8.06.2001
“Les femmes de Platon à Derrida“, un’antologia curata da Françoise Collin, Evelyne Pisier e Eleni Varikas. Ovvero: come i filosofi hanno pensato se stessi e l’altra da sé. Ne parla Françoise Collin, protagonista del femminismo francese e fondatrice della rivista “Les Cahiers du Grif”, con un occhio alla tradizione e l’altro alle giovani generazioni femminili
Les femmes de Platon à Derrida (Plon, pp. 830, FF. 198) di Françoise Collin, Evelyne Pisier e Eleni Varikas è una corposa antologia critica che ha una prima notevole caratteristica, il gioco tra la sintesi estrema e la profusione dei materiali testuali. Sintetiche e efficaci sono infatti l’introduzione generale all’opera e le introduzioni alla scelta dei testi dei singoli autori. Nella prima vengono messe a fuoco le questioni che un’opera di tali dimensioni comporta – l’invisibilità della questione della differenza tra i sessi in filosofia, la necessità di compiere un’opera di recupero di testi e passaggi della tradizione filosofica in cui tale questione viene affrontata, la scelta del 1970 come data limite dell’indagine, “data che traduce simbolicamente una rottura nella presa in carico della questione dei sessi”, e infine l’indicazione dei limiti del progetto che non mira all’esaustività ma a mostrare la pertinenza dell’interrogazione rivolta ai testi.
Da questa posizione, precisa e autorevole, viene subito capovolto un luogo comune: nella tradizione filosofica il problema della differenza tra i sessi non è né assente, né marginale, né trattato solo da autori minori. L’invisibilità della questione è piuttosto data dalle scelte della tradizione universitaria ed è bastato, dicono le autrici, portare un nuovo sguardo su quelle stesse opere per far emergere un ambito esteso e diversificato della questione. E’ nelle singole introduzioni ai materiali testuali che questo sguardo si mostra in pratica e rende conto del sottotitolo dell’opera, che si presenta come un'”antologia critica”. Di ogni autore vengono offerti elementi biografici, teorici e, soprattutto, una messa in prospettiva della posizione che dai quei testi emerge, oltre ad alcune indicazioni bibliografiche per una sua lettura sessuata, da integrare con le oltre cento pagine della bibliografia finale. Da Guglielmo di Occam a Pierre Bayle, da David Hume a Cesare Beccaria, il libro offre numerose scoperte come base per ulteriori ricerche e riflessioni.
Di Les femmes de Platon à Derrida Françoise Collin, Evelyne Pisier e Eleni Varikas hanno discusso all’incontro “Teorie politiche sulle donne” organizzato giorni fa da Ginevra Conti Odorisio e Francesca Brezzi per i dipartimenti di Istituzioni politiche e di Filosofia all’Università di Roma Tre. E con Françoise Collin, filosofa e femminista dalla lunga storia – fondatrice della rivista “Cahiers du Grif” e autrice di numerosi testi filosofici, tra i quali Le différend des sexes e il saggio a partire da Hannah Arendt, L’homme est-il devenu superflu? – abbiamo parlato dell’antologia, dell’impostazione che ha guidato questo lavoro, della sua passione filosofica.
Nel testo c’è una tensione, tra il titolo dove si parla di “donne” e le prime righe dell’introduzione che partono dalla “differenza tra i sessi”…
Credo che il titolo dica quel che si legge nella filosofia, vale a dire le questioni che riguardano le donne e non la questione della differenza tra i sessi. Nell’introduzione e nelle pagine di commento a ogni scelta di testi utilizziamo l’espressione “differenza tra i sessi”, intendendo una differenza che si gioca tra uomini e donne, o tra i cosidetti uomini e le cosiddette donne. Mentre in filosofia si ha l’impressione che la differenza sessuale riguardi solo le donne, gli uomini non ne sarebbero implicati: quando parlano di qualcosa che attiene a quest’ordine si riferiscono alle sole donne, non arrivano mai a interrogarsi sul fatto che essi stessi sono differenti.
Voglio però fare una precisazione, che riguarda me personalmente – visto che siamo state in tre a lavorare sul libro -: talvolta nei filosofi si dà qualcosa di interessante, un’interrogazione sul loro desiderio. Il desiderio è qualcosa che pone dei problemi, soprattutto ai pensatori della modernità, perché non rientra nel dominio del razionale. Lo trovo in Kant, in Spinoza – filosofi non marginali ma centralissimi nella storia della filosofia. Spinoza, dopo aver dimostrato come secondo lui le donne vadano escluse dalla sfera pubblica, dice che forse gli uomini non possono desiderare che delle donne che tacciano. Kant dice altro: il desiderio contraddice il controllo razionale e nel rapporto sessuale ognuno si tratta e tratta l’altro come una cosa – è un punto interessante sul quale vorrei lavorare -, ma questo può risultare valido alla luce di un diritto reciproco: ci sarebbe una specie di contratto, in cui ognuno si impegna rispetto all’altra a entrare nella regione della cosa, nella regione della follia del desiderio, contratto che è valido solo nella misura in cui ognuno dei due lo autorizza. Penso che in questi filosofi ci siano, sulla questione del rapporto uomo-donna, passaggi molto interessanti.
Arriviamo così alla questione della misoginia: forse non vale più la pena di lavorare per confermare quanto misogini possano essere i filosofi, a meno che non si consideri la misoginia un indice della dinamica della differenza tra i sessi…
Penso che il termine misoginia sia troppo generale, troppo vago, e anche scontato: che nei filosofi c’è stata misoginia lo sappiamo. Quel che mi interessa in questo tipo di lavoro è vedere come, in ogni periodo e in ogni caso particolare, dispositivi diversi, diverse strategie, vengano utilizzati per interdire e insieme autorizzare le donne. Il gioco dell’affermare e dell’interdire è un gioco in costante movimento, da un’epoca all’altra, da un filosofo all’altro, e trovo assolutamente appassionante vedere come questo dispositivo si riorganizza nel tempo. Ad esempio per Fichte lo stupro va condannato in modo molto energico, ma d’altra parte le donne non devono avere accesso agli studi. Fatta eccezione per qualche idiota, i filosofi non sono mai in una posizione di interdizione totale rispetto alle donne, se ne fanno anche promotori e difensori, ma sempre sotto condizione: una condizione posta da loro, sono loro che decidono il lecito e l’illecito.
Si può allora dire che un pensiero sulla differenza tra i sessi è creazione delle donne?
Credo di sì. O meglio: era già presente nella psicoanalisi, che ha avuto il merito – per quanto si possa poi criticarne il fallocentrismo – di aver messo in rilievo la differenza dei sessi, di non aver denegato la sessuazione dell’essere umano. Ma il merito delle donne, del femminismo, è stato di aver fatto emergere la questione del sesso come differenza tra i sessi, produttiva cioè di effetti sugli uomini e sulle donne e sui loro rapporti, mostrando che gli uomini sono sessuati allo stesso titolo delle donne e che le donne non sono un’eccezione dell’universale degli uomini. Questo credo sia il contributo del pensiero femminista.
Nelle scelta dei testi e degli autori viene in primo piano una forte connessione tra filosofia e politica. Come appare questa connessione a uno sguardo sessuato?
Siamo in tre ad avere fatto questo libro e abbiamo percorsi, approcci e preoccupazioni molto diversi. Le mie due colleghe sono delle teoriche del politico, mentre io sono una filosofa “generalista”, per così dire. Sono più interessata a Kant che a Tocqueville e ritengo che la questione della differenza tra i sessi si possa trovare nell’insieme di una teoria filosofica e non solo là dove si pone la questione dell’inclusione delle donne nella sfera pubblica. Credo che per capire a fondo la questione del politico la si debba ricollocare nel quadro generale del pensiero e delle sue ramificazioni. Fra gli autori che abbiamo riunito nell’antologia ci sono filosofi del politico e altri che non si limitano alla questione del politico in senso stretto. Credo che per capire la questione dei sessi e delle donne si debba andare al di là di ciò che è tradizionalmente predefinito come teoria del politico. Ad esempio, credo che la questione del desiderio abbia un rapporto fondamentale con quel che trattiamo: se si pensa che il politico non abbia a che fare col desiderio si perde un anello cruciale. Come hanno fatto le femministe, bisogna ridefinire la questione del politico in termini più ampi, come questione generale del mondo comune, dell’essere umano, nella sua dimensione simbolica, giuridica, sessuale, teorica.
Un’ultima domanda. Nella politica delle donne siamo in un momento di passaggio nel femminismo, ci sono ora anche donne che non hanno vissuto il momento femminista degli anni settanta. Su un numero di “Fempress” dedicato al bilancio del Novecento, lei ha definito questo passaggio un'”eredità senza testamento”. Come si colloca il vostro libro rispetto a questo problema?
Penso che ognuna fa il proprio lavoro, fa muovere qualcosa con il proprio agire, in una determinata congiuntura com’è quella di una generazione, di un’epoca, e sono convinta che non possiamo governare gli effetti di questo nostro agire. Ho la vanità, la pretesa, di pensare che il movimento delle donne sia stato determinante nel definire la posta in gioco della fine del XX secolo e per il lavoro del XXI. Ma come si ritradurrà, come potrà essere ripreso dalla generazione successiva, questo non si può prevedere. Noi trasmettiamo quel che abbiamo fatto, i nostri strumenti di lavoro, il nostro pensiero, la nostra azione, ma vedo già che la nuova generazione li ritraduce in un altro modo. Talvolta mi posso deprimere un po’, pensando che quel che abbiamo fatto non viene ripreso, ma poi mi accorgo che questa ripresa ha “un andamento carsico” e che quando riemerge può essere in una direzione e in forme impreviste. Sono comunque abbastanza ottimista, quando guardo donne più giovani sono colpita dalla loro energia, dalla libertà con cui si muovono malgrado le difficoltà, un’energia e una libertà che prima del femminismo erano soffocate nella mia generazione. Di recente, tornando a casa da un convegno in cui molti sottolineavano i tempi di crisi e sostenevano che tutto va male, il che in un certo senso è anche vero, ho incontrato tre giovani donne piene di iniziativa, e ho pensato che se va male, per le donne non va poi così male. Le ragazze oggi non dico che non abbiano difficoltà, ma hanno diverse forme di immaginazione per tracciare il loro destino.
Avete pensato a questo libro nei termini di un passaggio alle donne successive?
Nel patrimonio del femminismo ci sono azioni – il fatto che abbiamo fondato e portato avanti i “Cahiers du Grif”, ad esempio – e pensiero. Sul piano della trasmissione, tengo più ai miei “testi di pensiero” in senso proprio che a un’opera come questa, che è stata un lavoro enorme ma con un altro tipo di obiettivo: un buono strumento, cui si può ricorrere per nuovi lavori. Questo non è pensiero, è una mossa preliminare: una messa a disposizione, con una proposta di lettura, più che la proposta di un pensiero.