La riflessione di Federica Giardini sull’alleanza inquieta tra politica e linguaggio ha la natura appassionante di una storia, anzi di molte storie, di conflitto e riappacificazione, di fallimento e di nuovi inizi, e deve forse la sua potenza al fatto che ogni momento di questa lunga vicenda ci chiama in causa, perché nell’intrecciarsi mai compiuto tra parola, ricerca della verità e aspirazione alla giustizia ci siamo noi, ogni essere singolare che tenta l’impresa di prendere parola.
Presa di parola che si configura sin da subito come atto politico non scontato, non conseguente automaticamente dall’essere dotati di voce e che, già dal pensiero aristotelico, rappresenta il discrimine per accedere allo spazio pubblico. “Non basta emettere suoni con l’intento di significare e comunicare per vivere insieme” (p. 46), perché ogni organizzazione è giustificata da una narrazione che stabilisce chi, in possesso di una serie di requisiti – cittadinanza, lavoro, libertà personale, sesso – gode del logos e chi ne è escluso a priori, e quindi non è pienamente cittadino della polis.
Così l’autrice segnala che “la ripartizione tra voce e giudizio è quella che determina l’organizzazione della convivenza e le posizioni dei diversi esseri che vi si trovano” (p. 51), ma anche che la possibilità di accedere alla presa di parola rimanda sempre a rapporti di forza, che agiscono innanzitutto come potere di rendere legittimi, attraverso la narrazione, alcuni principi che determinano un regime di inclusione e di esclusione.
Le narrazioni quindi non restano “confinate nell’ambito delle discipline storiche, ma intrattengono un rapporto stretto con le nostre vite” (p. 13), attribuiscono un fine al corso della storia, che è anche chiave di interpretazione degli eventi e del tempo; costruiscono l’identità del Soggetto e, per difetto e sottrazione, dell’Altro, e ne irrigidiscono l’agire in opzioni e ruoli dati, rispetto ai quali ogni differenza è degradata a inferiorità, a devianza, ad anormalità.
Cosa succede però nel momento in cui queste narrazioni entrano in crisi e tra queste in particolare l’idea che l’Occidente possa “continuare ad organizzare la folla degli eventi che ci vengono dal mondo, umano e non umano, ordinandoli secondo l’idea di una storia universale dell’umanità” (p. 24, da J. F. Lyotard, 1986)?
Per Lyotard l’interrogativo sulla validità della narrazione onnicomprensiva dell’Occidente si impone nel momento in cui la Shoah smentisce l’equivalenza tra razionale e reale postulata da Hegel, ma Giardini recupera nell’analisi arendtiana delle ideologie il lato oscuro del logos, che non si esaurisce nell’esperienza storica dei totalitarismi, ma si rinnova nel continuo scollamento dall’esperienza di un pensiero che procede logicamente assorbendo ogni contraddizione come momento temporaneo verso una successiva sintesi, senza lasciare spazio ad alcuna sovversione dell’ordine dato. Un logos quindi che non cerca verità, né giustizia e che disprezza i fatti, mirando semplicemente a realizzare quanto i rapporti di forza hanno già previsto, attraverso un discorso che contempla solo la possibilità di essere confermato e mai smentito. “Una volta stabilita la disparità di forza su quella scena, il discorso può svolgersi pretendendo per sé il rigore delle deduzioni logiche, che travolge l’esperienza dei singoli quali illusioni se non errori da sanzionare” (p. 81).
Questo conflitto esistente tra parola, verità e giustizia è quanto Giardini rintraccia nella vicenda dei Meli, narrata da Tucidide nella Guerra del Peloponneso, perché nel dialogo con gli Ateniesi che vogliono violarne la neutralità, costringendoli ad allearsi o ad arrendersi, “è già decisa una disparità di peso tra le parole che verranno dette” (p. 77), dimostrando che “la parola può diventare inutile se la fonte del suo peso o influenza è stabilita altrove” (p. 78).
La via per recuperare l’accesso all’esperienza e ad un parola che sia realmente in rapporto con essa è ardita. Giardini propone, infatti, un passaggio di un testo di Arendt del 1972, La menzogna in politica, in cui la pensatrice tedesca riconosce nel mentire una forma di negazione della realtà che contiene un inatteso potenziale liberatorio. Ciò che Giardini ha in mente, nel valorizzare questa posizione di Arendt, è che “negare la realtà, là dove è un atto che apre uno spazio di libertà e azione, non significa negare la sua esistenza, ma negarne la necessità” (p. 84) e quindi negare che le cose non possano darsi altrimenti, soprattutto quando questo negare la necessità della realtà viene agito da coloro che dalla narrazione dominante sono definiti resti, residuali rispetto all’universale.
Negare la necessità della realtà è allora fare spazio all’esperienza che non vi era compresa, che non era dicibile, e quindi in fondo non propriamente negarla, ma costringerla alla prova della presa di parola da parte di un altro soggetto, il cui discorso non è previsto, rivelare che il vero e il falso in questione non hanno a che fare tanto con l’esperienza, quanto con intenzioni e argomentazioni già assunte in una scena precedente.
L’irruzione del soggetto imprevisto e di un pensiero radicato all’esperienza “interrompe il falso ragionamento basato su false premesse, che ci inganna per la sua coerenza interna” (p. 91).
Così dall’ingiunzione a tacere, che accompagna la prima parte del libro, ricalcando il titolo di un testo di Carla Lonzi Taci, anzi parla, si ricreano le condizioni per la presa di parola, purché si riesca a “togliersi dalla posizione prevista dalla tradizione” (p. 142), a rinunciare a quel sostegno, alla sensazione di definitezza, di collocazione, che un ordine simbolico, anche repressivo, comunque ci assicura, e a trovare un nuovo radicamento.
Nella politica delle donne, che Giardini ha come riferimento nel pensare l’irruzione nella storia del soggetto imprevisto, le parole non sono più misurate in base ai valori di una tradizione, ma “sono significative perché si pronunciano nell’incontro con un’altra” (p. 151), a partire dalla propria esperienza “per andare altrove, per leggere la propria implicazione nel mondo” (p. 152). Parole consapevoli dei legami con la realtà e responsabili di quella adesione, per quanto mai definitiva.
La pretesa di racchiudere in narrazioni universalistiche la molteplicità dei mondi e delle soggettività non è comunque andata perduta, come si rinnova l’emergere di costruzioni identitarie che contrappongono dei Noi e degli Altri, omogenei al loro interno e impermeabili al cambiamento.
Perfino chi pronuncia la fine delle Grandi Narrazioni, osserva Gayatry Spivak, ripete l’ambizione di “parlare per l’umanità intera” (p. 175) e dimentica la posizione di altri soggetti, “le donne, che non possono essere incluse nella fine, e nella parola che dice la fine delle grandi narrazioni occidentali” (p. 176), perché non hanno esercitato quella pretesa di parlare per l’umanità intera.
Insieme alle donne, esistono altri soggetti imprevisti che non hanno preteso di parlare per altri e che rilanciano l’impresa che le donne hanno iniziato, perché “si impegnano a disfare l’ordine basato sul potere producendo altro” (F. Giardini, intervento al Convegno Carla Lonzi e l’arte del femminismo, Roma, 6 marzo 2010).
a cura di Angela Lamboglia