Donne sul filo del lavoro è un gruppo di amiche unite da motivazioni politiche e originariamente interessate a riflettere sulla presenza delle donne in molteplici contesti lavorativi, e su quanto e come quei contesti ne siano stati modificati. Il gruppo ha momentaneamente interrotto questa attività per dedicarsi alla lettura di La cura del vivere, supplemento del n. 89 di “Leggendaria”.
La cura, parola forse abusata, è stata interrogata in differenti mondi linguistici, provocando dubbi e ulteriori domande: ciascuna ha approfondito il tema a lei più congeniale, con il proposito che la propria esperienza potesse sostenere il lavoro e fornisse un criterio per la valutazione di altri punti di vista.
Infine, il gruppo si è ricomposto intorno ad alcuni significati della parola indagata, quelli che sono apparsi essenziali in ogni contesto tematico:
- a) la cura è un modo di guardare il mondo partendo da sé, assumendo in sé la responsabilità della qualità del vivere proprio e altrui; cura si risolve perciò in pratiche politiche fondate sul rispetto e sull’ascolto, in una libera modalità di appartenenza al mondo, lavorando perché tutti ne facciano un buon uso.
- b) la cura, in quanto assunzione di responsabilità politica, diventa un principio di cittadinanza, una posizione di impegno e di richiesta della stessa responsabilità da parte degli altri, soprattutto di chi amministra e governa la cosa pubblica.
Il seminario Cura e lavoro: tra scelta e necessità, del quale vengono offerti i risultati, è stato pensato e articolato tenendo conto di quei significati fondamentali: alle relazioni della prima giornata sono seguiti i contributi specifici di Maria Luisa Boccia e di Rosetta Stella; la terza giornata, con Federica Giardini, ha sviluppato il tema nodale del conflitto e, infine, la quarta giornata si è svolta con il contributo delle associazioni che, a Cagliari e non solo, agiscono per la restituzione dei beni comuni e per ottenere una risposta alla ormai diffusa domanda di giustizia.
La nostra iniziativa si inserisce in un quadro ampio, che facciamo risalire al 2009 con due pubblicazioni del Gruppo lavoro della Libreria di Milano: Il doppio si e Immagina che il lavoro.
Abbiamo scelto di partire dal N. 89 di Leggendaria (sett. 2011), ma a febbraio di quest’anno c’è stato il seminario della LUD Cura/lavoro: piacere e responsabilità del vivere, a cui sono seguiti incontri che continuano tuttora in molte città italiane.
E’ un intenso lavoro di scavo nella parola cura, a cui vogliamo dare il nostro contributo.
Riportiamo le relazioni della prima giornata (vedi il programma degli incontri successivi)
Dialogare la cura – 9 novembre 2012
Maria Asoni
Da Leggendaria ci arriva una proposta politica interessante: avere fiducia che mettere al centro delle relazioni e della politica la cura possa produrre un rovesciamento dell’esistente, dell’ordine sociale, della gerarchia produzione/riproduzione.
Leggo dall’introduzione dell’inserto:
…. Si diceva che doveva finire se ci fossero stati servizi sociali … quasi che la cura fosse la questione da risolvere con un buon welfare pubblico o la monetizzazione del mercato. Ma sul serio si sarebbe risolto tutto? Noi pensiamo che nell’altalena delle donne tra lavoro e vita c’è qualcosa in più. Un resto che socializzazione totale, servizi organizzati, personale a pagamento non bastano a cancellare. Non che siano inutili. Il punto è che c’è un resto a cui attribuiamo il nome di cura che né welfare statale né il mercato possono dare. Un collante affinché il mondo non si regga solo sulle relazioni di potere, ricchezza sfruttamento, ma restituisca senso alla fragilità, al limite, alla responsabilità. Purché si distingua tra “cura” e “lavoro di cura”. Purché si rifiuti la cura come lavoro residuale. O servile.(…) A noi è caro lo scarto, il resto che non si sottomette al mercato, il prezioso tesoro della cura.
Parliamo di una cura non facile da definire.
Credo ci sia l’intuizione di qualcosa di indefinibile e sfuggente. Anche i termini usati (resto, scarto, di più, eccedenza, … ) danno il senso di ciò che si vuole cercare di definire e che però sfugge, e forse non rendono nemmeno giustizia all’idea, ma ognuna di noi ha idee, vissuti ed esperienze rispetto alla cura, che potremmo far dialogare e condividere in questo nostro percorso.
Nella rivista le autrici ci presentano il percorso personale che le ha portate ad individuare nella cura una strada per orientarci nella crisi dell’economia, della politica, del lavoro (tutte fondate sull’ordine maschile) e produrre un cambiamento dell’ordine esistente sia nelle relazioni uomo/donna che nella suddivisione del lavoro.
Bia Sarasini guardava alla cura con molta diffidenza, per la sua prossimità semantica con amara medicina, la punizione, le cose di casa, un certo potere (materno?).
Scopre la cura in una svolta interiore, pensandosi come una persona speciale. Non un gesto di obbedienza, un adempimento a doveri alieni, ma cura consapevole.
Consapevolezza come parola chiave, radice individuale e interiore, attraverso la quale si può trasformare la cura da destino che fa prigioniera a occasione di libertà per tutte.
Il contributo di Bianca Pomeranzi viene dalla sua lunga esperienza nella cooperazione internazionale: la capacità delle donne di riprodurre la vita e le condizioni materiali dell’esistenza risulta particolarmente evidente nelle economie di sussistenza. Altrettanto evidente la costante espropriazione del sapere femminile e il rovesciamento di senso nella lettura della modernizzazione, che mostra le donne più vittime che soggetti. Il sapere femminile viene addomesticato, occultato nelle relazioni familiari, ma proprio l’esperienza del sud del mondo ci indica una strada; perché diventi linguaggio comune, occorre il passaggio alla cura di sé: anche nel nord del mondo, l’intreccio fra cura di sé e cura del mondo può arginare l’espropriazione del sapere femminile per una società che metta al centro le persone.
Lea Melandri individua il nodo problematico nella tradizionale organizzazione del lavoro che
“ha messo al bando le funzioni necessarie alla conservazione della vita […] con un’idea del tempo indifferente ai mutamenti biologici del corpo”
I piccoli mutamenti, che pure si registrano nell’organizzazione del lavoro, nel migliore dei casi lo rendono semplicemente più compatibile in termini di “conciliazione”, assumendo il principio che lavorare meglio sia più produttivo.
“La buona vita e il miglioramento del rapporto fra i sessi restano ancora un mezzo e non un fine”.
Noi, Donne sul filo del lavoro, abbiamo discusso gli spunti offerti dalle autrici di Leggendaria, alcuni indubbiamente affascinanti e suggestivi, procedendo con un certa cautela, con la curiosità di indagare nella parola, fra dubbi, domande, vicinanza e lontananza.
Proponiamo alcuni interrogativi emersi nella nostra discussione:
– Prima di tutto: sappiamo difenderci dall’equivoco della ‘valorizzazione’ della cura come risposta sociale all’impoverimento del welfare in questo momento di grave crisi economica?
– Il rapporto col mercato: si pensa che il lavoro delle donne diventi produttivo quando “esce di casa”, viene monetizzato e crea ricchezza? (la torta fatta in casa, diversamente da quella venduta dal pasticcere, non produce PIL). Siamo certe che la cura non si sottomette al mercato? Davvero la cura non è mercificabile quando analizzata, scomposta, frammentata, vivisezionata?
– Le risorse: come ci si può prendere cura di sé, degli altri, del mondo se non abbiamo i mezzi? La cura condivisa presume una ripartizione equa di mezzi, possibilità, risorse …
Come arrivare alla “cura condivisa”? Pensiamo ad esempio che si possa connettere la cura condivisa al “reddito di cittadinanza”o “reddito di esistenza” come fattore di ridistribuzione delle risorse economiche ma anche della dignità e appunto della cura?
– Il rapporto tra cura e libertà: possiamo davvero scegliere ciò che può e che deve essere curato, e anche ciò che deve essere lasciato? Nel ripensare alle nostre esperienze ci sembra che non sempre abbiamo curato ciò che andava davvero curato (a proposito di cura attiva, vigile e consapevole) ma che abbiamo sostenuto anche ciò che meritava di essere abbandonato.
– Infine, nell’ottica di prenderci cura della nostra storia, ci è sembrato importante indagare la strada che abbiamo percorso, come siamo cambiate e come sia cambiata la situazione da quando la parola d’ordine era “portiamo tutto al mercato” o “se lavoro deve essere, che sia pagato!”, ad oggi, alla nostra esigenza di rimettere la cura al centro della politica.
Anna Rita Oppo
Il mio contributo a questo incontro nasce dall’ultima domanda posta da Maria durante la lettura collettiva di questo inserto diLeggendaria. Ho individuato alcune tappe significative della strada percorsa dal femminismo rispetto alla cura, a partire da una frase della introduzione:
Oggi produzione e riproduzione ai nostri occhi non sono più separabili, non stanno in un ordine gerarchico dove la seconda è funzione della prima.
Non è da oggi.
Fin dalle origini – quelle che io ho vissuto – il femminismo aveva messo in discussione la cura come ’destino biologico’ della donna.
L’istruzione e il lavoro retribuito vengono assunti da molte della mia generazione come strumento di emancipazione da questa differenza svantaggiosa (Adele Pesce, Fare cose con le parole, Bari, ed Dedalo, 2012).
Alla fine degli anni ’70 meno del 35% delle donne in età lavorativa erano presenti nel mercato del lavoro. Nel 2005 la quota di donne attive ha superato il 50% (dati OCSE). Queste donne hanno presto dovuto fare i conti col conseguente problema del doppio carico di lavoro.
Negli anni ’70, come ci ricorda Antonella Picchio,
alcuni gruppi organizzati all’inizio in Lotta femminista e poi nel Comitato internazionale per il salario al lavoro domestico, hanno fatto una battaglia per(…) sottrarre il lavoro di cura a uno statuto esclusivamente definito dall’intimità domestica(…) riconoscendogli il valore di capitale sociale, in quanto elemento essenziale della sostenibilità del sistema socio-economico.(…) Lo slogan ‘Salario al lavoro domestico, senz’altro provocatorio e schematico, rispondeva a una strategia complessa che si concentrava sulle condizioni del lavoro non pagato. (…) mettendo in luce l’intreccio tra relazione patriarcale di comando sul corpo e sul lavoro domestico e comando capitalistico sul lavoro salariato. Questo intreccio, che si manifestava in tensioni quotidiane sia in casa che nei posti di lavoro retribuito portava in realtà a una pratica del doppio no, definita da un’esperienza di spostamento dei rapporti di forza con gli uomini e con lo Stato.
Negli anni ’80 assumono particolare rilievo gli studi sulla «doppia presenza» e sul «lavoro di cura», avviati a metà degli anni ‘70 da Laura Balbo e arricchiti dal lavoro di alcune sociologhe italiane attive attorno alla sigla Griff (Piazza, Zanuso, Pizzini, Saraceno, Siebert, , ecc). La categoria di doppia presenza voleva descrivere la disponibilità e la capacità, cioè le competenze e le strategie, delle donne ad agire e pensarsi in modo trasversale rispetto ai diversi mondi – materiali e simbolici – prima concepiti come separati e attinenti all’uno o all’altro sesso: il pubblico/il privato, la famiglia /il mercato del lavoro, il personale/il politico, i luoghi della produzione/della riproduzione.
E’ stato molto importante il lavoro di critica ai modelli interpretativi emancipazionisti che, considerando il ruolo femminile come ritardo o marginalità da superare in vista del raggiungimento della parità, auspicavano per le donne la transizione al modello lavorativo maschile.
Il limite di queste elaborazioni è di uscire a stento dagli ambiti teorici specializzati, anche se interdisciplinari, e quando lo fa corre il rischio di risultare deformato.
Rischio da cui la stessa Lorenza Zanuso metteva in guardia già nel marzo dell’87 al convegno di Modena: che la categoria di doppia presenza perdesse
il suo valore euristico per appiattirsi su una figura rappresentativa, quasi un modello normativo: adulta, sposata, scolarizzata, classe media, orientata ai bisogni ma, quando smette di pensare agli altri è anche in grado di riflettere su se stessa, è sempre stanca ma soprattutto buonissima.
Nel 1997 per Pratiche edizioni esce un libro collettivo intitolatoLa rivoluzione inattesa. Donne al mercato del lavoro che per molte di noi ha segnato un passaggio fondamentale.
Mi soffermo in particolare sul contributo di Wanda Tommasi.
Nel settembre 1995 c’era stata a Pechino la Conferenza ONU e il Forum delle donne, da cui erano emersi dati interessanti: le donne rappresentano il 32% della forza lavoro globale. Quasi ovunque vengono pagate il 30 o il 40% in meno. Infine il ‘contributo invisibile’ delle donne all’economia mondiale è stimato in 11.000 miliardi di dollari.
Commentando questi dati W. Tommasi rileva che:
– il lavoro invisibile e gratuito delle donne su cui si fonda il ciclo di produzione e consumo non è più invisibile
– l’enormità della cifra rimanda all’enormità del contributo femminile e fa capire che gran parte di ciò che le donne fanno per la civiltà non è monetizzabile. Non è solo un lavoro non pagato, è qualcosa di diverso.
– Questi dati sono presentati in modo da sollecitare un’ondata rivendicativa che rischia di travolgere anche il senso di libertà guadagnato: bisogna cercare di resistere.
Non si tratta di fare le signore e lasciar perdere, ma al contrario di aprire un conflitto potente utilizzando l’arma della libertà femminile anziché quella della rivendicazione.
Libertà nel lavoro e non dal lavoro
Sembra una contraddizione in termini, dal momento che si chiede al lavoro, tutto intessuto di necessità, di ospitare al suo interno la libertà (…) Non la libertà dell’ideale signorile, in cui l’affrancamento di alcuni dalla necessità era ottenuto al prezzo dell’asservimento di tutti gli altri(…) Ma libertà come conquista che si scava una strada, facendo attrito, fra le condizioni date, entro le maglie della necessità appunto (…)
Secondo l’insegnamento di S. Weil, non scambiare con necessità le contingenze storico- sociali, spesso inique, entro cui il lavoro si svolge: necessità sono i bisogni della vita immediata, la nuda materialità; collocarli al centro fa ordine, è lavoro di civiltà.
Il titolo che abbiamo dato alle 4 giornate di seminario Cura e lavoro: tra scelta e necessità rimanda a questo discorso: la libertà agisce proprio tra scelta e necessità.
Pierluisa Castiglione
Da LEGGENDARIA in poi…..
Mentre leggevo gli interventi ho avvertito la presenza di aspetti che potevano essere molto importanti ma che non risultavano esplicitati. Avendo notato che /cura/ veniva usata con significati diversi in contesti differenti, ho pensato di seguire la pista di “cura“ per cercare di far emergere e mettere a fuoco ciò che sentivo sotteso ma che non trovavo detto.
Nell’uso di /cura/ come oggetto o modo “cura“ rimanda a modalità che possono caratterizzare azioni, comportamenti, approcci a persone e cose, relazioni con persone e cose: impegno, riguardo, attenzione, accuratezza, diligenza, zelo, premura, affetto, tenerezza etc. Nell’uso di /cura/ con l’articolo determinativo /la cura/ “cura“ rimanda a attività in cui si è impegnati/e
Nell’uso di /cura/ in /lavoro di cura/ “cura“ modifica profondamente il suo significato che comporta la configurazione di un campo semantico molto ampio e complesso. In questo ultimo slittamento semantico secondo me si possono collocare quelle dimensioni che sentivo agire non dette nelle riflessioni che cercavo di scandagliare.
Ho quindi individuato due fattori complessi che vanno ad alimentare problematicità e intricatezza di “cura” in /lavoro di cura/
1 ECONOMIA DI MERCATO ipertrofica e idrovora RAZIONALITA’ OGGETTIVANTE frammenta- segmenta-proceduralizza PUNTO DI VISTA UTILITARISTICO monetarizza-mercifica
2 TECNOLOGIA E TECNOSCIENZA onnipotenza autoreferenzialità MACROSTRUTTURE TECNICHE PROTESI SAPERI ESPERTI/SPECIALIZZAZIONE
Vorrei affidarmi a Donna Haraway quando dice di implosione di biologia, economia e informatica e aggiunge collasso di organismo, informazione e oggetto mercificato
Da tutto ciò conseguono, non trascurabili, vecchie e nuove, piccole e enormi diseguaglianze, problemi drammatici di ammortizzatori sociali colorati soprattutto con loro costosità.
E “cura“ come modalità, in tutto questo, non entra e non gioca un ruolo? Ritorna come modalità suggestiva e fidelizzante
Si spalma e spalma la dimensione di genere
Secondo me emerge la dis-locazione del conflitto donna-uomo dall’ambito domestico a quello lavorativo
Dal disimpegno maschile nel domestico, sostenuto dall’insignificanza femminile nell’extradomestico, si passa all’impegno e alla visibilità del maschile e del femminile nel mondo del lavoro, entrambi sfruttati e frustrati; ma il reimpiego del femminile avviene mantenendo una costante: la forza femminile della sopportazione, ottima dote naturale da utilizzare come ammortizzatore sociale a basso costo.
Non sarà il caso di spostare l’asse ? Sottrarre le nostre esistenze alla finanziarizzazione estrema e al profitto predatore, rinegoziando fra donne e fra donne e uomini il senso e la qualità delle nostre vite.
Valentina Origa
Nel leggere il fascicolo sulla cura del vivere di Leggendaria ho provato sentimenti e nutrito pensieri diversi e a volte contrastanti.
In particolare, ho sentito immediatamente vicina alla mia esperienza e al mio sentire, dopo anni di lotta per l’acqua pubblica, la cura del mondo. Così, non posso che condividere quanto sostiene Liliana Moro in Cura di sé o cura degli altri?:
Se le donne rivendicassero la cura come valore culturale collettivo, invece di farsene carico collettivamente nella pratica, sarebbe possibile toglierla dalla dicotomia di genere e rendere la sua positività una carica energetica valida per tutti, attivabile anche dagli uomini e dalla società.
La cura non è solo un affare di donne e non è esente da conflitti: è inevitabile che confligga col mercato, che ci costringe a lavorare per produrre e consumare cose di cui non abbiamo bisogno, devasta l’ambiente in cui viviamo a causa del suo non avere limite, tritura le nostre vite; non può che confliggere con lo Stato, che taglia su tutto ciò che costituiva la garanzia di una vita decente, e si spinge a proporre, come negli ultimi giorni, di togliere il riscaldamento dalle scuole, per risparmiare, o che, anziché intervenire sul dissesto idrogeologico, pensa di far intervenire l’esercito nelle zone che vivono emergenze ambientali dietro un pagamento da parte dei territori stessi.
Ciò che invece mi suscita perplessità, e in cui vedo aspetti critici e nodi insoluti, è quanto viene detto a proposito della cura di sé e della cura degli altri.
La prima grande questione ritengo stia in un’impostazione per la quale, nel parlare di cura, continuiamo a porci esclusivamente come datrici di cura, e non riusciamo a partire da noi come necessitanti cura, potenzialmente dipendenti e bisognose.
Questa assenza, che intuivo, mi è diventata evidente quando ho letto uno degli interventi di Sonia Tsevrenis, dal titolo Ieri …e oggi? in Gruppo Donne e Scrittura, Pensare la cura, curare il pensiero. Confronto di esperienze, Milano 2011, p. 121:
Mi sono chiesta: ha senso ripensare alla propria maternità quando si ha 75 anni? Alla propria madre? A me piacerebbe cominciare a pensare alla nostra vecchiaia, vedo che non siamo più giovani, però abbiamo ancora anni di futuro seppure breve, vorrei pensare ad una vecchiaia condivisa, inventare un modo di viverla che non sia con una badante, o sulle spalle di una figlia, o in una casa di riposo in attesa della morte. Che l’ultimo pezzo di vita abbia insomma un senso, come abbiamo cercato di darcelo sempre.
Sono tante le domande che mi pongo e a cui non trovo risposta:
quale spazio di libertà abbiamo di fonte alle “necessità della nuda vita”?
quale libertà è possibile di fronte alla necessità dell’altro?
quale rapporto c’è tra dovere, piacere e potere del curare?
E infine, quale rapporto c’è tra cura e lavoro di cura? Perché alla teorizzazione del gruppo del mercoledì è necessario separarle, stabilendo tra le due un rapporto gerarchico?
Perché teorizzare una cura che, come afferma Giordana Masotto in Cura e lavoro: quale pratica politica, (dal sito della Libreria delle donne di Milano) è depurata dal necessario lavoro di cura, dai bisogni del vivere quotidiano?
Credo che questo distinguo […] sia carico di conseguenze politiche indesiderabili. Separata dal lavoro e dalla necessità, dunque dal tempo, dall’economia, la cura può diventare semplicemente banale. Un aleggiare etico e impalpabile, di cui sarebbero ambasciatrici le donne, in bilico tra biologismo e onnipotenza.”
Questo distinguo, che stabilisce una gerarchia tra cura e lavoro di cura, da un lato allontana dai vincoli del corpo e della vulnerabilità (vedi Annalisa Marinelli), avvicinandoci all’atteggiamento maschile di “superiore” lontananza dai bisogni, dall’altro presuppone una gerarchia sociale tra chi “cura” e chi svolge le attività di cura: emblematico è, in questo senso, quanto viene detto sul lavoro delle badanti nel documento del Gruppo del mercoledì:
Nel cuore delle relazioni, così al centro che può riuscire difficile vederle, si muovono le badanti […]A noi permettono di prenderci cura anche di altro, a cominciare dal lavoro, di avere attenzione alle relazioni, disegnare connessioni, tessere mediazioni.
Quest’affermazione, che pure capisco pienamente, mi sembra molto pericolosa, anche alla luce di quanto viene detto poco dopo: se è vero che, come scrive Mary Catherine Bateson inComporre una vita, «la vita familiare produce le metafore che utilizziamo per riflettere sulle relazioni etiche in senso più ampio», teorizzare per le badanti e per noi un simile ruolo mi sembra presupporre una profonda disuguaglianza.
L’altro grande limite, forse solo temporaneo e legato ad una difficoltà del dire, è l’astrattezza che vedo presente nel testo, di fronte alla terribile concretezza del bisogno.
Poche settimane fa è morto un amico, poco più che quarantenne, per un tumore al cervello.
Era un insegnante precario e aveva avuto, poco prima di scoprire la malattia, un figlio; anche la sua compagna aveva un lavoro precario. Non essendo loro in condizione di lavorare durante la malattia, i familiari, le amiche e gli amici hanno provveduto più volte a raccogliere dei soldi per garantire non solo le cure, ma il soddisfacimento delle necessità quotidiane.
E così, oltre all’ingiustizia di una morte terribile e precoce, sento l’ingiustizia di dover chiedere qualcosa che ci dovrebbe essere garantito: la possibilità di sopravvivere.
Forse occorre fare un passo avanti, legando il concetto di cura alla lotta per il basic income, per essere tutte e tutti più libere/i di vivere in modo dignitoso.
Nora Racugno
Il mio argomento è la cura nella malattia terminale. Mi riferirò a due articoli molto belli firmati da Lorenza Zanuso e da Rosetta Stella: come le amiche del gruppo e le autrici dell’inserto di Leggendaria, parlerò anche un po’ di me.
Rosetta Stella, considerando l’uso delle parole nella lingua corrente, distingue l’assistenza dalla cura: la prima porta con sé l’affetto e la pazienza, la seconda il rispetto e un po’ di indifferenza. Mi sembra di poter rilevare, intanto, che nell’assistenza chi assiste detta le condizioni del rapporto, e chi è assistita/o le riceve o le subisce. Nella cura, invece, compare il rispetto: come è riferito da Liliana Moro nella stessa rivista, questa parola viene dal latino ‘respicere’, e significa ‘guardare’.
Il guardare comporta una presa di distanza, uno spazio tra sé e l’altra/o che fonda la relazione: una relazione di cura è perciò tale se la cura della persona malata è anche cura di sé, attraverso la salvaguardia dello spazio tra sé e l’altra/o.
Ma la cura della relazione, della persona malata e di sé, non può non essere anche cura del contesto, di altre persone che ne fanno parte e delle molteplici relazioni tra loro, tra me e loro, e soprattutto della conseguenze nelle quali la persona malata è coinvolta anche a sua insaputa, senza che possa scegliere. La persona malata è dipendente, dipende dall’atteggiamento che il mondo attorno a lei assume nei suoi confronti. Dipende perciò dalla qualità delle relazioni che le persone che la amano stabiliscono con lei, fra loro, ciascuna di loro con il mondo esterno.
Una stanza in una casa nel mondo. Tutto questo accade se prendiamo sul serio la parola rispetto, e perciò il valore politico della relazione di cura.
Leggo poche parole di Lorenza Zanuso:
L’esperienza della cura ti cambia. (…) Sono convinta che nella cura sia insita una ambivalenza insopprimibile tra l’integrità tua e quella dell’altro, tra libertà e necessità, tra crescita e oppressione reciproca, e che riuscire a volteggiare su questo crinale sia uno degli esercizi più formativi che possano capitare a una persona. Un esercizio, un apprendimento, un allenamento, che è propriamente umano ma non per questo naturale, e che non c’entra con la bontà d’animo.
Mi concentro sul rapporto tra libertà e necessità. La libertà è certamente la scelta consapevole di esserci, ma sappiamo che è anche qualcosa di più della scelta razionale. Perché io sia libera è necessario che la scelta si incontri con i miei desideri, che vi sia una adesione profonda. La necessità indica ciò che è e non può non essere, è così e non può essere altrimenti. Da una parte la libertà e dall’altra la necessità!
Sappiamo che in alcuni momenti della vita ci troviamo a vivere situazioni terribili proprio in questo senso, anche col dispiacere di non poterci essere in maniera più armoniosa.
L’ideale sarebbe che la mia libertà e la mia necessità coincidano, che il dovere e il desiderio siano identici, e che io sia qui e ora interamente. Può accadere, ma se accade credo sia un miracolo.
Leggo dall’articolo di Rosetta Stella:
Chi assiste è anche testimone. Ogni minuto di qualcosa. Di cosa? Di questa inaspettata enormità della vita che scorre? Già, perché è la vita l’ospite inatteso di ogni minuto che passa. Chi assiste una persona vecchia, per esempio, o malata all’ultimo stadio, aspetta, con angoscia e timore, tutti i giorni, la morte annunciata da mille piccoli segni. Ma poi, inaspettata, tutti i giorni arriva invece la vita. Ti svegli la mattina e c’è ancora vita. E a tutta prima non sai, stremata dall’affanno di un altro giorno da viverci accanto, che cosa è peggio. Ma invece lo sai: la morte è peggio. La morte è sempre peggio.
Perché parlo di miracolo? Con questa parola voglio dire che, per quanto siano buone le proprie intenzioni, un risultato come quello che ho detto, di identificazione della necessità con la libertà, non può essere un proprio merito, non accade perché sono una ‘buona figlia’. Accade prima di tutto perché c’è anche la persona malata, partendo dal rispetto dello spazio su cui si costruiscono tutte le relazioni, e alla condizione che quello spazio ci sia davvero, se la cura non é eccessiva e non copre tutto lo spazio, quello del rispetto che rende possibile anche il conflitto.
Intendo il conflitto interiore, quello con la persona malata, quello con altre persone che gravitano attorno a lei e da cui lei dipende.
E’ perciò necessario un enorme lavoro su di sé, affinché sia possibile quella cosa che io per comodità chiamo cura, perché non so con quale altro nome si possa chiamare.
Il conflitto deve essere detto affinché diventi lavoro politico. Non lo è di per sé, lo diventa se viene nominato e si riesce a uscire dal privato, perché modificando il sé si modifica anche il mondo intorno.
A questo proposito ho pensato al secondo principio della termodinamica. Mi spiego: il principio considera un sistema all’interno del quale sono presenti molteplici elementi, e poiché questa molteplicità comporta moltissime variabili e queste non sono controllabili, la quantità di energia investita inizialmente in quel sistema può dare origine a una dispersione. In termodinamica questa dispersione si chiama entropia, disordine. Nel mio linguaggio si chiama conflitto, ma anche miracolo. La dispersione è forse un di più: io gli voglio dare il nome di qualità, perché la quantità si trasforma al di là delle buone intenzioni e senza che io ne sia meritevole.
La chiamo qualità, ma c’è chi la chiama amore. Per chiarire questa parola occorre un altro seminario.