Si può pensare al corpo attraverso più e più itinerari diversi e non arrivare mai ad una definizione sufficiente per la sua materia così pregna di limiti, di varchi, di storie e restrizioni. Si può pensare al corpo per fondare e rifondare costantemente una politica del corpo stesso, che sia un modo prepotente di fuggire la proiezione costante di sé nel mondo, nel senso della semplificazione e di ciò che resta di universali senza carne e senza storia. La contemporaneità ci ha consegnato in effetti un paesaggio inedito, in cui le letture si incrociano, si sovrappongono, spesso senza la necessità partigiana di contraddirsi. Permangono tuttavia convinzioni la cui sostanza era stata sconfitta o indebolita dai tumulti della storia recente e che però, svuotate dell’apparato ideologico, si ripropongono come misura disperata del bene e del male. Da sempre, i corpi smentiscono, gridano, si arrotolano e si scompongono per ricostruirsi senza genere, senza razza, senza cittadinanza, in una lotta sferzante col potere. Una lotta senza posa, che se assunta come punto si vista sulla storia stessa, ci riconsegna la fibrillazione inarrestabile di scritture, riscritture, di posizionamenti e contro-condotte [1]. I corpi non osservano mai e non sono mai stati fermi sui marciapiedi della storia. Piuttosto alzano le barricate di una rivolta che può arrivare a mescolare e modificare tessuti, cellule, cicli e sessualità biologici, con una ricaduta pesantissima sui ruoli sociali, sulle molteplici forme di razializzazione e sui «deliri manichei»[2] di stampo coloniale. Secondo questo crinale, questa lotta inesauribile, che fa continuamente capolino tra le arterie della storia monumentale, è già sempre una lotta post-umana, dove umano però si definisce come alterità negativa innanzitutto perché intrattiene una relazione assai pericolosa con la neutralizzazione delle soggettività sulla linea del tempo omogeneo.
Questa specificazione è dirimente per circoscrivere l’interesse della politica dei corpi nei confronti del superamento dell’umanesimo come contenitore delle eccedenze soggettive e come compressore dei possibili. E’ il posizionamento migliore per non cedere ad alcuni rischi futuristici ed eccessivamente tecno-entusiasti delle trasformazioni contemporanee sulla vita.
A partire dalla condizione d’esistenza del corpo interrelato e delineando conseguentemente il problema della forme di produzione del valore e delle immediate modalità di sfruttamento ed estrazione dello stesso, è necessario attribuire al Capitale il posto più consono all’interno di questa nuova avventura teorica. Taluni e talune narratori e narratrici delle storie postumane infatti, tendono a nascondere il ruolo portante che hanno le affascinanti performance di accumulazione di plusvalore della vita biologica nei nuovi cicli di accumulazione, assumendo una postura solo descrittiva delle avveniristiche trasformazioni a cui tutte e tutti andiamo incontro.
Lungi da chi scrive un atteggiamento tecno-paranoico, tuttavia sembra necessario sottolineare alcune pre-condizioni perché cultura materialista, critica dell’economia politica neoliberale e nuove frontiere post-umane si armonizzino e si sostengano vicendevolmente.
Della deflagrazione delle pareti dell’umano e dello scarabocchio ribelle sul corpo perfetto dell’uomo vitruviano, assumiamo innanzitutto il potenziale emancipatorio, soprattutto per quelle soggettività tradizionalmente subalterne che la dittatura dell’antropos ha relegato a vari livelli di devianza e alterità. La sconfitta eclatante del determinismo e del destino naturale porta con sé la cancellazione immediata della differenza qualitativa tra le soggettività e pone i corpi nello stesso indiscriminato potere di essere tutto. Non esiste niente di più naturale del feretro della natura umana che sfila nel mezzo dei corpi in trasformazione. Non esiste niente di più interessante per una politica materialista centrata sui corpi, della possibilità di liberare gli stessi dalla costruzione dei cicli biologici e dei ruoli sociali che hanno detrminato secoli di patriarcato. Così come non esiste modo più radicale per sconfessare le identità di genere e razza con cui si confronta la trama della cittadinanza tradizionale e che hanno definito lo spazio discorsivo dell’accettazione e dell’offesa [3].
I territori urbani si riempiono di forme di vita che si ibridano, si confondono e che non ambiscono ad alcuna forma si riconoscimento per mano d’una qualunque autorità. Questa ibridazione continua non è però sottrattiva nei confronti dei contesti sociali nei quali queste soggettività post-umane vivono la propria vita. Ecco perché una attenzione particolare deve essere rivolta al rischio, insito e connaturato nella patologia descrittivista già citata, di smarrire su questa cartografia della novità i bacini della sofferenza sociale, che sono pure e sempre i propulsori delle possibilità di sovversione e di rivolta.
Sinteticamente potremmo dire che, se l’assunzione di un orizzonte post-umano per le soggettività contemporanee si traduce semplicemente nell’osservazione fideistica dell’esistenza e della trasformazione di un numero sempre maggiore di corpi, nell’emersione di cyborg e forme di vita ibride e nella sperimentazione di relazione tra umani e non umani, allora siamo probabilmente molto più vicini di quello che possiamo immaginare al modo in cui gli attori del capitale contemporaneo immaginano il futuro avveniristico di un occidente con altissimi tassi di mortalità, di povertà dilagante, di vite precarissime e di estremo avanzamento tecnologico e scientifico sottopagato a fronte di un’ ulteriore normazione della vita e delle passioni.
L’algoritmizzazione delle esistenze e delle emozioni, che già all’oggi ha educato le nuove generazioni a posture ancora più individualizzanti e pregne di difficoltà relazionali, potrebbe essere il rischio celato dietro alcuni degli entusiasmi post-umani. Ecco perché le soggettività in grado di avvertire la sofferenza sociale, le contraddizioni delle forme di sfruttamento (anche della vita biologica) devono restare qualitativamente differenti dall’amalgama indifferenziata che si propone spesso nelle descrizioni del cybermondo.
Le soggettività che emergono da meticciati trasversali e che sfuggono alla mortificazione della devianza perché la natura si è finalmente disvelata nella sua morfologia irriducibile devono poter essere connotate sempre per la possibilità di reagire all’oppressione del capitale, che non smette di mettere in campo mille e più micro-guerre e micro-battaglie contro le libertà e l’emancipazione, con armi sempre diverse e sempre più sottili. D’altronde, come scrive Cooper [4], non dobbiamo dimenticare che alcune di queste trasformazioni, soprattutto quelle che hanno direttamente a che fare con i cicli biologici e con il destino riproduttivo, sono il frutto di grandi investimenti delle multinazionali farmaceutiche e di battaglie ideologiche interne agli stessi poteri conservatori. Battaglie giocate sul terreno dicotomico tra morale e profitto, che però in età neoliberale la spunta quasi sempre, soprattutto perché ha un potere coercitivo molto più efficace di quello pesante della morale religiosa.
Dunque, provocatoriamente potremmo concludere sostenendo che, il Capitale, è a tutti gli effetti un’azionista di maggioranza della svolta post-umana, insieme chiaramente a tutti i sommovimenti sociali, individuali e collettivi che ogni giorno contribuiscono a deflagrare le pareti sempre più permeabili dell’umano tradizionalmente inteso. Così come potremmo affermare che buona parte dell’orizzonte così convincente della fine dell’antropocentrismo e del feticcio umanista si è determinato anche e soprattutto perché siamo nell’era dell’antropocene [5], un’era che si caratterizza proprio per la violenza con cui i meccanismi di estrazione del valore e di accumulazione originaria hanno devastato la natura e l’ambiente, comportando delle trasformazioni drammatiche e conseguenti pure sulle vite e sui copri.
E’ dunque anche contro questo efferato volto del capitale, che si mostra soprattutto nei territori più poveri e socialmente disperati, che è necessario situare in senso materialista la politica dei corpi post-umani e quindi anche certamente la loro stessa pratica di rivendicazione dei diritti.
Post-umani sono i corpi non normati, corpi deflagrati allegramente dalla differenza, corpi sessuati e potenti, corpi che si sperimentano e si confondono e che riconoscono nella loro pratica emancipatrice una lotta incessante contro il biopotere, corpi che rifiutano la neutralità, che si mettono in gioco nei conflitti sfidando la loro piccolezza dinanzi al potere, corpi di un colore che può diventarne un altro, di un sesso che può non essere più quel sesso, corpi che si sommano e sommandosi diventano un corpo unico che rischia la stessa partita.
[1] M. Foucault Naissance de la biopolitique, Milano, Feltrinelli, 2005
[2] F. Fanon, I dannati della terra, Torino, Einaudi, 1961
[3] J.Butler, La vita psichica del potere, Milano, Mimesis, 2013
[4] M. Cooper, La vita come plusvalore. Biotecnologie e capitale al tempo del neoliberismo, Ombre Corte, Verona, 2013
[5] Si definisce antropocene l’era geologica caratterizzata della mano pesante e mortifera impressa dall’uomo sulla natura, sui territori e sui climi.