Recensione di Miriam Aiello
Tradotti e curati da Simona Forti, impreziositi dalla postfazione di Adriana Cavarero, i testi redatti da Hannah Arendt in occasione delle conferenze tenute a Princeton nel 1953 presentano numerosi motivi di interesse. Dal punto di vista della storiografia del pensiero arendtiano, la riflessione su Marx depositata in questi lavori costituisce una significativa elaborazione “di transizione” che, da un lato, fa seguito al dibattito suscitato dalla pubblicazione de Le origini del totalitarismo mentre, dall’altro, precede cronologicamente e, in certa misura, anticipa teoreticamente la riflessione sistematica sulla condizione umana contenuta in Vita activa. Al di là di questa collocazione contestuale, non risulta difficile ravvedere in questi lavori di Arendt anche un vero e proprio laboratorio di filosofia politica entro cui l’inizio (Aristotele) e la fine (Marx) della «tradizione politica occidentale» entrano singolarmente in contatto – sebbene si tratti per l’Autrice di un contatto non pacifico, segnato dalla continuità non meno che dalla differenza.
Il libro raccoglie due testi: nel primo Arendt fornisce una giustificazione teorica del suo interesse nei confronti di Marx e imposta i parametri dell’esame che verrà svolto dettagliatamente nel secondo testo, dove il pensiero marxiano viene esaminato in contro luce all’esperienza della tradizione politica occidentale.
Arendt mostra profonda consapevolezza delle difficoltà connesse a un simile impegno: la figura di Marx risulta gravata da una vasta storia di elogi e ricusazioni, nonché dalla pretesa immanenza del suo pensiero alla deriva stalinista dell’esperienza sovietica post-rivoluzionaria. Rispetto a questa prima, delicata questione, Arendt si mantiene accuratamente distante da ogni semplicistica riconduzione del totalitarismo “stalinista” al pensiero di Marx come causa o centro di emanazione: dal punto di vista metodologico, «si può dedurre così poco di ciò che è veramente accaduto da cause spirituali o materiali passate che questi fattori appaiono come cause soltanto alla luce dell’evento stesso che illumina il suo presente e il suo passato» (p. 45). Piuttosto, nel quadro di una lettura storico-filosofica che vede Marx certo come punto di rottura, ma anche e soprattutto come “punto d’approdo” ed erede dell’intera tradizione filosofico-politica occidentale, riflettere sugli elementi “totalitari” contenuti nell’opera marxiana significa estendere una simile prospettiva critica a quella tradizione nel suo complesso.
Per la tradizione occidentale, distillata nel suo gesto inaugurale (Aristotele) e nel suo atto conclusivo (Marx), lo spazio pubblico «è stato un mondo della politica e un mondo del lavoro; è iniziato come mondo abitato esclusivamente da animali politici ed è finito come mondo popolato quasi esclusivamente da “animali che lavorano”» (p. 58). Marx ha, secondo Arendt, l’indubbio merito di aver saputo registrare alcuni cruciali mutamenti di paradigma connessi all’avvento della modernità, tematizzando la relazione tra «lavoro» e «storia». Più che nella teoria economica e nella tensione rivoluzionaria, il significato fondamentale della sua opera consiste allora nell’aver sottratto la classe lavoratrice al muto ciclo della riproduzione materiale, per elevarla a dignità di compiuto soggetto storico e politico. Il carattere emancipativo di questa postura teorica non è però separabile, secondo Arendt, dal suo necessario risvolto, consistente nella «glorificazione del lavoro», vale a dire, l’idea che sia il lavoro – e non il discorso razionale pubblico – a rappresentare il veicolo privilegiato dell’antropogenesi e la cifra essenziale dell’umano.
Il ribaltamento di prospettiva rispetto all’antichità classica è qui massimo: in modo eminente nel pensiero di Aristotele la cifra distintiva dell’umano e specificamente del cittadino ateniese è il logos, nel senso più generale di facoltà «di discorso e di libertà» (p. 66), che è in primo luogo libertà dal vincolo biologico e materiale della riproduzione della vita – certo sul fondamento della soggezione e del lavoro dei non-liberi, di una schiavitù che è autentica «condizione prepolitica della politica» (p. 86).
Se dunque l’emancipazione dal lavoro era la condizione che qualificava la libertà degli antichi, requisito della libertà dei moderni è l’emancipazione del lavoro. L’ascesa della borghesia imprenditoriale trova espressione teorica nell’economia politica classica, che individua nel lavoro la fonte primaria della ricchezza. Idealmente, Marx (primariamente il giovane Marx) radicalizza e generalizza questa posizione, fondendo nel lavoro valore economico e valore morale, ricchezza materiale e ricchezza dell’identità personale e della socializzazione, e assegnando alla classe lavoratrice il ruolo di soggetto della Storia.
Questa giuntura di lavoro e storia comporta per Arendt due inconvenienti fondamentali. Da un lato, l’identificazione dell’umano con il dominio e con la coazione: «quando Marx affermò che il lavoro è la più importante attività dell’uomo, egli sostenne, nei termini della tradizione, che non la libertà, ma la necessità è ciò che rende umano l’uomo» (p. 69). Dall’altro, l’insufficiente distinzione marxiana tra praxis e poiesis conduce a un’indebita estensione dei criteri poietici e “lavoristici” alla dimensione pratico-discorsiva. La «glorificazione del lavoro» nella misura in cui sottende una sfiducia nel discorso razionale sembra ad Arendt strettamente connessa a una «glorificazione della violenza». Nella triplice tesi secondo cui «il lavoro è creatore dell’uomo; la violenza è la levatrice della storia; nessuno può essere libero se domina su altri» (p. 66) le prime due proposizioni rendono strutturalmente impossibile la libertà invocata dalla terza, e consolidano un’inaccettabile forma di dominio. Se, infatti, la dimensione del linguaggio e della pratica discorsiva viene a coincidere con la mistificazione dei rapporti sociali di dominio e con l’espressione di una falsa coscienza, sorgono le condizioni della violenza politica come fuoriuscita dalla falsità del discorso, e del totalitarismo come contrazione dei suoi spazi legittimi di esercizio. Al contrario, l’esercizio del logos nella prassi discorsiva antica vincola i soggetti con la sola forza della persuasione, esemplificata, come nel suicidio socratico, dall’induzione giudiziaria alla violenza agita su se stessi.
Tuttavia, un limite che va diagnosticato alla pur suggestiva lettura arendtiana è quello di non aver distinto, come anche Forti segnala, le specificazioni del lavoro interne al pensiero di Marx e, in particolare, il lavoro come «metabolismo con la natura», che è condizione ineludibile di qualunque formazione sociale, dal lavoro salariato che qualifica in modo specifico il modo di produzione capitalistico. Sostiene, infatti, Arendt che l’unico aspetto propriamente utopico del pensiero marxiano sarebbe l’emancipazione dell’uomo dal lavoro, «qualcosa» chiosa Arendt «che con ogni probabilità è altrettanto impossibile dell’antica speranza dei filosofi di liberare l’anima dal corpo» (p. 97): ma, appunto, si tratta di utopia solo si intende l’emancipazione dell’essere umano dalla condizione metastorica del lavoro, anziché dalla contingenza storico-sociale del rapporto di lavoro salariato. Ed è tuttavia proprio in questo momento utopico-teorico del pensiero marxiano che Arendt rintraccia un insospettabile e rinnovato raccordo con il pensiero aristotelico di una comunità che ha «escluso tutti i rapporti di dominio dalle relazioni tra i suoi liberi cittadini» (p. 72).
In secondo luogo, se non appare più praticabile la via di un’emancipazione sociale tradotta nella formula della sola liberazione del lavoro e dal lavoro, non si deve tuttavia dedurre – come invece l’impostazione di Arendt sembra talora suggerire – che l’esercizio pubblico del logos rappresenti ipso facto una dimensione di più compiuta libertà dal dominio. Se la pratica discorsiva è a sua volta innervata di relazioni di potere e condizionata da una ineguale distribuzione dei beni simbolici e delle possibilità di presa di parola, ancora legata alle differenze di genere, classe sociale, etc., il suo esercizio – lungi dall’essere univocamente e automaticamente sinonimo e funzione di libertà – appare forse bisognoso di uno specifico sguardo critico e di un appropriato percorso di liberazione.