Di seguito gli elaborati degli incontri, realizzati con Aïda Djoupa, studentessa Erasmus francese.
3.03
«Sesso, genere, relazione »
Si è detto che alle parole chiave che danno il nome agli incontri non deve essere attribuita una sola definizione. Lo scopo del laboratorio è di mettere in gioco le differenti parole chiave tra loro e tra situazioni diverse. Tre parole, per rompere la dicotomia tra le prime due.
Partiamo dal punto dove, con la frase di Rancière, sesso, genere e relazioni sono “nomi della storia”. Nei diversi periodi storici alcune tensioni fanno emergere una parola rispetto a un’altra: le definizioni corrispondono a un periodo storico determinato, ma una parola può anche essere dimenticata. Per questo si trovano alcune parole che risuonano in maniera molto chiara (come “olocausto”) perché la parola e il suo significato sono trasmessi alla generazione successiva. Ci sono altri termini che sono invece più lontani dal nostro parlare e che hanno meno senso oggi (esempio:“tribuni “, “commune de Paris”…).
La parola “sesso” è stata utilizzata verso la fine della prima metà del Novecento e corrisponde a una dimensione psicologica, sociale.
La prima autrice che si prende qui in considerazione rispetto al sesso è Simone de Beauvoir. Secondo lei ci sono diversi modi di trattare questo termine: questa parola funziona come uno stigma, un marchio infamante. È una caratterizzazione supplementare che non tutti gli esseri umani ricevono. Per esempio gli uomini non sono mai “rappresentanti del loro sesso”: non c’è bisogno di precisare il loro sesso, di caratterizzarlo. Invece, per le donne, si deve sempre aggiungere il loro sesso nel discorso. Infatti, il senso comune comporta una forza d’inerzia.
Per Beauvoir solamente gli uomini possono svilupparsi del tutto e avere una vita piena. Al contrario, le donne vivono in uno stadio d’infantilismo. La problematica non è solamente giuridica (per esempio, il voto d’obbedienza della moglie al suo marito), ma c’è anche un problema di mancanza di piena espressione che genera un’immaturità.
Abbiamo detto che il sesso è l’attributo esclusivo delle donne. A ciò possiamo aggiungere che le donne sono considerate come dipendenti dalla biologia. Però all’interno di alcune correnti filosofiche, in particolare da Aristotele e Arendt, si trova l’idea che l’essere umano sviluppato è colui che si distacca dai bisogni del corpo. Quindi egli deve costruire una serie d’istituzioni per non farsi governare dal corpo. Tutto ciò comporta, come conseguenza, delegare le attività “basse” alle donne. Laddove le donne si occupano dei bisogni primari, gli uomini si dedicano a interessi intellettuali e ad attività sociali. Perciò la donna rimane nella sfera dell’oikos, lo spazio domestico, che comporta la ripetizione dei compiti bassi.
La sessualità degli uomini è considerata come un bisogno che si consuma. La pulsione sessuale si libera sull’oggetto che la soddisfa e in questo modo il soggetto si libera dalla pulsione. Però la donna è sempre oggetto del soddisfacimento del soggetto che si soddisfa: in questo senso, è il « secondo sesso ». Beauvoir non si limita a denunciare, ma trae anche delle implicazioni psicologiche.
Osserva, infatti, come questa situazione configuri nel profondo le donne, tanto che per prime queste non sono nemmeno in grado di immaginare la propria libertà. Ciò fa sì che anche loro si comportino in modo da perpetuare la dipendenza. Ma essere seduttiva non è più considerato necessario per una donna una volta arrivata alla terza età: essere anziane è liberatorio, afferma Beauvoir. Si può trovare libertà nel non essere piacente.
Inoltre abbiamo detto che per emanciparsi non si può essere “rappresentante del proprio sesso”: essere e sentirsi tale comporta la fine della possibilità di essere esseri umani in senso pieno. C’è allora bisogno di pensarsi eccezione rispetto al proprio sesso. Le altre donne diventano allora nemiche, rivali.
Negli anni Settanta, epoca della rivoluzione sessuale, si mette in questione la vergogna attorno alla parola “sesso”, che qui è sessualità.
Si tratta dunque di liberarsi dal senso del pudore. Nel frattempo per la psicoanalisi la sessualità e il desiderio sono interpretati e trattati come energia vitale, che, secondo il modo in cui è sprigionata, può concorrere al benessere o al presentarsi di una malattia nell’essere umano: è con questa idea che ha inizio il trattamento medico della sessualità femminile.
Nel 1953, il rapporto Kinsey sulla sessualità femminile riporta per la prima volta casi di frigidità femminile e rivela che le donne non hanno un rapporto con il sesso in funzione del piacere, ma che vi si approcciano per ragioni culturali, “intellettuali” in un certo senso. C’è anche da considerare che, fino a questo momento, l’assenza di piacere corporale era considerata come una virtù: il controllo dei corpi era dominio della Chiesa. Però la virtù diventa presto frigidità: un disturbo, un’anormalità, una patologia. Per questo motivo diventa d’interesse medico.
Sull’aspetto normale/malato della sessualità femminile, troviamo a un estremo la frigidità, dove non c’è alcun piacere nell’atto sessuale, e all’altro estremo l’isteria, che è un’eccedenza di energia sessuale, di creatività, che la donna non riesce a esprimere.
Lo schema, l’idea ricorrente, comunque, è che mai posso essere in grado, come donna, di sapere se il mio corpo funziona o no: è sempre qualcun altro a dirlo per me. Così, mettersi in una condizione d’indipendenza sembra equivalere al mettersi in condizione di sapere. Non si tratta di essere informate, bensì di diventare indipendenti dal sapere attuale. L’autocoscienza si può solamente raggiungere con altre donne: io posso sapere qualcosa in più su me stessa solo confrontandomi con un’altra donna. Quando cominciano a raccogliersi, a relazionarsi, le donne non solo escono dalla loro condizione di isolamento, ma si liberano anche del peso della malattia, in quanto, come condizione condivisa, comincia a configurarsi piuttosto come qualcosa che viene considerata un’anomalia perché non compresa (comprendere nel duplice significato di “contenere” e “riconoscere”, “intendere”) dalla narrazione storica e dalla cultura, come se non le fosse stato dato spazio all’interno di questa.
(Cf:[Lonzi C.], (1978), Sputiamo su Hegel. Donna vaginale e donna clitoridea, Milano, Rivolta Femminile)
Il termine “genere” è servito ad aprire un campo di studi all’università in un momento di diminuzione di energia conflittuale. Ha introdotto come oggetto di studio ciò che le donne hanno scoperto. Una delle pioniere in questo campo è stata Joan Scott, la quale si è interrogata sul significato dei termini “donna” e “uomo”, scoprendo che sono categorie sociali, determinanti nella divisione del lavoro, che cambiano nel momento in cui si osservano società ed epoche diverse.
Nel caso di Scott non dunque non si parla più di sesso o sessualità, ma di attività sociali e di organizzazione della società.
Il termine “gender” è diventato nelle mani dei lettori di Scott sinonimo di “studi delle donne”, per rispondere a un’urgenza d’esclusione delle donne dalla storia (cf. Simone de Beauvoir: « la società trasmette che le donne non hanno fatto niente »), ma non era questo il primo obiettivo degli studi di genere.
Un secondo senso di si può trovare invece in Judith Butler, nel suo saggio Gender Trouble. Butler introduce la parola “queer”, ed entra in polemica con Joan Scott: secondo Butler, quando Scott dice che la società attribuisce nomi che corrispondono ad attività economiche, dimentica gli individui che non fanno parte di uno o dell’altro gruppo. In altri termini, Scott rende invisibili le persone che rifiutano le caratteristiche di quella sistematizzazione. Butler rovescia la questione: il “gender” è una socializzazione forzata che fa male. Se voglio essere o comportarmi come qualcosa che non è né uomo né donna, l’unica possibilità che ho è chiamarmi comunque uomo o donna e aggiungere la parola “malato/a”.
10.03
« Natura, cultura, artificio »
Natura e cultura, coppia di concetti tradizionalmente oppositivi è una dicotomia ancora molto presente nel sentire comune. Può forse aver influito sul nostro modo di pensare oggi il fatto che un tempo siano stati due domini ai quali appartenevano oggetti di studio ben distinti?
Oggi, anche se la distinzione tra scienze dure e discipline umanistiche non sembra più così netta, la divisione persiste e si tende a considerare ciò che fa parte del naturale come qualcosa di immodificabile. Come qualcosa sul quale l’essere umano non ha potere di intervenire o nel caso ce l’abbia, una cosa sulla quale è delicato intervenire. Mentre sembra che sul dato culturale si possa più facilmente metter mano.
A volte si è soliti considerare naturale semplicemente ciò che è diventato la norma. Spesso accade di dare qualcosa come naturale e, in quanto tale, di non interrogarlo più e renderlo una base sulla quale formulare i nostri giudizi sul mondo; giudizi che, inseriti in un contesto di rapporti incoraggiano, giustificano, legittimano, alcuni atteggiamenti, alcune forze rispetto ad altre. Sembrano perciò esserci anche delle conseguenze politiche. Si crea in questo modo un meccanismo capace di spingere le anomalie verso la norma.
Chi detiene il potere è in grado di stabilire la norma e costruire un discorso culturale che ha una risonanza. Chi non si adegua cerca di costruire una contro-narrazione, se non si sente compreso, riconosciuto come essere umano. Infatti chi governa è anche chi sviluppa una narrazione e impone un modello di umanità al quale attenersi.
Ogni cultura dunque elabora una sua idea di essere umano, che intervene anche sul corpo, in modi diversi.
Uno dei primi modi in cui la nostra società interviene sul corpo è la definizione del genere, dell’identità sessuale, la quale deve essere storicizzata: i lavori di Margaret Mid, ha colto la natura variabile del temperamento maschile o femminile, che fino ad allora era stato considerato come dato naturale. Ciascuna società ha dei suoi modelli di uomo e di donna. Il genere è dunque una cosa culturale.
Nel discorso filosofico, nel quale prevale il dualismo, il corpo è sempre associato a la materia inerte, che non si fa mai pensiero: l’abbiamo in comune con gli animali, dipende della natura. È nella sfera della ragione che invece si raggiunge la libertà.
Ma tutti gli aggettivi dati alla materia inerte sono stati attribuiti al genere femminile. Allora si presentano due ordini di questioni: come possiamo produrre concetti che spezzino il determinismo associato all’elemento biologico? E poi, come ripensare il mondo?
Nelle arti performative troviamo nuovi modi di pensare il corpo vivo. Anche i progressi della tecnologia ci forzano a concepire la materia in maniera diversa: come pensarci quando la macchina si fa corpo? (nelle scienze mediche, ma anche nelle tecnologie di comunicazione, con i dispositivi miniaturizzati, etc…). Questa urgenza di ripensare la materia, il corpo, porta anche a ripensare il genere.
17.03
“Tradizione, memoria, oblio”
L’idea di questa lezione è che esiste un’ambivalenza tra tradizione e memoria nella politica istituzionale.
Nel nostro sistema politico possiamo dire che le istituzioni si fanno carico della storia. La concezione politica attuale vede la tradizione e la storia come due dimensioni che gravano sull’individuo, che deve essere il più libero possibile. È necessario che l’individuo si focalizzi sul presente. Questo modo di concepire la storia è un’eredità dell’idea di democrazia che abbiamo scelto di riprodurre: la democrazia ateniese.
Per trattare questo soggetto facciamo riferimento all’opera di Nicole Loraux. Secondo Loraux la polis è uno spazio maschile che deve essere omogeneo. In questo spazio tutti gli uomini (che sono i soggetti politici) sono fratelli uguali. Così il logos e la razionalità si possono sviluppare in armonia.
Però questo schema non può esistere senza l’altro versante: l’escluso. Le persone “diverse” rompono l’armonia e allora devono essere messe da parte per permettere il funzionamento sostenibile del sistema democratico. Nella polis ci sono due modi del conflitto: il polemos, la guerra esterna, che rende immortale la polis e che ha a che fare con l’onore, la gloria e per questo è riservata alla sfera politica. Invece la stasis è il conflitto civile interno alla polis. Quest’ultimo porta disordine e disturbo ed è considerato come fratricida, come una rottura dell’armonia ed è sempre associato alla figura femminile, che si trova esclusa dalla sfera politica. Questo escluso è giustificato per diversi fattori, primo fra i quali il sesso biologico.
Per l’uomo antico, la pratica politica comporta l’abbandono del proprio rapporto con il corpo, l’oblio di ciò che è biologico, in particolare della morte, per essere più efficiente nel gestire il presente.
Però le donne non hanno accesso all’oblio, perché, in quanto sono incaricate della riproduzione e partoriscono, non possono dimenticare la morte. Ma non è solamente la morte che le donne non sanno dimenticare. Infatti la figura della donna è anche legata alla memoria: il tempio della madre, ad Atene è anche il tempio del quale le donne sono custodi.
Memoria è anche memoria del conflitto. Le donne, in questo caso, sono dunque le custodi della memoria del conflitto interno, la stasis, e rappresentano un pericolo per la polis, perché sono in possesso degli elementi di disturbo. Nella polis ateniese l’oblio è una virtù, una necessità per mantenere l’armonia.
La memoria del conflitto invece permette al conflitto di ripresentarsi. Ci troviamo dunque di fronte a un dualismo tra uomo libero e motore dell’armonia e donna custode della memoria e quindi della violenza, del conflitto e della follia, che era presente alla stasis.
Possiamo dire che il luogo comune che oggi attribuisce alla donna la memoria e quindi il rancore può essere chiarito guardando a questa lettura. In uno spazio dove gli uomini sono tutti fratelli uguali, il rancore è disfunzionale. Le donne invece sono abituate a considerarsi in competizione per l’attenzione degli uomini e a considerarsi rivali. In queste dinamiche l’oblio non è necessario, perché il conflitto tra le une e le altre è già in atto.
24.03
“Autodeterminazione, liberazione, empowerment”
In questa lezione proviamo ad assumere le prospettive dei corpi, esaminando l’accezione di empowerment, l’unità mente-corpo e natura-cultura, e l’antico sodalizio tra femminismi e pratiche marziali non militaristiche.
Il termine empowerment deriva da to empower che in italiano significa “conferire o attribuire poteri”, “mettere in grado di”, “dare autorità a”, “accrescere in potere”. Con riferimento alla condizione della donna, il termine definisce un processo destinato a modificare le relazioni di potere nei diversi contesti del vivere sociale e personale. Fare in modo che le donne siano ascoltate, che le loro conoscenze ed esperienze vengano riconosciute.
Che il corpo di una donna sia un corpo “debole” è assunto radicato nel senso comune, ma la femminilità non esclude la dimensione della lotta. Culturalmente il corpo femminile è il corpo della cura, che è diventato il “compito naturale” della donna, poiché il suo corpo è considerato come biologicamente inadatto a praticare l’esercizio della forza e in particolare del combattimento, che sembra una cosa “da uomini”, nel senso comune. Vengono dunque presentate come due dimensioni inconciliabili.
Ci sono, storicamente, esempi diversi di pratiche marziali femminili. Queste pratiche devono essere distinte dall’autodifesa, che sembra un concetto depotenziante: c’è l’idea che se non c’è un motivo valido, non si è autorizzate a utilizzare la propria forza, ma la validità è sempre una cosa viene valutata da qualcun altro.
Edith Garrud, attivista nel movimento delle Suffragettes, propone al movimento di praticare il ju-jitsu per una diversa gestione del corpo in piazza. Diventa uno strumento di scoperta di sé e del proprio corpo. Alla violenza non si risponde con un pacifismo, ma con un modo diverso di usare la forza per farsi valere.
La Gulabi Gang è il più grande movimento di donne su base nazionale esistente attualmente al mondo. Fondato nell’anno 2006, ha come primo obiettivo l’empowerment. Questo gruppo di donne inizia ad usare il bastone tradizionale dei caprai, il lathi, come arma.
Il wen-do, la via delle donne, è un modo di difesa fisico che ha l’obiettivo di offrire alle donne tecniche e strategie per affrontare, prevenire o gestire situazioni di violenza o maltrattamento, accompagnandole in un percorso di riflessione sulla violenza.
Così vediamo che l’empowerment femminile si attua in modi diversi, anche nell’uso della forza come processo di scoperta del proprio corpo e modo di defesa. Ma non si può anticipare ciò che è scopero nell’esperienza: l’insistenza di tutte queste donne è sulla pratica. Non sono donne che scimmiottano le pratiche di allenamento maschile.
Se l’empowerment ha un contenuto misurabile, le due altre parole, “autodeterminazione” e “liberazione” non hanno contenuto: parlano di possibilità. Nella sua terminologia, l’empowerment ha un rapporto con il potere. Invece, il femminismo della liberazione e dell’autodeterminazione ampliano il fronte del possibile e indagano il potere come elemento relazionale. Nel pensiero femminista il termine “autodeterminazione” ha significato poter prendere delle decisioni riprendendo il controllo sul proprio corpo.
Questo mi ha fatto pensare che spesso le donne che lottano, invece di essere prese seriamente, suscitano sorriso. Soprattutto due donne che lottano fra loro, che è un qualcosa che rientra sempre in qualche modo nell’ordine delle “donne nemiche”. Mi richiama l’immagine di uno show al quale si assiste da una posizione sicura, come fosse uno spettacolo al quale però solo una parte può assistere. Mi è capitato di osservarlo in molte occasioni.
31.03
“Autocoscienza, soggettività, agency”
Iniziamo con la parola “soggettività”. Questo termine è fondamentale nel periodo storico esaminato: il femminismo degli anni Settanta in Italia. Pone una differenza tra femminismo di prima e di seconda ondata. La prima ondata del femminismo è principalmente emancipativa. L’obiettivo principale è la parità con il mondo maschile con l’acquisizione di diritti.
Nella seconda ondata invece non è più la parità questione principale, ma l’affermazione di una differenza femminile. Per questo è anche detto femminismo della differenza.
“Soggettività” è un termine che viene usato in contrapposizione al “soggetto”, che nella cultura occidentale è sempre stato un soggetto maschile. La soggettività non è il soggetto cartesiano, che nasce da una narrazione solitaria e si impone come un processo valido per tutti e che delinea un soggetto universale, completo e costituito. Al contrario la soggettività non nasce da uno spirito metafisico, né da una spinta a creare una normatività politica, bensì da un’analisi di una condizione concreta di oppressione. Si basa anche sulla consapevolezza che non è possibile creare una teoria sul soggetto se non lo si esamina all’interno della realtà delle relazioni in cui si trova. Inoltre la narrazione femminista non ha la pretesa di essere narrazione universale: ogni donna deve fare il suo percorso in maniera personale per arrivare alla soggettività, all’autocoscienza.
Dunque soggettività significa riconoscimento di condizionamenti e capacità di agire una sovranità su sé stessi e sulla propria vita.
L’autocoscienza è la pratica peculiare del femminismo degli anni Settanta. Molte donne in questo periodo si distaccano dai gruppi politici di cui fanno parte per formare gruppi di sole donne. Inizialmente piccoli gruppi ai quali non viene dato grande valore dal punto di vista politico. Il separatismo viene attuato in un primo momento negli Stati Uniti a metà degli anni Sessanta, nell’ambito della lotta afroamericana per i diritti e arriva in Italia dal Sessantotto in poi, dopo la visita di alcune donne italiane negli USA. Dal Settanta l’autocoscienza è diffusissima e praticata da molti gruppi, di cui il più famoso è Rivolta Femminile, fondato da Carla Lonzi, fino al Settantaquattro, quando la pratica conosce un declino, forse soprattutto per il ritorno di forme di rivendicazionismo, che prendono piede con la ripresa della lotta politica nazionale delle donne per la legge sull’aborto (quando si parla di rivendicazioni di diritti il femminismo si avvicina molto alle istituzioni).
Lonzi e Rivolta Femminile si oppongono a questa tendenza: rimangono convinte della necessità dell’autocoscienza, rifiutando la rivendicazione di diritti e l’utilizzo della cultura maschile in ogni sua forma nella pratica di soggettivazione femminista. Per questo Lonzi non vede di buon occhio la pratica dell’inconscio, praticata da altri – anche se da pochi altri – gruppi a Milano: la psicanalisi è una delle maggiori espressioni della cultura maschile.
Il termine “autocoscienza” è scelto proprio da Carla Lonzi, che lo riprende da Hegel. Lonzi si interessa molto alla sua filosofia, ma considera il suo pensiero una delle insidie maggiori per la soggettività femminile.
Per Hegel il soggetto umano è in grado di concentrarsi su di sé, di fare introspezione: quando lo fa la coscienza diventa autocoscienza. In questo processo è fondamentale un riconoscimento dell’altro. Non è qualcosa che può avvenire nel solipsismo. Nel femminismo diventa la pratica di raccontarsi, fra donne, a partire dalla propria esperienza, cercando di individuare nella propria vita personale, attraverso il riscontro – talvolta anche lo scontro – con le altre, quali sono i punti importanti, che parlano di problemi più grandi, di questioni del presente che vanno oltre il privato. Parlare di ciò che è personale in modo politico. Solo in questo modo, per Lonzi, la donna può rompere con la cultura maschile e riprendere controllo sulla propria vita.
L’autocoscienza è una pratica politica perché ha una capacità trasformativa. Il parlare trasforma le vite. È proprio focalizzandosi su questo importante ruolo del linguaggio che si comincia a parlare di agency.
L’idea di agency nasce nella produzione anglofona, particolarmente da Judith Butler, per la quale il linguaggio è un’azione. L’agency è l’idea che siamo attori sociali, in quanto essere parlanti. Già nel parlare sociale accadono e prendono forma le nostre vite. Butler analizza l’agency da un punto di vista critico, per cercare di svelare il dominio esercitato dal discorso pubblico sull’espressione dei singoli.
Ma l’agency può anche avere un valore positivo ed essere uno strumento per noi, grazie alla sua capacità trasformativa: la parola può liberare energie.
7.04
« Giustizia, diritto, diritti »
Il Femminismo giuridico ha per progetto di cambiare alla radice la struttura stessa del diritto.
Concepisce le donne come soggetto e oggetto di diritto, ma anche in due modi diversi:
Come un gruppo sociale omogeneo (tutte le donne) oppure come status: casi particolari (studentessa, lavoratrice, madre, etc…).
La Dichiarazione della donna e della cittadina di Olympe de Gouge è uno dei testi fondatori del femminismo giuridico. Nel Settecento e nell’Ottocento, si creano movimenti attorno all’emancipazione. C’è un’idea di universalismo già praticato e proiettato dal potere maschile.
Piu tardi prende invece piede un femminismo liberale, con un approcio socialista o marxista al diritto.
Nel Novecento c’è una moltiplicazione dei diritti sociali e politici e ci si occupa maggiormente di tematiche relative a diritti che sono propriamente diritti delle donne, quali l’aborto e la contraccezione: il vuoto legislativo può essere un’opportunità di libertà per le donne. Nasce anche l’azione positiva (affirmative action) in Italia e tutta l’Europa, che ha come obiettivo quello di promuovere e di ristabilire principi di equità contro la discriminazione.
Il diritto non è facilmente separabile dalla giustizia o dalla morale: sono tenuti insieme. Il femminismo, nella sua riflessione sulle norme in atto e sulla produzione intellettuale di norme è allora molto interessato a criticare il diritto: esiste una nozione di giustizia da parte femminista.
Le differenze tra diritto e diritti (che sono legati direttamente alla concezione de “Le donne” come gruppo sociale o come status) danno anche la nascita a dibattiti diversi sulla concezione di giustizia. Per esempio l’approcio culturalista ai diritti (“diritti delle differenze”, che hanno a che fare con lo status) difende l’idea che sia indispensabile riconoscere dei diritti particolari, perché non è possibile essere giusto negando le differenze sociali tra gli individui. La giustizia non può fare solamente riferimento al paradigma distributivo e a un’idea d’ugualianza centrata solo sul lavoro.
Dall’altra parte, particolarmente da Nancy Fraser, è difesa invece l’idea che la giustizia deve favorire l’uguaglianza sociale e finanziaria per una ridistribuzione economica più equa. Allora le differenze giocano un ruolo minore.
Questo dibattito produce qualche problema, perché la nozione di giustizia di genere è molto cambiata negli ultimi tempi. Inoltre nel mondo capitalistico, gli espedienti per ottenere l’uguaglianza (ex: Gender Index) sono sempre sfruttati come strumenti economici, in modo che sia possibile trarre il massimo del profitto economico dalle differenze e dalle identità sociali. In questo modo queste perdono il loro potere conflittuale, critico, che è occasione per un cambiamento.
C’è tuttavia un’altra possibilità per pensare la giustizia e il diritto. Se partiamo dal principio che il diritto non deve mai essere sganciato dalla società e dalla politica e che lo possiamo pensare, con la giustizia, come esperienza, allora è possibile concepire un’idea valutativa del diritto: questo è il punto di vista di Silvia Niccolai, che recupera l’idea valutativa del diritto che si relaziona alla società tramite la dottrina dell’esperienza giuridica.
Secondo lei le leggi non descrivono quello che è giusto o morale, ma solamente quello che è legittimo. Il diritto ha una storicità, spesso dimenticata. È un processo dinamico che la controversia nella società fa muovere. L’emersione di nuove valutazioni a poco a poco trasformano il diritto, che non è scritto nella pietra, immutabile. Attraverso le teorie dell’esperienza giuridica e l’interpretazione giuridica il diritto può essere cambiato.
Le esigenze del governo tendono per definizione a espropriare l’esperienza. Per esempio ai medici è imposto per decreto il numero di esami che possono prescrivere ai pazienti, nonostante la loro pratica o il rapporto col paziente suggerisca loro di fare altrimenti.
Per questo è importante che il diritto non si risolva mai nella sola auctoritas, ma che si conservi anche come esperienza: se tutto il diritto si risolve nelle volontà del legislatore poi non si riescono a trovare i limiti per riportarlo alla ragione.
In epoca moderna avviene la codificazione e si afferma il diritto come auctoritas. Il diritto posto dal legislatore riformula però sempre i principi generali, le regulae iuris (nel nostro diritto c’è ancora il principio mater semper certa). È una base che è rimasta solida nel tempo.
Oggi viviamo un fenomeno particolare: sembra che il legislatore si tenga sempre meno attaccato alla tradizione del sapere giuridico come sua fonte principale e sembra guardare ad altri saperi, come l’economia, la psicologia sociale…
È comprensibile che ciò avvenga, perché il diritto si porta dietro un’immagine della convivenza umana e della ragione: il diritto come esperienza sa di occuparsi del discutibile, del dinamico. Ci dice dunque in qualche modo anche che tutte le cose umane possono essere pensate e fatte altrimenti e che non c’è un modo univoco di guardarle. E i nostri tempi non sono amici di una ragione del genere.
Il diritto come esperienza nasce intorno alla controversia e si occupa di ripristinare l’equilibrio violato dal torto. Questo vuol dire che al centro del diritto c’è la questione dell’abuso (della comunicazione, della riparazione, della parola). A muovere il diritto come esperienza è anche la norma di riconoscimento, strettamente legata al concetto di equità, la quale consiste nel dare “a ciascuno il suo” secondo la natura della cosa; molto diverso dal concetto di uguaglianza di fronte alla legge, precetto del diritto come autorità.
Nel rapporto tra giudice e legislatore compito del secondo è fare le norme. Il giudice invece dovrebbe mitigare le conseguenze ingiuste della legge quando questa non rispetta il caso, la natura della cosa. Quindi dovrebbe in parte esercitare un’autonomia rispetto alle regole imposte.
Però la dialettica giudice-legislatore non è possibile in un contesto in cui il diritto è inteso come volontà del legislatore: in questo caso è strutturale la confusione tra i due ruoli, poiché il giudice è abituato a dover risalire ad una norma astratta, generale, seriale. La confusione tra i due ruoli è il motivo per il quale esistono le liti strategiche. Infatti queste si appellano ad una legge come auctoritas e a loro volta chiedono al giudice di attivare il meccanismo della serialità, dell’uguaglianza davanti alla legge. Solo distinguendo i due ruoli si può recuperare la dimensione sociale della giustizia.
Il principio mater semper certa si basa sulla differenza sessuale. È un principio sessuato, che fin ora ha retto la filiazione in Italia. Anche se questo principio in passato liberava l’uomo da molte responsabilità, oggi dà alle donne una certa libertà e autorevolezza. Nella logica del diritto come esperienza non è necessario mettere via questo principio. Non serve alle donne lesbiche, che per essere riconosciute come coppia di genitori potrebbero lavorare sull’idea che il secondo genitore è sociale e viene riconosciuto dalla donna che partorisce. Farebbero eccezione due genitori maschi omosessuali, ma si può trovare un’altra regola da far valere in questo caso, senza abbattere questo principio. Il rischio che si corre altrimenti, se si afferma che la condizione per essere genitore è avere un progetto di genitorialità a due in cui uno dei due è genitore genetico, è che si perde la possibilità di esplorare e risignificare il ruolo delle donne nella generazione e che ci ritorni un tipo di famiglia che sembra totalmente nuovo, ma che in realtà rimarrebbe di stampo patriarcale. Una famiglia che sfrutta il ruolo generativo della donna, che non può più nemmeno dominarlo. La famiglia in fondo si fonderebbe così ancora sul seme, sulla stirpe. Si ha un’innovazione, ma non un mutamento qualitativo, che mai si può ottenere nel diritto come auctoritas.
21.04
“Affettività, sessualità, parentela”
La relazione di coppia è concepita come la più importante nella sfera dell’affettività. Per questo chi non vive una relazione di coppia è sempre considerato un non ancora. Ma cos’è la coppia? Quest’idea comporta una normatività: la coppia “normale” è un rapporto sentimentale a due, dove molto spesso si tenta di essere monogami e in cui si pensa di dover soddisfare la quasi totalità dei bisogni dell’altro. È una forma di relazione naturalizzata, considerata come l’espressione del rapporto d’amore. Questo dà una serie di diritti e di legittimità al livello sociale, ma è anche un dover essere, un modello per l’azione e per il pensiero. In qualche modo è imposta dalla coppia “normale” e dalla normatività della relazione una sorta di eterosessualità obbligatoria. Tuttavia, ci sono anche altri tipi di relazioni, altre forme di intimità che emergono dalle pratiche sociali del vivere insieme.
Questa normatività della relazione ha anche diverse conseguenze sull’individuo. La donna, per esempio, a livello corporale, è capace di procreare. Per questo è stata considerata un essere con un destino biologico determinato (che fino agli ultimi tempi necessitava di essere in una relazione eterosessuale). Per uscire da questo determinismo, è necessario riappropriarsi della propria corporalità. Anche la sessualità come studiata da Foucault è incastrata in un dispositivo del potere e serve come elemento unificante, che si può desiderare sempre in modo conveniente al potere.
La parentela si trova in questo rapporto di potere che Foucault chiama biopolitico: la maternità, per esempio, non ha sempre fatto parte della medicina. Con il progresso della scienza, le tecniche mediche occupano uno spazio più grande che deve essere regolato. Regolazione del corpo femminile.
Riguardo alla sessualità, la parola è passata dal campo dell’intimità a quello della lotta politica, soprattutto nell’analisi delle femministe, ma anche nel campo estetico. Con queste analisi, possiamo passare da una teoria moderna della sessualità come luogo privato dei conflitti interiori a una teoria delle relazioni tra corpi sessualmente marcati.
La sessualità è anche un processo d’identificazione, che si fa in contrasto o in affinità con le identità già preconfezionate, possibili. C’è da dire però che identificarsi, in una pratica o in un personaggio, è un fatto politico. L’idea del sé che si costruisce con queste modalità è sociale. Il corpo ci appare tra codici di rappresentazione sociali, filtrato da una norma.
Il modo delle donne di identificarsi, anche se siamo tutte fatte diversamente, è quello dei corpi che hanno una marcatura: il corpo marcato ha un significato sociale immerso. Marcata è un certo tipo di relazione che la società riconosce e alla quale si attacca un sistema di istituzione, regole, riti di passagio, norme. Invece il corpo non marcato sta in relazioni che non sono riconoscibili nell’ordine dato, sono relazioni in cui la norma che permette il riconoscimento deve ancora essere inventata.
La teoria femminista mette in luce il fatto che il corpo della donna è identificato, soprattutto nel cinema, come un corpo di madre, e quindi che la donna tende a inserirsi sempre nell’eteronormatività che fa nascere i concetti di uomo e di donna. Ma idealizzarsi è sempre più facile che identificarsi. Guardando all’analisi di Silverman dei testi di Lacan, si può vedere che l’idealizzazione di sé è anche un processo ricorrente e che è fonte di piacere. Idealizzarsi all’interno di una struttura eteronormativa con rapporti simbolici e identificarsi nella figura “forte” della relazione eterosessuale (il maschile) è piacevole. Così le donne identificano sé stesse in certe figure maschili, anche se il contrario non accade di frequente.
In conclusione posso dire che molti degli argomenti trattati, sono stati per me quasi completamente nuovi. L’ambiente è stato stimolante. Ho trovato spesso occasione, nel corso dei due mesi, di parlare anche all’esterno, in vari tipi di occasioni. Gli incontri del laboratorio, insieme ad altri corsi che quest’anno sto seguendo all’università e ad altre esperienze, stanno intervenendo in un cambiamento nel mio approccio alla dimensione del conflitto, verso la quale nutrivo già una certa curiosità. Hanno come contribuito a un cambio di paradigma.
Ci sono diversi temi che mi piacerebbe aver occasione di approfondire. Fra questi le strategie che si possono adottare in una lotta politica; le modalità di divulgare questo tipo di sapere (anche pensare a come interviene il linguaggio in questo); la relazione controversa che la storia, la tradizione, il sapere scientifico (soprattutto biologia e medicina) hanno con il femminismo, in quanto forma di sapere critico. Posso dire di aver scoperto nel femminismo un utile strumento di lettura della realtà. È stato bello potersi confrontare con Aïda, discutere insieme degli argomenti trattati e scrivere in sinergia.