Ho deciso di partecipare al seminario Lineamenti teoricopolitici di femminismi, genere, differenza, organizzato dalla docente Federica Giardini insieme all’Associazione internazionale delle filosofe presso l’Università degli Studi di Roma Tre, sia per colmare le lacune della mia formazione accademica in Italianistica, sia per un forte interesse per la questione femminile, verso cui mi sento presa in causa in prima persona. Mi sono appassionata a certe tematiche durante la stesura della tesi magistrale, incentrata su Grazia Deledda, la quale, come tante altre scrittrici in Italia verso cui la critica ufficiale è stata restìa ad annoverare nel canone letterario italiano, è emblematica della condizione della narrativa a firma di donne, molto spesso confinata ed etichettata come genere rosa o scrittura al femminile, nell’accezione di minore, a cui vorrei fare riferimento in calce per offrire un mio contributo. Devo ammettere, però, che tale interesse non sia stato l’unico motivo che mi abbia sollecitata a prendere il treno ogni venerdì quanto piuttosto la necessità di trovare risposte a delle domande che si sono insinuate nella mia mente e che hanno messo in discussione tutto ciò che credevo di sapere o, per meglio dire, ciò che la mia esperienza accademica mi ha insegnato e soprattutto quello che ha deciso di non consegnarmi.
Dopo i cinque meravigliosi anni trascorsi nella facoltà di Lettere e Filosofia di Roma Tre sono tornata a vivere nella mia piccola cittadina di origine, in Umbria, essenzialmente perché non ho un lavoro stabile che mi permetta di continuare a mantenere la casa in cui vivevo a Roma. Il mio paese è lo stesso – sono io a essere diversa, portatrice di un’altra consapevolezza, un po’ come l’ostrica che una volta staccata dallo scoglio non può più riattecchirvi. Certo, in parte me ne dispiace perché se per certi aspetti legati alla memoria tanto amo questo posto, per altri lo temo. Il timore di essere suggestionata da certi modi di pensare, di parlare, di vivere, in una zona d’ombra sospesa nell’immobilità di un sistema antropologico chiuso è costante, quando non addirittura quotidiano. Mi è capitato, infatti, di parlare con anziane signore che a più riprese mi hanno chiesto il motivo per cui io a ventisei anni non fossi ancora “maritata”, come se il mio status di nubile rappresentasse un di meno. All’istinto iniziale di rispondere a tono a queste signore ho sostituito un autoinvito alla riflessione che mi ha permesso di contestualizzare un’osservazione mossa da donne che hanno vissuto in un altro periodo storico, anche drammatico, in cui il loro “compito” era quello di dedicare la propria vita al marito, ai figli, alla casa. Un giorno ho chiesto a mia nonna, cui riconosco una mentalità molto più aperta di alcune mie coetanee, di raccontami il suo vissuto personale, che non differisce dal caso delle anziane donne di cui sopra, e sono rimasta stupita dal senso di “libertà illecita” che la sua risposta mi ha trasmesso: se per lei, infatti, è stato così <<perché era sempre stato così>> di certo io avrei dovuto fare la differenza, non smettere di studiare (e non sposarmi!) perché volendo ho la possibilità di farlo.
Questo episodio mi è tornato alla memoria durante il primo degli incontri in cui si è parlato del concetto di emancipazione e grazie ai brillanti interventi che si sono susseguiti ho potuto capire le molteplici sfaccettature di questo termine: ottenere una parità politica, per altro di facciata e costruita su un modello maschile falsamente neutro, non garantisce alle donne una partecipazione politica di fatto. Questa la premessa da cui prende le mosse Anna Maria Mozzoni e il “femminismo della liberazione” che arriva smascherare il fatto che <<l’ emancipazione non indica solo un movimento politico del passato legato al diritto di voto delle donne ma può essere un concetto e una pratica politica>> così come rimarca Mariaenrica Giannuzzi nel suo intervento. Affermazione tanto lungimirante per l’epoca e così attuale per noi data la situazione delle donne in Italia e non solo: noi abbiamo la possibilità di votare ma il percorso per far sì che non si tratti solo di un riconoscimento, parola che di per sé è già irritante perché indica quasi un atto di grazia o una concessione, è ancora molto tortuoso. Provo difficoltà a esprimermi e riconosco di non avere neanche i mezzi filosofici per farlo, perché onestamente mi sento ancora nella fase di interiorizzazione di questi concetti.
Tornado alla mia personale esperienza, mi è capitato di parlare con un’amica, una giovane donna che si sente in dovere di fare tutto in casa perché il compagno lavora, quasi a sottendere che lei non faccia altrettanto o che abbia meno valore. Così, colta da un sentimento di fastidio iniziale, ho tentato di spiegarle la critica che le femministe mossero al marxismo, il concetto di lavoro domestico e riproduttivo, il quale proprio perché invisibile e naturalizzato restava in ombra rispetto al lavoro produttivo maschile e garantiva la gratuità; e il successivo merito del femminismo sia francese sia italiano che ha decostruito dall’interno il concetto di natura che separa uomo-donna a partire dal presupposto che l’uomo che produce non esisterebbe senza il lavoro di cura della donna, incommensurabile. Questo episodio mi ha fatto molto riflettere sul fatto che ancora oggi ci sia la necessità di operare in questo senso, fornendo strumenti a tante donne che oltre a non aver studiato non sono consapevoli delle proprie possibilità perché non è stato insegnato loro la pratica di interrogare se stesse. E ho maturato l’idea che vivere in un paesino sia soltanto uno dei fattori che può minare la mia identità, un limite geografico che il mio impegno e la mia consapevolezza possono convertire in una forza, in una prospettiva privilegiata da cui guardare ad altre, altri e al mondo. Ritengo altrettanto raccapricciante della mentalità di un paesino, del resto, pensare che il colore delle nasciture sia rosa e dei nascituri celeste o dover vedere copertine di quaderni scolastici che raffigurino bambini con divisa e cappello e bambine con guanti, grembiule e scopa, e ancora, all’estremo opposto, vedere il corpo delle donne strumentalizzato sulle copertine e nelle pubblicità. Mi indigno allo stesso modo se penso alla mia personale esperienza accademica, che non credo differisca da quella di molte ragazze e ragazzi che frequentano la stessa facoltà: quattro esami sostenuti su Pirandello, ad esempio, di contro nessuno che riguardasse Grazia Deledda o Elsa Morante, Natalia Ginzburg piuttosto che Anna Maria Ortese, per citare alcune delle grandi madri letterarie. Numeri che saltano all’occhio e che è possibile ridimensionare soltanto impegnandosi a restituire alla luce la ricchezza dei contributi che queste donne scrittrici, come tante altre in diversi ambiti, hanno lasciato ai posteri: non eredità concluse, come si è rimarcato a più riprese durante gli incontri, ma progetti in divenire che vanno condivisi e promossi perché si ha la possibilità di farlo. Il primo passo per tutte, secondo il mio parere, è quello di ripartire da noi stesse e ripensarci come soggette nei discorsi, nella realtà e non sempre in ruoli nati in funzione di altri. Credo, forse un po’ utopicamente, che se tutte riuscissimo a operare dall’interno riusciremmo a strappare il famoso cielo di carta che ancora annebbia di inganni e stereotipi troppi occhi. Il mio passo in avanti è stato quello di rielaborare la delusione della mia esperienza accademica e metterla a frutto, documentandomi, studiando, operando numerose ricerche con il supporto di altre donne, che ringrazio, che mi hanno permesso di scoprire realtà a me sconosciute, di rendermi conto che esistono tante altre studiose come me che hanno a cuore la loro Grazia Deledda di turno e che vorrebbero contribuire a lasciare un segno affinché altre lo possano interiorizzare e restituire a modo proprio. E ringrazio anche per ciò che mi è stato insegnato durante questo seminario perché non solo ha contribuito ad accrescere la mia consapevolezza, ma anche a farmi provare una sollecitazione continua a esprimere il mio parere, a confrontarmi e interrogarmi quotidianamente, qualsiasi sia la realtà con cui mi debba relazionare.
Sperando di fare cosa gradita vorrei offrire il mio contributo condividendo con voi, in sintesi, il caso di una grandissima scrittrice che nonostante sia l’unica in Italia e seconda a livello internazionale, dopo Selma Lagerlöf, insignita del premio Nobel per la Letteratura, è stata spesso ed erroneamente relegata ai confini di un paese da sempre ai margini della grande storia letteraria. È paradossale che le sue opere non siano annoverate fra i classici della letteratura o appena accennate dalle antologie scolastiche, a differenza di molti altri scrittori ma del resto, per usare il corsivo di Dacia Maraini, <<quello che manca alla scrittura delle donne non è il mercato, per altro costituito per la maggior parte di lettrici […] ma il prestigio legato al nome di un’autrice>>.[1] Come sostiene Laura Fortini nel suo saggio intitolato Critica femminista e critica letteraria in Italia, le scrittrici italiane hanno da sempre avuto un rapporto “d’amore e d’odio” verso la propria tradizione letteraria. Bisognerà aspettare, infatti, il movimento delle donne degli anni Settanta del Novecento per veder svilupparsi una critica letteraria, propriamente femminista. Soprattutto in Italia, in cui la critica letteraria è piuttosto ancorata alla tradizione, è proprio grazie <<alla critica letteraria a firma di donne che la presenza delle scrittrici nella letteratura italiana ha acquisito innanzitutto i caratteri di una continuità al punto di assumere i tratti di una tradizione essa stessa; ed è sempre grazie alla critica letteraria a firma di donne che è stata messa in luce l’originalità di esperienze che si sono rivelate ben più significative rispetto alla marginalità in cui erano state collocate>>.[2] Nel mio caso, pertanto, solo ricostruendo la storia della critica deleddiana anche a firma di donne è stato possibile mettere in luce quegli aspetti di originalità e di arricchimento che la scrittura deleddiana apporta alla letteratura italiana, ignorati dalla critica neutra, attraverso la lettura di una bibliografia meno nota, di origine anglosassone e statunitense.
Delle numerose scrittrici per le quali la scrittura era all’epoca un mezzo di affrancamento, Deledda è la meno emancipata nell’accezione che questo termine iniziava allora ad assumere e la meno impegnata nell’ambito politico eppure la storia di Cosima, romanzo autobiografico scritto in terza persona e pubblicato postumo, già coincide con un percorso di liberazione concreto, con un progetto di vita ben chiaro e definito che la scrittrice persegue con determinazione e costanza, fuori da ogni giudizio o pregiudizio, da tutti i codici e i valori della società patriarcale in cui viveva, pur restando nella tradizione. Il personaggio femminile “ribelle” che anima con la sua vitalità le pagine, la sua ansia di indipendenza e il desiderio di affermazione della propria femminilità non dà vita a un sogno adolescenziale bensì a una vera e propria ribellione culturale nutrita dei modelli diffusi dalla modernità. In tutto questo c’è, in anticipo sui tempi, una forma di autocoscienza: la consapevolezza di essere <<scrittrice senza aggettivi a fianco>>.[3] Ed è proprio Deledda a imporre questa figura non perché di scrittrici non ce ne fossero, ma perché non erano considerate tali: la maggior parte delle donne scrittrici, infatti, era percepita per altri aspetti. Sibilla Aleramo era per i più la Musa, Matilde Serao la giornalista, Ada Negri la cantrice della patria, Anna Kuliscioff la femminista, per citarne alcune. In questo modo l’immagine di Deledda che si è formata nel corso degli anni, fedele riproduzione delle più note fotografie dell’epoca che la ritraggono come una casalinga che scriveva nel tempo libero o un’icona che rappresentava le donne della sua terra che portavano ancora il costume e che alla morte del marito si muravano in casa, è stata sostituita da quella di un’artista la cui opinione e la cui presenza venivano apprezzate dalla maggior parte degli intellettuali che aveva potuto conoscerla, soprattutto nella Roma in cui si era trasferita agli inizi del Novecento. Grazia Deledda, pur non amando la vita mondana, segue con interesse tutto ciò che quella nuova vita le offre tra dibattiti letterari, novità editoriali e avvenimenti teatrali. L’amicizia con Angelo De Gubernatis le consente di accedere ai salotti romani che all’epoca avevano un ruolo fondamentale nella vita sociale della capitale, ma inizia a frequentare anche gruppi “alternativi” da cui più tardi si sono sviluppate diverse tendenze artistiche, tra cui quello di Sibilla Aleramo e Giovanni Cena, noto soprattutto per le attività sociali che promuovevano fra gli intellettuali, con lo scopo di combattere l’analfabetismo e la malaria nei dintorni di Roma. Grazia Deledda è coinvolta da Aleramo nell’iniziativa, promossa dall’amica Anna Celli, della creazione del comitato per le Scuole per i contadini dell’Agro Romano, nel 1907. Un anno dopo, nell’aprile del 1908, è attestata la presenza di Deledda e di Aleramo, insieme a Matilde Serao, al primo Congresso Nazionale delle donne italiane a Roma, dove si discutono di temi di grande rilevanza politica e sociale: emigrazione, orario di lavoro, retribuzione, educazione, insegnamento, sanità, ma anche la possibilità delle donne di accedere al giornalismo come professione.
La cosiddetta “questione femminile” si era verificata in Italia sia sotto la spinta dei processi di modernizzazione che avevano investito la società nel suo complesso, sia, soprattutto grazie alle sollecitazioni che venivano dall’emancipazionismo. La presenza stessa del movimento, infatti, provocava e alimentava un ampio dibattito, anche se lacunoso e discontinuo, nella cultura e nella politica italiana intorno ai temi della cittadinanza femminile, della struttura e dei rapporti familiari, del lavoro extradomestico, dei nuovi compiti delle donne nella società: in sintesi intorno al problema della definizione della “donna nuova”. Il concetto “donna nuova”,[4] tuttavia, non indicava un modello ben definito ma si caricava di volta in volta di significati differenti a seconda di chi lo delineava: una definizione quindi, sempre in funzione di un progetto di famiglia o di società, in altre parole passibile di molteplici usi, dal discorso politico alla narrazione letteraria. Se prima della formazione dello stato unitario le donne avevano dovuto garantire l’ordine sentimentale e materiale del primo organismo sociale, la famiglia (e quindi di riflesso della neonata nazione), raggiunta l’indipendenza, esse avevano due possibilità: se povere, lasciare il lavoro domestico ed entrare a lavorare nell’industria (l’operaia); se, invece, appartenente alla classe media contribuire al progresso del paese impiegandosi in nuovi settori di lavoro, uno fra tutti quello dell’istruzione dei futuri cittadini (l’insegnante-maestra).
Tuttavia ben presto, in seguito alla conclusione della prima fase dell’industrializzazione e alla necessità di manodopera per l’industria meccanica e pesante, l’operaia tornava al lavoro domestico parcellizzando il salario del marito e facendo della casa un luogo di ristoro rispetto la presunta immoralità del lavoro di fabbrica, che si riteneva provocasse la dissoluzione della famiglia e minasse la salute di intere generazioni. Quanto alla maestra se le erano concessi doveri, quali la creazione del consenso delle generazioni future, non le si concedevano altrettanti diritti di cittadina, svalutando sia sul piano materiale e di conseguenza anche su quello simbolico il suo lavoro, basti pensare che la maestra riceveva uno stipendio inferiore di un terzo, quando non addirittura della metà, del maestro. Le donne pertanto iniziano ad autodefinirsi nuove, proponendo proprie definizioni di una diversa identità femminile, individuale e collettiva. Ulteriore testimonianza dell’interesse di Deledda per certi temi, allora attuali e urgenti come appunto il femminismo e il socialismo, piuttosto che per questioni molto scottanti per l’epoca, ovvero la virtù delle attrici, è che la scrittrice fosse annoverata tra le collaboratrici della rivista <<La donna>> di Nino Caimi, insieme a Matilde Serao, Ada Negri, Neera, Luisa Anzoletti e Paola Lombroso, e che è attestata la sua presenza, insieme alla cara amica Sibilla Aleramo e al compagno Giovanni Cena, all’inaugurazione della Casa delle attrici promossa da Eleonora Duse il 29 maggio 1914.
Ritengo infine essere significativo e spunto di riflessione fare riferimento alla narrativa del periodo romano di Deledda, un circuito di romanzi con forte protagonismo femminile, e in particolare a La madre (1920) che inevitabilmente risente di questo clima di fermenti. L’opera appartiene alla piena maturità della produzione deleddiana e rispetto ai canoni dell’epoca è un esempio di come la scrittrice riesca a cogliere il disagio e i mali spirituali della civiltà moderna al pari di grandi artisti e scrittori del Novecento. Tutti i suoi romanzi sono dedicati a quella trasgressione delle antiche leggi della società patriarcale che getta nell’abiezione i personaggi, i quali si salvano dalla degenerazione morale grazie al ritorno alle madri, alla cultura materna. Deledda, del resto, ha sempre riservato un ruolo centrale alle donne e alle madri, tanto che Maria Giovanna Piano[5] ha affermato che nella narrativa deleddiana è dipinta una società patriarcale in cui l’ordine femminile detiene un’autorità autonoma. L’universo deleddiano pertanto si svela al lettore nella teoria delle Madri: donne “inaddomesticate”, per utilizzare il suo corsivo, alla cultura patriarcale, appartenenti solo a sé stesse e che a partire da sé stesse ordinano la realtà. Le figure femminili deleddiane sono infatti irriducibili all’ordine maschile: sono severe ed esigenti, operose e assolute, imperiose e quasi sempre salvifiche, donne che creano il proprio destino e plasmano la realtà secondo i loro piani, senza mai scendere a compromessi neanche per il figlio, senza mai nutrire sentimenti negativi verso altre donne. Sono fisicamente dure e moralmente severe, hanno una costituzione granitica che cozza con una certa friabilità dell’essere uomo, che sovrasta notevolmente la forza degli uomini, padri o mariti, e rende irrilevante la loro presenza. La loro autorità è per nulla è connessa a una qualche forma di prestigio o collocazione sociale, spesso vivono in miseria e sono analfabete perché stanno comunque sotto il segno di una grandezza simbolica. In genere la madre è una madre di maschi e quindi gli uomini sono proposti nel ruolo di figli: la madre può offrire la sua totale disponibilità, come Maria Maddalena in La madre oppure la sua totale indisponibilità come nel caso di Olì in Cenere, personaggio antimaterno per eccellenza, irriducibile a qualunque simulacro che i codici sociali impongono di venerare e quindi capace di volontà propria, afferma in modo irreversibile la sua libertà recidendosi la gola. Le madri deleddiane infatti accettano il compito di essere guide morali, ma non transigono sul far valere il proprio giudizio. Non sono votate a una vita di sofferenza in cambio del nulla, non si convertono mai in una “mater dolorosa” debole e indulgente, in vuoti stereotipi fissi e se anche pagano il prezzo della vita, non lo fanno per il mito dell’infinito amore materno, quanto piuttosto per sigillare in modo irreversibile la propria libertà e dignità dell’essere madre.
Alla luce di quanto appreso durante il seminario ribadisco che considero Grazia Deledda non solo brillantemente in anticipo sui tempi ma mi permetto anche di scorgere in queste donne, da lei rappresentate, delle soggette che si riappropriano della loro forza di essere, agire e anche morire, così come, nel mondo che mi piace pensare, riusciremo a essere tutte noi.
Sono passati anni dal giorno in cui ho chiesto a mia nonna di parlarmi di sé. Oggi so che attraverso le sue parole ho scelto la mia genealogia e dato voce al mio canto. A riprova del fatto che è nella tradizione che si guarda all’innovazione. A dire la verità talvolta lei mi rimprovera perché trascorro intere giornate seduta a una polverosa scrivania sommersa dai libri. Ma non appena mi allontano, subito, posso udire il suo monito: “Tu sei nata per questo”.
[1] D. MARAINI, La forza di Elsa, in Morante la luminosa, a cura di L. Fortini, G. Misseville, N. Setti, Roma, Iacobelli, 2015, pp. 168-74, p. 173.
[2] L. FORTINI, Critica femminista e critica letteraria in Italia, <<Italian Studies>>, vol. 65, II, luglio 2010, pp. 178-91.
[3] L. FORTINI, Aggiunte e mutamento. Cosa aggiunge e muta Grazia Deledda alla letteratura italiana, in Chi ha paura di Grazia Deledda? Traduzione, Ricezione, Comparazione, a cura di M. Farnetti, Roma, Iacobelli, 2010, pp. 229-45, p. 241.
[4] A. BUTTAFUOCO, M. ZANCAN, Svelamento. Sibilla Aleramo: una biografia intellettuale, Milano Feltrinelli, 1988, pp. 142-4.
[5] M.G. PIANO, Onora la madre. Autorità femminile nella narrativa di Grazia Deledda, Torino, Rosenberg & Sellier, 1998.