di Alessandra Liccardo
Gli aerostati è il ventinovesimo libro di Amélie Nothomb, pubblicato dalla casa editrice Voland, nella collana Amazzoni, e tradotto da Federica Di Lella.
È il racconto in prima persona di Ange, diciannovenne appena trasferitasi a Bruxelles per studiare filologia all’università, protagonista del romanzo e parte del gioco tra realtà e letteratura che l’autrice intesse attraverso le pagine del libro.
Ange compare, all’inizio della storia, alle prese con la sua nuova coinquilina Donate, ventiduenne intransigente e maniaca del controllo dello spazio domestico. Tra le rigide istruzioni dettate da Donate su come non ripiegare la tendina della doccia o usare la lavatrice, Ange, in preda a uno stupore divertito, agli interrogativi sulla salute mentale della sua coinquilina e allo sforzo di attenersi alle regole della casa, tenta di ambientarsi e ritaglia per sé luoghi dischiusi all’immaginazione e alla possibilità.
Tornavo in camera mia. Più che un rifugio in cui ritirarsi, la mia camera era il luogo dove tutto è possibile. Dava sull’angolo del boulevard: sentivo i tram affrontare rapidamente la curva con uno stridio che mi estasiava. Stesa sul letto immaginavo di essere un tram, non tanto per chiamarmi desiderio, quanto per non conoscere la mia destinazione. Mi piaceva l’idea di non sapere dove stessi andando (Nothomb 2021, 11).
Spaziando tra i romanzi di Amélie Nothomb, si scopre che la stanza può essere un luogo buio e senza spiragli, una tana dal soffitto pesante che come un coperchio grava sulla mente e impedisce lo sguardo, spaventosa e accattivante allo stesso tempo, come la solitudine (Nothomb 2002, 37). La camera di Ange, al contrario, non è il punto di arrivo rispetto a una fuga dal mondo, un ritirarsi e rintanarsi, ma un accesso alla realtà e al piacere di perdervisi. È una condizione vitale e abitabile, spazio in cui sopravvivere ed espandere la portata della propria immaginazione verso l’ignoto. Può richiamare i refugia harawayani, luoghi della rigenerazione dove pensare e imparare a pensare con le altre creature, rendendosi capaci di stare al mondo (Haraway 2019, 63).
Ad accogliere Ange è una stanza che, come altre costruite precedentemente da Nothomb, raggruppa meraviglie che provocano “insonnie affascinanti”, nella luce fioca e nel fruscio della notte che filtra da una finestra aperta (Nothomb 2002, 57). Le cose alle quali la protagonista connette le sue sensazioni sono in movimento. Il transito rapido esperito da Ange, dietro al suono degli ingranaggi dei veicoli in strada, che la sottrae a un ambiente domestico ostile, evoca un altro viaggio e un altro approdo, quello compiuto da bell hooks che, da bambina, raggiungeva la casa della nonna materna.
Il “sito di resistenza” narrato da bell hooks in Elogio del margine è dove la cura reciproca, il focolare domestico e lo spazio privato, intimo e sicuro, si rivelano rivoluzionari e sovversivi. Nella “casa”, come luogo accomunante e dei legami affettivi, si riesce a “tenere qualcosa per sé”, rintracciare e coltivare il proprio potere personale e la possibilità di dar vita a nuovi significati (bell hooks 1998, 35).
Possibilità analoga alla scelta che l’autrice e la sua protagonista si riservano con la pratica della fantasia e della scrittura. Nella scrittura di Nothomb, infatti, i confini tra umano e non umano spesso si smarginano, e le esperienze di persone e oggetti si confondono. Grazie al concetto e al termine “smarginatura”, coniato da Elena Ferrante e colto da Isabella Pinto, è possibile figurarsi la condizione in cui i contorni delle cose si spezzano (Pinto 2020, 79) e la separatezza tra le individualità tende a dissolversi.
La camera, il rumore del ferro sulle rotaie, Ange e il tram sembrano essere coinvolti in uno stesso turbinio di vita emozionale e materiale, in un’immersione non dissimile da quella provata calandosi nel piacere della lettura.
La storia prosegue con Ange che pubblica un annuncio per offrire lezioni private di letteratura e grammatica francese agli studenti delle superiori, fin quando non riceve una telefonata. “La signora Daulnoy? Ho letto il suo annuncio. Ho un figlio dislessico di sedici anni. Potrebbe occuparsi di lui?” (Nothomb 2021, 13). Il pomeriggio seguente Ange si ritrova in una bella casa, “come a Bruxelles se ne trovano solo nei quartieri ricchi”, di fronte al signor Roussaire, un uomo sui quarantacinque anni e con “l’aria di chi ha sulle spalle grandi responsabilità” (14). Tra queste, la valutazione della giovane filologa, giudicata, dopo un breve interrogatorio, una ragazza seria e perfetta per il compito di porre rimedio alle lacune dello svogliato studente.
Pie aspetta la sua insegnante “seduto in terra a gambe incrociate”, si dimostra ossequiosamente cortese con Ange. Ha frequentato le scuole alle isole Cayman, è affascinato dalle “belle armi” che guarda su Internet e non ha mai letto un libro. Tuttavia, nello spazio lasciato vuoto dall’inesperienza di Pie si instaura presto un’alleanza. Ange vuole rivelare a Pie i segreti per imparare a usare quelli che per lei sono “oggetti magici” fin dall’età di tre anni, quando la madre le leggeva le Fiabe di Perrault (22).
Ma Pie le oppone risposte dal sarcasmo tagliente e le ragioni del proprio disinteresse, che sembra coincidere con la sua incapacità di leggere.
Non passa troppo tempo, anzi, solo i due giorni richiesti dall’insegnante all’allievo per concludere Il Rosso e il Nero di Stendhal, e le lezioni si trasformano in un avvincente gioco tra Ange e Pie, passaggio di battute in grado di rianimare i classici, dai racconti di Omero a quelli di Raymond Radiguet, da Kafka a Madame de La Fayette. Pie e Ange mettono in scena qualcosa che Amélie Nothomb, in conversazione con Daria Galateria e la sua editrice Daniela Di Sora, ha definito “critica selvaggia”, sorprendente abilità interpretativa di cui è capace il pubblico adolescente con il quale l’autrice si intrattiene in un’intensa corrispondenza, fitta di suggerimenti di lettura.
Negli Aerostati, Ange e Pie, attraverso i loro dialoghi, manipolano gli oggetti magici del passato, i libri e le storie, e ne subiscono l’influenza, tra immedesimazioni e fughe rispetto al testo che si intrecciano alla composizione di una relazione interpersonale complicata, che sempre più incuriosisce Ange e diventa necessaria per Pie. Ma se, nel racconto, i libri riescono ad essere oggetti allo stesso tempo magici e reali, apprendiamo dalla voce della protagonista che ciò che manca in casa Roussaire è proprio un contatto con il reale. Pie e suo padre soffrono di un chiaro “deficit di realtà”, nel caso dell’adulto aggravato dalla sua convinzione di esserne in pieno possesso (48). La madre di Pie, la signora Roussaire, colleziona oggetti che compra e ammira su Internet e che, come le armi nel caso di suo figlio, non ha mai tenuto in mano. Sono gli oggetti immaginari, come le storie contenute nei libri e gli aerostati, amati da Pie ma scomparsi dai cieli da molti anni, a essere investiti dagli affetti più reali. Descrivendo ad Ange le macchine volanti, fragili e immense, Pie si lascia trasportare in un’altra dimensione.
Forse, proprio per questo motivo, la critica letteraria messa in scena da insegnante e allievo presto richiede nuovi spazi di azione calati nella realtà: in città, nel bosco, nel tram che sfreccia, fuori dal controllo esercitato dal signor Roussaire. Ed è proprio in questo modo che Ange e Pie entrano ed escono dal canone letterario come dalla stanza sorvegliata dai genitori, rendendo i confini degli spazi e dei ruoli instabili. Nel corso degli Aerostati si fa sempre più evidente quanto il desiderio di immersione nel groviglio della realtà possa spingere oltre le consuetudini della propria solitudine.
Ce lo racconta Amélie Nothomb, con tutta l’ironia di cui è capace una seria filologa diciannovenne.