LUISA MURARO, FELICITÀ – Fondazione Italianieuropei, 24.03.2011
È il tema della felicità ad aprire il ciclo di incontri sulle passioni della politica organizzato dalla Fondazione Italianieuropei e dal Centro Studi del Partito Democratico per riflettere su quel legame tra passioni e politica da cui è impossibile prescindere in un’analisi dei nodi del consenso e della partecipazione. Felicità, invidia, odio, paura, speranza: passioni come “umanità” nel politico, come insieme di emozioni, affetti e relazioni che non si dissimulano dietro il pragmatismo delle cifre e dei dati.
Nell’ambizioso tentativo di reimpostare le categorie tradizionali del pensiero politico moderno, dunque, il 24 marzo 2011 nella stanza del Mappamondo della Camera dei Deputati ci si è interrogati innanzitutto sul significato della felicità, come passione, come ricerca, come fine di un’azione politica e di un percorso individuale e, finalmente, della loro interconnessione.
Due gli interventi proposti dagli organizzatori, quello di Leonardo Becchetti e quello di Luisa Muraro; due gli approcci, uno economico e uno filosofico, inevitabilmente molto distanti tra loro.
Leonardo Becchetti, Ordinario di Economia politica, ha dimostrato come la felicità dei cittadini di uno Stato non si possa dedurre esclusivamente dal PIL (Prodotto Interno Lordo) poiché non solo la ricchezza non è sinonimo di benessere, ma non si tiene neanche conto delle modalità con cui questa ricchezza è redistribuita. Ad essere rimesso in discussione è, inoltre, tutto il sistema finanziario internazionale, che, con le frequenti crisi ha dato prova di essere fuori dal controllo degli organismi internazionali ad esso preposti, e il concetto stesso di “bene” che non può essere solo quello materiale poiché ambiente e salute sono fattori determinanti del vivere bene.
Non si riesce, tuttavia, ad andare oltre una concezione di felicità come “indicatore sintetico”, in un certo senso sinonimo di “soddisfazione”, e di un sistema che deve aspirare a massimizzare i profitti limitando l’uso, e lo spreco, delle risorse che invece dovrebbero essere rinnovate e rinnovabili. Quella proposta da Becchetti sembra essere la ricetta della felicità di un homo oeconomicus un po’ più saggio, un po’ cresciuto potremmo dire, ma che non è disposto a rinunciare a niente,coeteris paribus insomma.
Diverso l’intervento di Luisa Muraro (nel libro Al mercato della felicità, edito da Mondadori nel 2009 aveva già in parte affrontato l’argomento) che indaga il legame antico e controverso tra politica e felicità: antico perché si prendono le mosse dal mito della caverna di Platone; controverso “per il senso di dolorosa impotenza derivante dal desiderio di politica, di esserci, di partecipare, frustrato dalla consapevolezza della condizione umana”.
Nell’ultima parte del mito, Platone evidenzia la contrapposizione tra il desiderio del filosofo, che è quello di rimanere all’esterno nella contemplazione del bene, e il suo dovere, per la felicità degli altri, di ritornare nella caverna e far conoscere a tutti la verità. Tanto meglio che quella non sia la sua volontà, dice Socrate al filosofo restío, perché il migliore degli Stati è quello governato da colui che non ha desiderio di potere.
Afferma Simone Weil, continua la Muraro, che l’essenza dell’insegnamento di tutto il pensiero di Platone sta nel riconoscere l’impossibilità di desiderare la felicità per se stessa: la ricerca fine a se stessa è fuorviante, si intensifica e diventa ingannevole. È necessario dare una ragione, un senso a questa ricerca e tale ragione va al di sopra della natura umana, è la ragione del bene: questo sì, va cercato per se stesso e in assoluto.
Molti secoli, e almeno due passaggi fondamentali, intercorrono tra Platone e Simone Weil.
Il primo è rappresentato dalla rivoluzione cristiana, attuatasi nei primi due o tre secoli che seguono la diffusione del cristianesimo. L’idea filosofica della conoscenza del bene che rende felici, e che alcuni filosofi, primo fra tutti Seneca, riservavano a una ristretta élite, è ora ampliato a tutti. Chiunque, anche chi è distante dalla ricerca filosofica, può attingere alla felicità, al divino.
È la tradizione mistica, e in particolare quella femminile, a custodire quest’idea. Santa Teresa del Bambin Gesù, dottora della Chiesa, pur possedendo autentiche grandi ambizioni (vuole diventare una “santa da calendario”), non si scoraggia davanti alla scala di perfezione mistica e impetuosa degli antichi, ma afferma con stupefacente semplicità, di voler fare come i ricchi, di voler, cioè, prendere l’ascensore. È una santa popolarissima tra i fedeli cristiani, proprio perché c’è in lei l’offerta della felicità per tutti.
Il secondo passaggio, invece, è quello che riporta sulla Terra l’idea della felicità, non più promessa del paradiso e felicità ultraterrena: empirismo e utilitarismo si fanno carico di questo compito, fino alla Costituzione americana che afferma il diritto alla ricerca della felicità.
Luisa Muraro getta poi uno sguardo fuori dalla storia “alta” delle idee e parla della diffusione, soprattutto fra le donne del XIX e XX secolo, della letteratura amorosa: è emblematico, dice, il caso di Paolina Leopardi, che legge romanzi amorosi francesi, e di suo fratello Giacomo, appassionato di politica. La società borghese ha qui già operato la separazione dei sentimenti (desiderio d’amore, affetto) e li ha relegati alla vita privata, mettendo nella vita pubblica una sorta di pudore che ha dato vita a un teatro di compostezza e solennità, mettendo in secondo piano il bisogno della verità, e, meglio, della verità soggettiva.
Un bisogno che non fa che intensificarsi nella storia recente.
La critica femminista accusa la società patriarcale di questa separazione: il romanzo, allo stesso tempo politico e d’amore, di Madame La Fayette, La principessa di Clèves, è la dimostrazione di come l’estraneità alla realtà borghese (in questo caso il riferimento è all’aristocrazia francese) non separa, ma anzi mescola insieme sentimenti e politica.
Nicola Abbagnano, storico della filosofia, afferma che l’Europa non ha avuto abbastanza presente il tema della felicità come ha fatto, invece, il mondo anglosassone: basti pensare a Kant e alla sua idea che l’uomo virtuoso non è di questa Terra. Gli stessi grandi movimenti sociali del XX secolo, compreso il comunismo, si rifanno ai principi di giustizia e, qualche volta, di libertà, ma mai a quello della felicità.
Luciana Castellina ha intitolato il suo libro autobiografico La scoperta del mondo (edito da Nottetempo nel 2011), ma aveva ricevuto il suggerimento di intitolarlo Felicità, termine che, pur non comparendo nel testo, esprime le sue emozioni, i suoi sentimenti come militante femminista. Il ’68 è stato per molti un’esperienza di felicità anche se non l’hanno testimoniato e la parola si è persa.
Dal punto di vista teorico-pensante, il XX secolo rappresenta la sconfitta della passione politica della felicità. Il disagio della civiltà di Freud, opera in cui si consuma lo scacco nella ricerca della felicità, doveva inizialmente intitolarsi L’infelicità della civiltà. L’uomo si rende sempre più infelice perché si complica la vita cercando di rendersi più civile pensando di migliorarla.
Ma Freud, ci dice la Muraro, è un uomo assolutamente privo di passione politica ed è per questo motivo che non riesce a trovare il modo di rompere il circolo vizioso: non è una sconfitta oggettivamente vera, al contrario, è egli stesso a guidarlo. Le pretese individuali e le esigenze collettive non possono, in Freud, trovare conciliazione perché esse si combinano proprio nella passione politica.
Finiamo per cercare la felicità in beni di consumo, beni che non solo si consumano, ma consumano anche la nostra capacità di godimento. Si pensi, solo per fare qualche esempio, alla droga o allo sfruttamento sistematico che il nostro pianeta non è più in grado di sostenere.
Eppure i consumi sono un bisogno incoercibile dell’anima.
È necessario, tuttavia, abbandonare la forma mentis che ci fa ragionare sempre in termini di società, macchina oggettiva e oggettivante, concetto che nel XVIII secolo dilaga e diventa lo schema dominante.
Si dovrebbe, invece, provare a pensare in termini di apertura e mobilità delle relazioni: l’ordine simbolico della madre considera beni non solo quelli di consumo, e la loro circolazione nella forma dell’amore. Non solo, diventa qui fondamentale il riconoscimento dell’altro e del suo valore in un’esposizione soggettiva di sé che la fiducia rende possibile.
Fiducia e relazione sono i principi fondamentali per assicurare l’indipendenza dai processi di oggettivazione e di mercificazione; la stessa capacità di relazione deve essere considerato un bene.
La società, al contrario, è un rapporto di forza, una macchina costrittiva.
C’è un altro approccio, conclude Luisa Muraro, cui si può fare riferimento: la rivoluzione femminista, che nasce nell’atto di uno sbilanciamento, il contrario della parità.
Il proposito è qui proprio quello di partire da sé: la soggettivazione contro l’oggettivazione genera la felicità. Nasce dal senso che la vita acquisisce: indipendente, che non può cambiare senza la soggettività. Per opporsi all’oggettivazione, bisogna staccarsi dalla modernità o, almeno, da quell’idea di modernità che si identifica nella separazione tra amore e politica e in questo modo, attraverso lo spazio concesso alla soggettività, rispondere alla richiesta di protagonismo.
Report a cura di Agnese Pro