di Elisa Bosisio
Prima lo Spazio, poi i nostri uteri.
Diamo i numeri: 1961, 1967, 1971, 1978.
Apriamo questo viaggio filosofico&politico col 1961, dunque: grazie all’operazione Vostok 1 per la prima volta l’Uomo si spinge oltre i confini terrestri e porta a termine una missione nello spazio. Facciamo un salto temporale: nel 1971, dieci anni dopo, in Italia la sentenza n.49 abroga l’articolo 553 del Codice Rocco —codice penale fascista tutt’ora in vigore come una delle fonti del diritto italiano— che normava il divieto di circolazione di qualsivoglia dispositivo contraccettivo, punendola con un anno di reclusione e un’ammenda di quattrocentomila lire.
1961 e 1971, due date la cui comparazione pare di primo acchito una forzatura arbitraria di chi scrive. Eppure il fatto che l’Uomo abbia sviluppato competenze tecnoscientifiche in grado di condurlo oltre i confini del Pianeta prima di quando alle donne sia stato concesso —almeno sulla carta della legalità— di autodeterminare la propria salute sessuale e riproduttiva mediante l’impiego di anticoncezionali, dà qualcosa a cui pensare. La riflessione che si fa strada sulla linea del tempo che separa la prima missione spaziale umana dalla legalizzazione della contraccezione in Italia sarebbe debole se nel resto del Nord Globale le politiche riproduttive avessero seguito altre agende, ma la legalizzazione della contraccezione tarda pressoché ovunque: fino al 1967 nel Regno Unito e addirittura fino al 1978 nel caso esemplificativo della Spagna.
Che cosa ci dice questo? Il tempo e le dinamiche che si articolano tra il 1961 e gli anni della legalizzazione degli anticoncezionali sono saturi, politicamente densi, e la lettura di Per farla finita con la famiglia. Dall’aborto alle parentele postumane firmato da Angela Balzano fornisce strumenti per mappare tale complessità, per capire le ragioni che hanno permesso all’umanità di raggiungere le stelle prima dell’autodeterminazione delle femmine-della-specie, con tutte le implicazioni implicite&esplicite che ne derivano e che ancora si annidano tra tube e vulva per diramarsi nei nostri corpi e vite tutte.
Tutta la politica è riproduttiva.
Il mio interessamento per le tensioni sincroniche tra quelli che, con Rosi Braidotti in Trasposizioni, chiameremo elementi di ipermodernità (nel nostro caso si veda la prima impresa dell’uomo nello spazio) e schegge di neoarcaismo (si veda, qui, la tardiva legalizzazione della contraccezione) trova risposte nel lavoro di Balzano e nelle sue riflessioni sulla forzata separazione tra produzione e riproduzione: topos politico la prima, processo naturale la seconda.
Nel capitolo terzo del libro l’autrice si imbarca in una complessa critica al pensiero marxista e neomarxista e ci invita a collocarci in maniera situata nella storia dello sviluppo capitalistico e a leggerne il grande rimosso: la riproduzione come ground zero dei nessi altamente operativi che si articolano nel binomio Stato-Mercato. Questi nessi materiali e semiotici scandiscono sempre più incalzantemente i ritmi dell’esistente ai tempi della cosiddetta Grande Accelerazione i cui movimenti carsici sono invisibilizzati da epistemologie umanistiche dimentiche che ogni ottica è una politica del posizionamento in cui ciò che si vede non si esaurisce in ciò che è, ma si co-produce attraverso ideologie funzionali ai network che lo producono, lasciando fin troppo lontano dall’oggi le loro radici e genealogie. Andiamo con ordine: riproduzione | Stato | Capitale | Grande Accelerazione.
Al contempo biologica e sociale, la riproduzione viene configurata nella teoria di quei Padri del sapere da cui, con Balzano, ci siamo emancipate, come un processo naturale e pre-politico, o come «una faccenda privata, gestibile in famiglia» (Balzano 2021, 112), ossia come un fenomeno intellegibile entro i confini di un’economia sessuale binaria in cui il polo della femminilità si esaurisce nella tendenza alla cura e alla rigenerazione spontaneista: Giovanna Franca dalla Costa chiamava la naturalizzazione e privatizzazione della riproduzione «lavoro d’amore» (1978, 19) e Balzano insiste sulla necessità di riconoscerne tutta la politicità oltre la trappola della romanticizzazione della femminilità come cifra della cura. In Balzano, come in Dalla Costa, la riproduzione deve emergere come lavoro de facto, seppur non pagato, e dunque come «questione macroeconomica per eccellenza» (2021, 116). Da un lato, è chiaro che questa posizione ri-affiora dalle memorie delle lotte e riflessioni delle femministe che hanno preceduto l’autrice: penso al caso di Antonella Picchio, l’economista che più chiaramente ha messo nero su bianco il fatto che «il totale del lavoro pagato è minore del totale non pagato» (cit. in. ibidem, 116) lungo una cesura che aggrega i dati reali secondo la variabile del genere. Dall’altro, lo sguardo di Balzano si fa avanti e additivamente si fa carico delle ripercussioni della cosiddetta svolta post-fordista che, a partire dagli anni ’70, vede il capitalismo obbligato a ristrutturarsi attraverso un vero e proprio cambio qualitativo dinnanzi alla crescita della popolazione, all’esuberanza dell’industrializzazione, alla crisi della produzione alimentare, all’esaurimento delle risorse non rinnovabili e dell’inquinamento crescente (Cooper 2013). Per dirla con Balzano, dai ’70 il capitalismo, trovatosi di fronte alla minaccia di una crisi socio-ecologica tanto perturbante da mettere a rischio la vita sulla Terra, si sottopone a una metamorfosi cosciente e strategica che lo conduce a passare da un’economia basata sull’industria pesante (quella fordista, appunto) a un’economia fondata sulla messa a valore delle capacità riproduttive-affettive-relazionali-comunicative (Balzano 2021, 114). Risuona l’eco delle parole del filosofo trans* Paul B. Preciado durante la talk del Marzo 2019 al PAC di Milano, intitolata La Rivolta nell’Era Tecnopatriarcale: con lui vediamo che dagli ultimi decenni del secolo scorso lo sforzo estrattivo del Capitale si è spostato dal topos della fabbrica, in cui veniva/viene messo al lavoro il corpo del lavoratore maschio (previa la forclusione del lavoro d’amore delle sessualizzate-donne dentro le mura domestiche), ai corpi tutti (umani e non umani), alle relazioni che essi inevitabilmente intrattengono tra loro, alla creatività della mente umana, all’emozionalità, alla potenza rigenerativa della materia e dell’esistente in tutte le sue forme, dagli embrioni agli estremofili, rendendo fonte di plusvalore la cifra di tutte le specie e tutti i regni (ibidem 17). È quel processo di ristrutturazione postindustriale che Cristina Morini chiamerà femminilizzazione del lavoro tout court (2010).
Immerse in questo mondo che dobbiamo re-imparare, in fretta&ritardo, a vedere con nuove lenti, Balzano chiama a «sovvertire il modello […], a considerare la produzione come funzionale alla riproduzione e non viceversa» (ibidem 116), a riconoscere che senza la forza rigeneratrice della materia, cui insieme donne e alterità-nonumane sono state storicamente ridotte dalle economie binarie e gerarchiche dal vetero-sapore cartesiano (natura/cultura, corpo/mente, riproduzione/produzione, ragione/emozione), nessun sistema capitalistico potrebbe esistere: non solo le donne, dunque, ma la Terra tutta e chi la abita funziona come magazzino e ground zero per i meccanismi di cattura iperproduttivisti che hanno dato forma all’oggi: la femminilizzazione del lavoro non solo è tout court ma transpecie, come transpecie è lo sfruttamento, e come lo sono le lotte e le vie-di-fuga che cerchiamo[1].
Le domande che seguono questa presa di coscienza sono disorientanti e si aprono in una forbice che contrappone le retoriche finimondiste-NoFuture del rifiuto nichilista della vita in sé come sottrazione alle maglie sistemiche, al desiderio di mappare delle lines of flight che sappiano immaginare degli altrove verso cui portare la potenza dell’esistente per farla germogliare in mo(n)di inediti: Balzano, che, oltre a studiare scienza, economia e filosofia, scuote la testa al ritmo del punk anni ’70, prova in Per farla finita con la famiglia a sottrarsi ai mantra di chi non sa o non vuole sforzarsi di scrivere una nuova trama e ricorda che in God Saves the Queen i Sex Pistols cantavano “no future…we are the future”, senza temere il paradosso e rimettendo al centro la possibilità di un NoFuture che suona più come un no al futuro uno&unico, assomigliando quindi a un non-ancora (ibidem 129) che abbiamo la responsabilità collettiva di materializzare.
Stato-nazione&desiderio | Capitale&intimità
La critica al sistema ri/produttivo avanzata da Balzano è una matassa a più bandoli: per chi cerca una sola e chiara linea di pensiero, la lettura sarà impresa impossibile; eppure i vari cavi da cablare seguono geografie complicate ma coerenti che trasmetteranno energia senza precedenti per * lettor* italian*.
Riconoscendo la riproduzione sia da un punto di vista puramente biologico —ossia come la riproduzione di nuovi esseri umani—, sia da una prospettiva più nettamente socio-politica come la reiterazione dello status quo attraverso la replicazione di strutture come quelle della famiglia, della cultura e della società, l’autrice de-naturalizza i nessi che legano questi spazi semiomateriali e fa emergere i contatti costitutivi tra la riproduzione dell’individuo, delle comunità e delle ecologie per politicizzarne le spinte intra-generative.
I rapporti riproduttivi che legano i soggetti, la società e l’ambiente sono oscuri e la testa fa male quando si prova a sondarne le profondità. Ma Per farla finita con la famiglia prende per mano e conduce lungo genealogie che, pian piano, si chiariscono a vicenda e dà ossigeno ad un pensiero critico che finalmente ribalta le prospettive di visualizzazione, cambiando le politiche del posizionamento.
Balzano parte dalla riproduzione biologica, ossia dalla messa al mondo di nuovi esseri umani: o, meglio ancora, di nuovi sapiens, nuovi consumatori e/o produttori. Chi sono gli umani che vengono al mondo? E in che mondo nascono? L’autrice è assidua frequentatrice della letteratura foucaultiana: l’uomo è un’invenzione recente, diceva il Foucault de Le parole e le cose, e Balzano sa bene che non c’è nulla di naturale nella nostra esistenza di specie. La specie sapiens, dice, è il risultato di una codificazione tassonomica di lunga data che si sedimenta e canonizza nel razzismo patriarcale del Systema Naturae di Linneo, in cui la dicitura di specie si plasma sulle presunte e arbitrariamente selezionate qualità del maschio occidentale, ossia ragione e suprematismo, universalizzandole solo su carta e relegando di fatto alle “periferie della specie” quelle che Balzano chiama razze e sessi secondi, sempre più vicini all’animalità che alla violenta e mai realizzata universalità dell’homo. Se i sapiens non sono animali-umani trasparenti e im-mediati, ma produzioni politiche recenti, la loro messa al mondo obbliga a riflessioni che sono sempre personali&politiche. Oltre all’eredità foucaultiana, Balzano si allea alle femministe neomarxiste (prima fra tutte Melinda Cooper in La vita come plusvalore) e riconosce come l’esistenza biologica dell’uomo è sempre sussunta dai bisogni metabolici di quel ventre digerente che si nutre di tutto l’esistente all’imbocco dell’alleanza Stato-nazione-Capitale: l’homo sapiens come canone è l’homo oeconomicus, ossia il cittadino maschio, bianco, istruito e ingegnoso dunque progressista; mentre le altre “razze” non sono descritte come realmente capaci di usare la ragione: sono, diremo, ospiti di specie. La biologia ai suoi albori, con Balzano, «è razzismo, cruciale per lo Stato-nazione occidentale che intende riprodursi su base fenotipica» (ibidem, 68).
Collocandoci in quello che con le/gli/* studiose/i/* postcolonial* abbiamo imparato a chiamare Nord Globale, e riconoscendoci ai margini del binarismo sessuale e di genere, siamo chiamate da Balzano a domandarci: per chi riproduciamo chi?
I tassi di natalità si spartiscono sulla mappa di un mondo diseguale in maniera scomposta: sono i Sud a riprodursi di più (ibidem, 125) in termini puramente numerici, ricorda Balzano, ma sono i Nord a farlo in maniera qualitativamente esponenziale come dimostrano l’esistenza del Pacific Trash Vortex —ossia quell’area di 1,6 milioni di km2 in cui galleggiano almeno 79 migliaia di tonnellate di plastica prodotte dal Nord America e dai paesi asiatici più ricchi— e della discarica ghanese di Agbogbloshie in cui si riversano gli esorbitanti scarti elettronici europei e statunitensi (scarti di devices già prodotti dall’estrattivismo massivo nel cosiddetto Terzo Mondo). Per chi riproduciamo chi?
Possiamo azzardarci a rispondere che riproduciamo consumatori sfrenati e produttori precarizzati per un mercato che, grazie ai rampanti nazionalismi, disegna sullo scacchiere geopolitico spazi-di-privilegio e spazi-di-sfruttamento in una danza macabra e strategicamente coerente che dovrebbe essere interrotta? Possiamo farlo senza suonare fredde antinataliste? Balzano risponde che sì, possiamo: perché questo è un mondo pro-natalità, ma non pro-bambin*. Un mondo in cui il futuro dei nuovi nati è scandito dal prospettarsi di crisi pandemiche[2], dall’irrespirabilità dell’aria e dal depauperamento dei sistemi immunitari dovuto all’impoverimento delle materie prime alimentari (Mae-Wan Ho 2002). Se a questo quadro aggiungiamo le previsioni di migrazioni massive dai Sud minacciati dalle conseguenze dell’Antropo-Capitalocene, la domanda si complica, ma la risposta, forse, si fa più semplice.
Angela Balzano si e ci chiede perché dovremmo riprodurre nuovi sapiens per Stati-nazione e mercati quando milioni di persone già in vita necessitano e necessiteranno di accoglienza e cura. Balzano si e ci chiede per quale ragione non dovremmo chiudere le gambe alle ingiunzioni biopolitiche manovrate da Stati e mercati e, invece, aprire i porti alle vittime di un sistema globale che dilania vite e corpi lungo gli assi della classe, della razza e del genere. Perché non adottiamo minori non-accompagnati ma vogliamo mettere al mondo nuov* bambin* secondo deliri biogenitoriali irregimentati da quella che potremmo chiamare con Evelyn Fox Keller “ossessione genetica”?
Le risposte si complicano nel reame degli affetti e dei desideri che ci muovono. Penso soprattutto alle donne che sognano, per le più svariate ragioni, la maternità. Eppure, seguendo Balzano e con lei Foucault, mi trovo a interrogarmi sullo stesso statuto di affetti&desideri: mi domando se siano, appunto, naturali e im-mediati, spontanei e trasparenti, oppure se non siano il risultato di un lavorio biopolitico che produce soggettività funzionali a un sistema che agogna capitale umano. Mi aiutano a trovare una risposta Laurent Berlant e Michael Warner quando vivisezionano piuttosto cinicamente l’istituzione dell’intimità, riscoprendola come un qualcosa di molto simile a un’ideologia i cui spazi convenzionali presuppongono una differenziazione strutturale della “vita personale” dal lavoro, dalla politica e dalla sfera pubblica. Più precisamente, mettendo a nudo la normatività della cultura eterosessuale (che qui diventa, dunque, regime dell’eteronormatività riproduttiva) essi puntano il faro sull’invisibilizzazione della profonda politicità/ideologicità dell’intimità, salvandola da qualsivoglia leva critica, archiviandola in una teca protettiva dentro le cui vetrine si trasforma nell’istituzione della vita personale a mo’ di istituzione privilegiata per la riproduzione sociale, per l’accumulazione e per il trasferimento di Capitale. La vita intima e lo spazio libidico diventano, in Berlant e Warner, l’infinitamente citato altrove del discorso pubblico e politico: un rifugio promesso, che distrae i cittadini dalle condizioni della loro vita politica ed economica; una sfera intima che diviene ciò che si presume essere la semplice personalità pre- o a-politica. (Berlandt e Warner, 1998, 553). A mio avviso Balzano si inserisce in questo dibattito circa la necessità di interrogare i nostri desideri attraverso la lente, impietosa ma necessaria, della biopolitica e della responso-abilità (Haraway 2016): è certo doloroso hackerare i proprio vissuti emotivi e le proprie pulsioni, ma è forse questo esercizio a permetterci di sognare una vita sottratta alla morsa di Stato-nazione&Capitale, come alle decisioni della Banca Mondiale e manovre politiche istituzionali (Balzano 2021, 120). Per dirla altrimenti: è forse solo assumendoci delle responsabilità dirette che potremo mettere in atto autogestione o commons, ciascun* scelga per ora la formula che preferisce.
Ancora Haraway ha contribuito alla discussione sulla necessità di mantenersi salde e saper riconoscere nella riproduzione biologica il livello zero della ri/produzione nazionalista&capitalista. È in Testimone_ Modesta@FemaleMan©_incontra_OncoTopo™, che mette nero su bianco il ruolo politico dell’immagine del feto nella cultura europea e statunitense come «metonimia per configurare i concetti di persona, famiglia, nazione» (Haraway, 2000, 237). Balzano muove tra queste riflessioni e aggiorna i ritornelli per accorciare le distanze tra politico e libidinale ma anche per situare queste riflessioni nella politica italiana. In questa prospettiva, l’autrice muove una lettura volta a scardinare la comprensione mainstream e altamente romantica della vita —soprattutto della nuova vita— come sacrale e salvifica. Le feroci politiche antiabortiste locali, che precludono alle persone incinte che non desiderano portare a termine una gravidanza di accedere ai servizi di IVG, si materializzano in primis nel connubio tra neofascismo e neofondamentalismo cattolico: gruppi religiosi e compagini come Forza Nuova e CasaPound si spalleggiano —più o meno esplicitamente— per preservare la vita come bene superiore; una vita, questa,però, che cacofonicamente finisce per fare rima con nazione. Balzano ha chiari intenti politici, ma la precisione concettuale e storica non sono mai abbandonate per perorare ideologismi, e dunque mette in fila i puntini e ci ricorda che nel 2017 i militanti di CasaPound (che si definiscono “fascisti del terzo millennio”) al grido dello slogan “fuori i clandestini, dentro i bambini italiani”, hanno lanciato una proposta di legge, quella del “Reddito nazionale di natalità”, che prevedeva l’esclusione di bambin* e genitor* non italian* e delle persone disoccupate, in una perversa combinazione di razzismo e classismo (Balzano 2021, 45): l’idea era quella di elargire un assegno mensile di 500€ per ogni nuovo nato da una famiglia cittadina italiana e lavoratrice.
L’escalation razzista, che Balzano ci ricorda, continua con FN che affigge striscioni e CasaPound che organizza seminari e campagne sotto il titolo “Tempo di essere madri”. Alle variabili di classe e razza si aggiunge, infine, quella sessista: donna = madre. Un’equazione, quest’ultima, che risuona con l’articolo 546 del Codice Rocco, in cui quella che Balzano chiama ingiunzione alla riproduzione/maternità (ibidem, 14) veniva sancita nella penalizzazione dell’aborto come “reato contro la stirpe” punito in nome del “benessere demografico”. Prosegue Balzano: una sponda morale a questa biopolitica della nazione-bianca e produttiva è garantita oggi dalle feroci retoriche Pro-Vita dei numerosi gruppi di neofondamentalisti cattolici. Chi scrive questa recensione abita nei pressi di Monza, città in cui è particolarmente attivo il gruppo pro-vita Ora et Labora. I loro comunicati, che si presentano presuntuosamente come grida di aiuto in favore della vita del non-nato, pullulano di odiosi riferimenti al “genocidio” e all’ “olocausto” dei feti in un palese connubio di istanze nazionaliste e religiose: comprendiamo i sottotesti politici dell’equazione aborto = genocidio[3]? Cito Balzano durante la presentazione di Per farla finita con la famiglia organizzata dalla collettiva universitaria transfemminista-queer bolognese La Mala Educatión[4]: «sembra che nei nostri uteri ci sia un sacco di gente». L’illustrazione Assembramento della fumettista e disegnatrice Elena Mistrello fa da eco e lascia poco all’immaginazione ma molto al riconoscimento, alla rabbia e al pensiero: un utero biopoliticamente saturo (clero e nazione vi si alleano dentro con una stretta di mano) e accerchiato da poteri tutti rigorosamente declinati al maschile.
Il riferimento a Testimone_ Modesta@FemaleMan©_incontra_OncoTopo™ torna con più chiarezza: cosa rappresentano le proliferanti immagini dei feti e gli appelli alla riproduzione dinnanzi all’invecchiamento della nazione (quando abbiamo dimostrato che il futuro sarà scandito dal dramma del sovrappopolamento)? Cosa sta dietro la strenua difesa dell’istituzione della famiglia-di-sangue? Come si rapportano le scelte dell’individuo, i/le nuovi/e nati/e, la famiglia e la nazione dentro i recinti dell’alleanza nazione-Capitale sancita da retoriche nataliste che paragonano l’aborto all’olocausto? Possiamo dire che le politiche riproduttive sono sempre ri/produttive e che le nuove nascite sono incoraggiate come dispositivo di produzione di nuovi/e cittadini/e nuovi/e capitale umano?
La risposta è stata affermativa per molte femministe che si sono interfacciate alla questione dei nessi tra riproduzione biologica e riproduzione sociale, come dimostra bene la serie di collage fotografici di Paola Mattioli intitolata Pance ed esposta alla Nuova Galleria Morone di Milano nei mesi di Settembre e Ottobre 2020, in occasione della mostra Gesti di rivolta. Arte, fotografia e femminismo a Milano 1975/1980.
Desideriamo tutte/i la riproduzione sessuale orizzontale o possiamo spingerci a immaginare nuove forme di parentela, per esempio adottando bambin* stranier* e provenienti da regioni dilaniate dall’estrattivismo perorato da Stati-nazione&Mercati bianchi, come suggerisce Balzano in Per farla finita con la famiglia?
Troppi Sapiens, troppo pochi pomodori di mare
Il Doomsday Clock ha le ore contate e manca ancora un passaggio per esplorare le complesse matasse della ri/produzione umana sulla Terra. Abbiamo fatto rapida menzione alla Grande Accelerazione come questione centrale per comprendere la vasta portata delle politiche riproduttive, ora pensiamola attraverso le parole di Balzano:
«Fino al XX secolo l’Olocene ha manifestato una certa stabilità, poi la popolazione umana è quadruplicata, passando dai 1.6 bilioni di persone del 1900 ai 7.3 odierni. Una crescita insostenibile per il lasso di tempo in cui è avvenuta: poco più di un secolo. Il cambiamento climatico è iniziato quando la vita umana sulla Terra ha iniziato a crescere vertiginosamente grazie al confluire di progressi medici, agricoli e industriali (Diamond 1997; Cregan-Reid 2020) a partire proprio dal periodo storico in cui abbiamo avviato la Grande Accelerazione umana, il XVIII sec., secolo in cui è nato l’homo sapiens e ha cominciato a riprodursi come homo oeconomicus. L’impatto di quest’homo sul pianeta ha spinto gli scienziati a parlare di Antropocene (Steffen et al. 2007), altrove si parla invece di Capitalocene (Moore 2017). La seconda espressione incontra maggiormente il mio favore, perché́ ha il merito di portare alla luce il complesso intreccio di fattori che ha condotto il sapiens a diventare homo oeconomicus e il capitalismo a imporsi come economia egemone: senza le tecnoscienze occidentali, agricoltura intensiva e produzione industriale sarebbero mai esistite? Senza le combinazioni di questi tre fattori, vi sarebbe mai stato il capitalismo così come si è storicamente articolato? Eppure, posso accettare anche Antropocene, perché in fondo il capitale lo ha fatto l’uomo, nello specifico il maschio bianco occidentale. Per questo uso Antropocene e Capitalocene come sinonimi, perché l’anthropos per me non è la parola che universalmente indica il vivente umano (127)».
L’impatto del narcisismo di specie non si può, tuttavia, calcolare solo a livello intra-specifico: le specie e i regni tutti sono prostrati dall’egemonia antropica. La Sesta Estinzione di Massa è in corso e interi ecosistemi stanno crollando, l’acidificazione degli oceani è ormai storia e lo scioglimento dei ghiacciai visibile ad occhio nudo. Il crescente numero di esseri umani e i ritmi di consumo efferati sono parte integrante di questo eco-sistema-mondo complesso che chiamiamo Terra. Cosa fare? La risposta di Balzano è etica e rimanda a quella che con Donna Haraway di Staying with the Trouble abbiamo imparato a chiamare responso-ability. Se etico-pratico è l’orizzonte attivo/attivista in cui Balzano si muove, il percorso attraverso cui ci fa arrivare alla soluzione —ossia quella della decrescita ri/produttiva— passa attraverso una puntuale conoscenza dei funzionamenti sistemici naturculturali: del resto Balzano è lettrice e amante di Spinoza e, nel testo, rende palese che per lei lo studio è affetto e che l’affetto è lotta.
In compagnia dell’autrice, tiriamoci su le maniche e impegniamoci a studiare per lottare: prendiamo tra le mani un testo ancora inedito della biologa e studiosa dei sistemi-complessi Beth Dempster che, nel 2000, presenzia alla conferenza dell’International Society for Systems Studies in Canada con un intervento dal titolo Sympoetic and Autopoietic Systems: a New Distinction for Self-Organizing Systems. La scienziata ha introdotto, in questa occasione, la nozione di “sistema simpoietico” per rendere conto di quei “fenomeni mondani semiomateriali” in cui materia costitutiva, componenti informative e compiti di controllo sono situati e distribuiti in una complessità di parti quasi-individuali, quasi-collettive e multilivello. Dempster sottolinea, in particolare, che i sistemi terrestri non dipendono dal funzionamento e mantenimento di confini fissi, ma piuttosto da relazioni complesse e dinamiche continue&mutevoli tra i componenti dei sistemi stessi e altre influenze.
Se proviamo a metterci in mezzo al mondo continuista che lega umani e nonumani nella coesistenza e mutua ri/produzione terrestre, se dunque impariamo da Dempster a leggerci in relazione e non irrelati, cosa accade? Ne potrebbe emergere vividamente il fatto che i nostri comportamenti e le nostre scelte non avvengono in uno spazio altro e separato mediante una filter bubble in grado di calibrare livelli strategici di permeabilità tra esterno ed interno e viceversa: le nostre politiche umane e le nostre scelte “personali” si situano in un ambiente da cui dipendiamo e che ci dipende. Riprendo, qui, per fare chiarezza, un concetto offertoci dalla fisica teorica e teorica queer Karen Barad, amica concettuale mia e di Balzano: introducendo la correlazione quantistica [entanglement] come inseparabilità ontologica delle componenti intra-attive, Barad spiega come l’essere entangled non significa semplicemente essere aggrovigliat* con un* altr*, come nell’atto di unione tra entità originariamente separate, piuttosto essere privi di un’esistenza indipendente e auto-contenuta. Le ‘cose’ del mondo, sostiene e dimostra Barad, non pre-esistono le loro relazioni ma emergono da dentro i fenomeni in virtù di spaziotempomaterializzazioni specifiche e situate, senza le quali non vi sarebbero le loro condizioni di esistenza. Nel riconoscimento della priorità ontologica (ancor prima che politica) del legame rispetto all’individuo, si apre la grande partita etica della responso-abilità della decrescita ri/produttiva che, con Haraway e Balzano, voglio contribuire a far emergere come necessità e non come orizzonte morale scandito ai ritmi comici di un entusiasmo ecumenico che non mi appartiene. Mi viene in soccorso il ricordo di uno dei film di animazione giapponese prodotti dallo Studio Ghibli che amo di più, Pom Poko di Isao Takahata. Il lungometraggio narra della lotta dei tanuki (canidi mutaforma della tradizione mitologica nipponica) per riconquistare la collina di Tama, loro dimora nei pressi di Tokyo, strappatagli dall’ingordigia della speculazione edilizia umana con l’obiettivo specifico di farne un quartiere residenziale. Dinnanzi alla pianificazione tattico-strategica di azioni eco-terroriste volte a sabotare i cantieri proposte dal consiglio dei saggi, l’anziana Oroku detta “Palla di fuoco” (l’unica tanuki donna a prendere parola in mezzo a consessi tutti declinati al maschile) sottolinea la necessità di un piano parallelo: nessuna azione diretta è da mettersi in discussione, ma non basta! È necessario che tutt* * tanuki riconoscano l’importanza di mettere freno alla loro stessa riproduzione biologica. La diminuzione delle terre abitabili e delle risorse alimentari chiede un immediato rallentamento delle nascite che consenta ai tanuki di vivere al meglio sulla collina mangiata dalla turboedilizia antropica.
La proposta dell’anziana Oroku è tranchant e in qualche modo, forse, ricorderà le politiche sul controllo delle nascite di alcuni stati autoritari, ma già qui è tangibile una variante imprevista: non è la deliberazione coercitiva di uno Stato centrale a imporre la decrescita, ma l’intelligenza di chi abita col proprio corpo un ambiente non-immobile&fisso in condizioni specifiche e non universali. La proposta di decrescita avanzata da Angela Balzano si colloca in questa dimensione: cosa fare mentre le altre specie si estinguono, l’aria si fa irrespirabile, nuovi patogeni emergono e la povertà avanza? Cosa fare con l’Uomo ai tempi della Sesta Estinzione di Massa che minaccia specie e razze seconde? È qui, nell’Antropocene, che viviamo ed è qui che dovremmo modellare i nostri desideri e piaceri.
Le soluzioni, in Per farla finita con la famiglia, sono etiche e, con Spinoza ad accompagnare il pensiero dell’autrice, l’etica è necessariamente un’etica delle soglie verso l’affermazione di alternative situate, relazionali, condivise e applicabili. Le proposte per questo hackeraggio del complesso sistema Capitale-Stato nazione-desideri si articolano in tre slogan:
- Gambe chiuse, porti aperti
- Generare parentele postumane per la rigenerazione del pianeta
- Autodeterminazione sessuale contro il biocapitale.
Il primo spinge verso un ripensamento della whiteness come odioso rimosso delle retoriche nataliste che muovono le politiche dell’articolazione sicurezza-territorio-popolazione e che abbiamo analizzato brevemente nelle alleanze tra neofondamentalismo cattolico e neofascismo. Pensiamo ai minori non-accompagnati, e alle persone di tutte le età che sbarcano ai nostri confini nazionali: possiamo amare chi viene da altrove e prendercene cura come di qualcuno che avremmo potuto partorire?
Il secondo spinge verso il riconoscimento della crisi, sempre socio-ambientale, che abitiamo e invita a spostare lo sguardo alla cura verso le alterità nonumane. Nei Manoscritti economici e filosofici, Marx usa il concetto di alienazione per spiegare il processo di separazione materiale (ma anche psichico e sociale) che allontana i lavoratori dalla processualità e dai risultati della produzione, ma anche dagli altri lavoratori; l’antropologa Anna Tsing in The Mushroom at the End of the World non abbandona Marx ma ne amplia il concetto in chiave postumana e parla di alienazione anche come separazione dell’umano e del nonumano dai loro processi di sostentamento mutuale. L’alienazionediventa, dunque, dimenticanza degli entanglement in cui/tramite cui si da la vita nella sua stessa dimensione spazio-temporal-materiale: lo slogan generare parentele postumane per la rigenerazione del pianeta dovrebbe suonare come una proposta etico-onto-epistemologica contro l’Antropocene. Vale a riconoscere il legame che produce l’ecosistema-Mondo e a farsi parte attiva per la sua stessa sopravvivenza simbiotica. Metto in dialogo Tsing e Balzano ai tempi del sovrappopolamento e della crisi climatica: potremmo mimare i pomodori di mare (ibidem, 126), esempio di simbiosi intra-generativa di cui sono costellate le coste di quel Mediterraneo in cui facciamo morire —a migliaia!— i corpi razzializzati forclusi dal consesso della sacra-vita, di cui il feto sembra avere invece cittadinanza onoraria. Come chiede Balzano, possiamo imparare la simbiosi da questi polipi rossi imparentati con molte altre forme di vita da loro diversissime sia per “razza” che per “specie”?
L’invito è quello di provare ad essere snodo cosciente di quel ricamo simpoietico che Dempster ci ha mostrato e attraversare la necessità di creare legami e prossimità con una creatività che sia al contempo un catalizzatore libidico e un’etica postumanista, capace di aprire orizzonti oltre il nesso Stato-nazione&Mercato per la decostituzione dei sapiens e la generazione queer ed ecologista di soggettività che ancora non sappiamo chiamare.
Il terzo ed ultimo slogan rimanda, invece, alla necessità di non dimenticare la partita dell’autodeterminazione sessuale delle donne e di quelle soggettività non-conformi storicamente escluse dal privilegio della scelta. Balzano, qui, chiarisce che la decrescita ri/produttiva non si può esaurire in un semplicistico facciamo meno figl*! Decrescere è una questione di autodeterminazione, ma questa non è mai una faccenda esclusivamente individuale. Cosa ne sarebbe dei dati demografici se l’accesso all’aborto fosse libero e la contraccezione accessibile e spartita tra i generi? La tecnoscienza e l’etica transfemministe potrebbero interrogare i desideri del soggetto e al contempo offrire soluzioni per tutt*: se la contraccezione ormonale maschile fosse spinta, l’aborto garantito e le ART (artificial reproductive technologies) —dall’ectogenesi all’IVF— rese disponibili per le soggettività LGBTQIA+ la scelta riproduttiva prenderebbe un’altra piega. Mettiamo in dialogo i tre passaggi e immaginiamoci un altrove in cui
- la tecnoscienza sia orientata oltre la trappola biocapitalista del binomio Stato nazione-Capitale, e resa disponibile oltre strategie che non appartengono al soggetto ma al dispositivo ri/produttivo: in cui aborto e IVF non sono più categorie morali ma prassi libere;
- in cui il rapporto con il mondo nonumano sia politicizzato e l’alterità nonumana amata dentro una rivoluzione ontologica fondata sullo slittamento epistemologico verso la coscienza degli entanglement in cui ci ricollochiamo contro l’alienazione specista;
- in cui lo Stato-nazione e la biogenitorialità non sono un nesso invalicabile: in cui nessuna Pia Klemp e nessuna Carola Rackete siano sotto attacco politico-giudiziario, ma in cui chi cerca un’altra dimora trovi parentele antirazziste,
ed è la fantascienza femminista di Haraway e Marge Piercy che comincia ad essere un piano etico-politico reale grazie agli slogan di Balzano.
Kate Tempest apre e chiude tra Spazio e uteri
Siamo partite dallo Spazio conquistato da Volstok 1 e dagli uteri piegati all’obbligo riproduttivo, per finire ad attraversare le biopolitiche stataliste e capitaliste: queste hanno in ultimo grado spiegato bene come sia stato possibile che l’Uomo sia arrivato nello Spazio prima di liberare (e pure solo fantomaticamente) le sessualizzate-donne della specie. Lo sviluppo additivo e lineare, ossia il progresso, è un obbligo produttivo tanto quanto lo è la ri/produzione bio-sociale.
Ho iniziato a scrivere questa recensione ascoltando uno dei pezzi che preferisco di Kae Tempest, rapper e poeta non-binary, tagliente e intelligente insieme: Europe is Lost del 2016. Ho deciso di infilare la musica nella mia recensione seguendo l’insegnamento di Balzano che accanto a Spinoza fa cantare Princess Nokia e vicino a Cooper lascia spazio alle grida delle spudoratissime Bikini Kill, in una mescolanza di fonti che tiene insieme la polifonia del reale, delle critiche al reale e delle alternative alla sua condizione. La prima strofa di Europe is Lost fomenta la mia rabbia e accompagna la scrittura:
Europe is lost, America lost, London lost
Still we are clamouring victory
All that is meaningless rules
We have learned nothing from history
The people are dead in their lifetimes
Dazed in the shine of the streets
But look how the traffic’s still moving
System’s too slick to stop working
Business is good, and there’s bands every night in the pubs
And there’s two for one drinks in the clubs
And we scrubbed up well
Washed off the work and the stress
And now all we want’s some excess
Better yet, a night to remember that we’ll soon forget
All of the blood that was bled for these cities to grow
All of the bodies that fell
The roots that were dug from the earth
So these games could be played
I see it tonight in the stains on my hands
La chiusa, poi, conferma il desiderio decostruttivo che mi anima ai tempi del tardo capitalismo accelerato dalla sindemia da Sars-Cov-2:
No trace of love in the hunt for the bigger buck
Here in the land where nobody gives a fuck.
Mi ritrovo a chiudere lo scritto, pochi giorni dopo averlo iniziato, ancora nel loop dell’ascolto di Kate Tempest. Cambio pezzo però. Ascolto un brano che non mi aveva mai conquistata, forse troppo naïve per un’ipercritica come me: People’s Faces del 2019. Un brano che assume adesso un altro sapore alle mie orecchie. Un brano che aggiunge allo sguardo decostruttivo del precedente —senza limarne la potenza destitutiva— una sfumatura affermativa, come a dire: c’è tanto ancora da fare, ma c’è già qualcosa che abbiamo realizzato e che spinge verso, per dirla con Braidotti-che-legge-Spinoza, affezioni gioiose.
E allora:
It’s hard
We got our heads down and our hackles up
Our back’s against the wall
I can feel your heart racing
None of this was written in stone
The current’s fast but the river moves slow
And I can feel things changing
Even when I’m weak and I’m breaking
I stand weeping at the train station
‘Cause I can see your faces
I love people’s faces.
Si dice che sia più facile pensare alla fine del mondo che alla fine del Capitale (leggi alternativamente del patriarcato, del sapiens e dell’antropocene), ma forse chi lo ha scritto e chi lo ripete non ha preso in considerazione la potenza delle lacrime e delle risate e dei muscoli e delle idee femministe&queer che stanno rifacendo un pezzo di quello stesso mondo oltre quello stesso Capitale. Things are changing, dice Tempest, io abbasso il tiro ma imparo un pezzo di lezione: something is (maybe) changing e il risultato un po’ dipende da quanto la politica vogliamo iniziare a farla noi, con le nostre pratiche da marginali ai margini. La strada è lunga e la romanticizzazione è una pratica che non conosco, sono forse troppo punk, troppo studiata e pure troppo prostrata dal solcare le strade di questo mondo da sessualizzata-donna con gli occhi aperti sulla mia/nostra condizione e su quella delle alterità, ma intanto il percorso suona (a volte) a ritmi che mi fanno amare la danza che iniziamo a passi vari. I love people’s faces, dice, ancora, Tempest: e le facce delle persone (non solo umane) sono lì da guardare, interrogare e amare, e con Angela preferisco innamorarmi di chi un volto già ce l’ha piuttosto che sognarne uno che ancora non c’è. E decido di prendere seriamente la proposta di Per farla finita con la famiglia di provare ad amare anche l’ambiente, gli ecosistemi, le simpoiesi che ci fanno e che facciamo, come nella fantascienza femminista&utopista per cui lo Spazio conquistato e la contraccezione vietata lasciano terreno alla proliferazione di relazioni multispecie, antirazziste e autodeterminate dove limite e desiderio non si ostacolano.
Con chi già c’è, seguendo la voce di Balzano, spero di poter respirare aria meno satura di particolati e salire su montagne i cui ghiacciai resistano, con più spazio per tutt* e meno spazio per le logiche&passioni che ci hanno portat* a vedere del nero nei referti delle lastre ai nostri polmoni e a nuotare nello stesso mare del Pacific Trash Vortex.
[1] Quando uso il collettivo “noi” penso a collettività complesse che vedono fianco a fianco ecologist*, transfemministe, gruppi anticapitalisti e animalisti, studios* engaged e indomit*. Ma penso anche all’incontro e allo scambio che sempre intesso con Angela Balzano, autrice del testo che vado a recensire e mia amata maestra.
[2] La fantascienza femminista di Octavia Butler presagiva il profilarsi dell’era della proliferazione di patogeni, e con lei le studiose del capitalismo avanzato tra cui ricordiamo la Cooper de La vita come plusvalore e la Braidotti de Il postumano.
[3] Si badi che, secondo la definizione adottata dall’ONU, si intendono come genocidi «gli atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso».
[4] https://www.facebook.com/la.mala.bologna/videos/840456433477380
Bibliografia
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