vedere con altri occhi le pratiche di coinvolgimento e responsabilità che esulano dai vari centri nevralgici delle lotte che di volta in volta emergono, utile a delineare un’ipotesi di nostrana politica di articolazione piuttosto che quella di rappresentazione, e facendo tuttavia leva sul potere della narrazione.

Prendo quindi spunto dalla lotta del Teatro Valle Occupato di Roma, nata nel 2011 grazie a un gruppo di lavoratori dello spettacolo e alcune attiviste del movimento studentesco, per protestare contro i tagli alla cultura e al depauperamento, materiale e simbolico, di chi opera all’interno di questo settore. La lotta del Teatro Valle Occupato ha visto una partecipazione eterogenea, impossibile da rappresentare nella sua totalità, quindi secondo la grammatica dell’Uno, ma da cui possono emergere molti esempi di pratiche di articolazione. Anzitutto la spinta propulsiva accumulata grazie alla vittoria del referendum sull’acqua pubblica e contro il nucleare di Stato ha reso visibile la relazione vitale e postumana prodotta da un teatro; come l’acqua e come l’aria, dicevamo.

Ma la relazione con lo spazio del teatro, il più antico di Roma, è stata una relazione soggettivante anche per via della relazione di “cura” e “affetto” stabilitasi tra luogo fisico e persone durante i tre anni di occupazione, generando una relazione tra umano e non-umano che esula dalle politiche culturali estrattive proprie del neoliberismo all’italiana, e di cui grida vendetta ora il Teatro Valle, spazio vuoto nonostante sia stato da anni istituzionalmente “riaperto”.

Se l’occupazione è diventata famosa a livello mediatico per via dei grandi personaggi del mondo della cultura che lo hanno attraversato, da Peter Brook a Judith Malina, passando per Amitav Ghosh (solo per citarne alcuni), non meno importanti sono stati, su un altro piano, i tentativi pratici di decolonizzare quello spazio, e al contempo le nostre modalità di costruire la lotta politica, come quando il Teatro Valle diventò il luogo in cui si poterono incontrare alcune associazioni eritree, il Coordinamento Eritrea Democratica, e i parenti di molte delle vittime del naufragio di Lampedusa del 3 ottobre del 2013.

O ancora, quando il Teatro Valle Occupato ha ospitato, in sinergia con altri luoghi culturali della città di Roma e d’Italia, uno dei primi eventi di sensibilizzazione sulla terribile questione dei femminicidi (Notte rossa contro il femminicidio, 2013), in cui alcune attrici dell’occupazione hanno incarnato e reso tangibile la violenza maschile agita sul corpo delle donne. Un evento che era stato già preceduto dal Festival “Da Mieli a Queer” dedicato alla sperimentazione artistico/politica di uno dei fondatori del movimento omesessuale italiano, Mario Mieli. Dunque, senza avere l’obiettivo di rappresentare quante/i/u lottano contro la violenza sulle donne e di genere, articoliamo una narrazione che includa entrambe le modalità e posizioni politiche.

Questo è forse allora un primo tentativo di diffrangere la narrazione tossica sul Teatro Valle Occupato, che oscilla tra la versione mainstream, in cui si racconta come azione scellerata di un gruppo di giovani okkupanti annoiati dalla vita borghese, e la versione svalutativa di quanti non hanno avuto modo di sperimentare una forma organizzativa che si è arrischiata ad agire una politica di affinità piuttosto che di identità, un compostare, come suggerisce nella postfazione di La promessa dei mostri Antonia Anna Ferrante, ricollegandosi altresì all’ultimo libro di Haraway (Haraway [2016] 2019).

Grazie a questa applicazione dell’artefattualismo differenziale di Haraway abbiamo mosso un primo passo per vedere come, nello spazio material-semiotico del Teatro Valle Occupato, sono saltate molte dicotomie tradizionali: dalla dicotomia casa/teatro, a quella di artista/fruitore, passando per quella di cittadino/immigrato e quella di umano/non-umano. Nel momento in cui riusciamo ad abbandonare le narrative catastrofiste e svalutative, ecco dischiudersi i lati generativi e rigenerativi delle politiche di articolazione, laddove lo strumento della narrazione diventa centrale per non cancellare le differenze (elemento proprio del paradigma delle politiche di rappresentazione), e dunque dargli finalmente voce. Una danza simpoietica di molteplici modi di fare aggrovigliati con molteplici modi dire.

Isabella Pinto, Donna Haraway e la lotta del Teatro Valle Occupato. Sull’uso politico di Le promesse dei mostri, in “IAPh-Italia”, 26/11/2019 http://www.iaphitalia.org/donna-haraway-e-la-lotta-del-teatro-valle-occupato-sulluso-politico-di-le-promesse-dei-mostri/