di Chiara Cremaschi
Dulce Maria Cardoso è una scrittrice portoghese, che ha vissuto parte dell’infanzia in Angola.
La sua è una di quelle famiglie costrette a rientrare in Portogallo dalla liberazione delle colonie, avvenuta grazie alla Rivoluzione dei Garofani e alla fine della dittatura di Salazar. È probabilmente per questo che, in molti dei romanzi di Cardoso, il 1975, l’anno della rivoluzione, è uno snodo fondamentale.
Anche per Eliete, la protagonista di questo romanzo che porta come sottotitolo “la vita normale”, la rivoluzione è strettamente connessa alla sua vita personale. Suo padre, Antonio, era un militante, e il racconto inizia con la scoperta di Eliete che un altro protagonista di quegli anni è in relazione con lei e la sua famiglia. Si tratta di Salazar in persona, il dittatore.
Da questa scoperta inizia il raccontarsi di Eliete, che sceglie di cominciare la narrazione del grande cambiamento che trasforma la sua esistenza dal giorno in cui sua nonna viene ricoverata in ospedale. Quel giorno segna, infatti, il principio del suo cambiamento o, meglio, lo spostamento di sguardo di Eliete su sé stessa e sul mondo intorno a lei.
L’incipit del libro, che è anche l’autopresentazione di Eliete e la sua dichiarazione di raccontare tutta la vicenda dal suo punto di vista e attraverso il suo continuo flusso di coscienza, è questo:
Io sono io, e vaffanculo a Salazar. Arriva un dittatore, governa il Portogallo per quasi mezzo secolo, ne passa quasi un altro mezzo dalla sua morte e poi decide di entrare nella mia vita.
E all’improvviso è come se fosse sempre stato qui e si appropriasse di tutto.
Mica potevo lasciarglielo fare. (p. 9)
Quello che mi ha più colpito di questo incipit è la dichiarazione: “Mica potevo lasciarglielo fare”. Perché, con tutto il rispetto per il ruolo che ricoprirà Salazar in questa vicenda e che ha ricoperto nella storia del Portogallo e dell’autrice, credo che quella frase sia fondamentale. E che coinvolga chiunque nel percorso di Eliete, da ovunque legga.
È la presa di posizione di Eliete che mi interessa.
Perché, è lei stessa a raccontarlo, il suo percorso nel mondo e nella vita è iniziato vivendo a casa della nonna, con la mamma vedova e una gigantografia del padre che incombeva su di lei. Ma soprattutto è stato un entrare nel mondo adulto, scandito da frasi come:
Adesso sei una signorina, ormai, ti può succedere di tutto, basta guardarsi intorno per capirlo. (p. 19)
Eliete capisce che è successo qualcosa a sua madre, e forse anche a sua nonna. E quella frase le risuona internamente:
Non volevo diventare come lei, qualsiasi cosa le fosse successa non volevo succedesse anche a me, ma era troppo tardi per impedire alle parole di nonna di avere su di me esattamente l’effetto contrario, quel “ti può succedere di tutto” si era trasformato nel preannuncio di un futuro avventuroso, che avrei afferrato con tutte le mie forze. “Ti può succedere di tutto” mi riecheggiava dentro in modo strano, come se potessi diventare un maschio, ai maschi poteva succedere di tutto, non avevano nulla da temere, niente di cui vergognarsi, la paura e la vergogna ricadevano sempre sulle femmine, anche se erano i maschi a cercare di palpeggiarle o a circondarle per carpire baci con la lingua, la colpa era sempre delle femmine che non avevano saputo evitare le molestie, la colpa era sempre delle femmine perché si erano conciate a quel modo, la colpa era sempre delle femmine, fin dalla mela regalata a Eva a Adamo, punto e basta. Avrebbe potuto succedermi di tutto, ma fra tutto quanto mi aspettava avrei saputo scegliere di essere diversa da mamma, da mamma e nonna, avrei saputo scegliere di diventare come volevo io. (p. 20)
Eppure, perché Eliete tenga fede alla promessa che si è fatta, perché riesca a ribaltare quella frase come desidera, deve accadere qualcosa. E qualcosa succede molti anni dopo: la malattia improvvisa della nonna, che implica smarrimento e perdita di memoria.
Nel frattempo, Eliete ha scelto un percorso “normale”, che lei stessa giudica banale: un marito, due figlie, un lavoro che non la soddisfa. Fino a quel momento, il suo pensiero resta fermo nella convinzione che solo “maschio” che può agire, sperimentare. A lei sarebbe piaciuto, ma è una “femmina”. Di più, è una “femmina” incastrata in un meccanismo: un marito che la vede come funzionale e che nella organizzazione della settimana ha previsto, di comune accordo, il sesso il venerdì, due figlie che non la stimano, la gestione della casa e il suo lavoro, che – guarda caso – è vendere case.
Che cosa rompe questo meccanismo? Certo, l’avvenimento contingente è la malattia improvvisa della nonna. Ma il disgregare che questa crea, fa nascere in Eliete il desiderio. È il desiderio il motore del cambiamento. Ripartendo dal desiderio, Eliete si sporge sul non-senso della vita. Eliete è la narratrice degli eventi che lei stessa non comprende, e che eppure racconta, anche se dichiara da subito di non esserne in grado. Chi legge il libro, forse fatica a capire pienamente i significati fattuali delle emozioni che Eliete ci dona. Ma a Cardoso è proprio questo che interessa, raccontare il processo, spesso incomprensibile, di trasformazione del sé.
È un processo che passa attraverso l’uso della tecnologia, una falsa identità (Monica) e una riscoperta della sessualità. È un processo che parte ancora dallo sguardo maschile:
Io non ero Monica, ma nemmeno avrei potuto dire di essere il suo opposto. Crearla mi aveva procurato piacere. Fino all’arrivo di Monica la mia creatività mi lasciava sempre con l’amaro in bocca, bastava pensare alle parole eternamente mancanti delle mie poesie, al penoso ripetersi della mia frase “può capitare di tutto”, alla poca fantasia da me usata nei condimenti in cucina, alla mia mancanza di originalità nella scelta degli abiti, fino all’arrivo di Monica ero stata talmente poco creativa da convincermi di esserlo più con il corpo che con la mente, il mio corpo aveva creato le ragazze, erano loro la mia unica grande opera. Il processo di creazione di Monica fu lento e legato in gran parte ai messaggi scambiati con gli uomini di Tinder, mi aiutarono loro a costruirla, a dare a lei tutto quanto rimpiangevo di non aver avuto io. Forse per questo Monica si mostrava così sicura di sé. (pp. 151-152)
Ma il processo non si ferma qui. Questo è il primo passo. Eliete, infatti, non dimentica mai che tutto ha inizio proprio da quel giorno, dalla malattia della nonna e dalla domanda su cosa sia l’affetto, l’accoglienza, la casa. Per questo credo che Cardoso voglia dirci che il percorso su noi stesse, e la nostra trasformazione, non possano prescindere dalla relazione con le nostre antenate e il loro vissuto.
Dai, Eliete, nessuno si siede più a mangiare a tavola se non è Natale, la vita vera è diversa da quella che vedi nei film. (p. 206)
Questo le dicono. E invece è proprio questo il desiderio di Eliete, voler capire cosa è la vita vera. Voler capire cosa sono le relazioni. Con i vivi e con i morti.
Non vorrai svenire proprio adesso, vero, Eliete? (p. 261)