di Serena Orlando
Corpi Eloquenti è un saggio di Serenella Iovino, pubblicato nella raccolta ContaminAzioni Ecologiche. Cibi, nature e culture, a cura di Daniela Forgione e Serenella Iovino ed edito da LED Edizioni Universitarie nel 2015. Si tratta di una serie di testi che riflettono sulla potenzialità di un mondo inclusivo dove le dinamiche ecologiche decostruiscono i dualismi propri della tradizione culturale occidentale.
La nozione di contaminazione è essenziale a un’argomentazione di questo tipo, perché ci permette di rivalutare un modello ambientale inteso come sistema complesso e individuare in esso una sovrapposizione continua di questioni ecologiche e culturali in cui la pluralità è il vero fulcro. Approcciarsi a queste contaminazioni ecologiche significa affrontare temi legati all’ambiente; ci pone davanti a un sistema nodoso, quello delle gerarchie naturali che, paradossalmente, si rivelano essere un prodotto artificioso e sintetico dell’essere umano. Parliamo di corpi, di umano e non umano: questa lettura ha lo scopo di spingerci oltre una visione dicotomica ormai obsoleta.
Serenella Iovino, studiosa di filosofia dell’ambiente e cultura ecologica, ha introdotto l’ambito dell’ecocritica in Italia. Si tratta di una disciplina nata negli anni Novanta negli Stati Uniti, dedicata al rapporto che intercorre tra umano e non umano nelle opere letterarie. Tramite questo processo di lettura, la critica del testo instaura un legame con l’etica sociale, la cultura, l’educazione – e la cura – ambientale. Porta, insomma, a una comprensione globale della vita umana collocata nell’ambiente e ha come obiettivo di risvegliare in chi legge la coscienza ecologica. All’interno del saggio, Iovino introduce così alcuni concetti specifici della prassi dell’ecocritica.
E’ interessante partire dalla nozione di eloquenza della natura. Il saggio associa infatti l’aggettivo eloquente all’idea di un corpo e dunque attribuisce a entità naturali una capacità di espressione. L’eloquenza è caratteristica di chi parla con facilità e persuasione. Ma l’eloquio non appartiene solo all’umano, anzi. Esso può essere anche figurativo: è l’atto di esprimersi senza bisogno di ricorrere necessariamente all’articolazione del suono. Come fa il non-umano. Esiste un’eloquenza della natura? Molti risponderebbero di sì. Del resto, tutto è relativo quello che ci aspettiamo di sentire. Vulcani, alberi, pietre, organismi, fossili ci dicono qualcosa della storia geologica o evolutiva della terra. Nuvole, correnti, fenomeni atmosferici, temperature, ci parlano del clima. Anche noi umani siamo natura eloquente; siamo animali che parlano, e il più delle volte — nel bene o nel male — è attraverso di noi, attraverso le nostre rappresentazioni, metafore, simboli, allegorie, che la natura parla. […] C’è il modo di andare oltre le metafore e di riconciliare l’antropomorfismo con le storie della natura? (p.103).
Generalmente è attraverso rappresentazioni e simboli che la natura viene raccontata e l’ecocritica si occupa di studiare questo immaginario naturale. È tuttavia necessario notare che quando si parla di materia vivente si tenda a considerare solo l’umano escludendo così ciò che lo circonda, vale a dire l’ambiente in cui è inserito, che è dotato in realtà di una sua capacità retorica.
A proposito di capacità retorica dell’ambiente situata in un quadro narrativo, trovo che alcuni testi si prestino particolarmente bene a un’analisi secondo l’approccio ecocritico presentato da Iovino, tra questi, Jane Eyre, un romanzo di formazione pilastro della letteratura inglese scritto da Charlotte Brontë e pubblicato nel 1847 sotto lo pseudonimo di Currer Bell.
Nel corso della narrazione la protagonista interagisce con l’ambiente che la circonda suscitando uno scambio comunicativo tra le vicende personali della bambina-ragazza-donna e il setting narrativo. L’ambiente e l’ambientazione non sono elementi silenziosi; non fungono da sfondo passivo per lo svolgimento degli avvenimenti, lo spazio risponde e partecipa ed esiste, fino a una sovrapposizione reciproca dell’umano e del non umano. È così che si assiste all’espressione dell’immaginario della natura menzionato in precedenza: umano e non umano sono agenti e, in quanto tali, interagiscono tra loro. E quando lo fanno, avviene una contaminazione.
Ne è prova l’ostilità espressa dalla casa dei parenti presso cui Jane viene accolta in seguito alla morte dei genitori, la morte per tifo delle compagne della protagonista causata dalle pessime condizioni della struttura; l’ambiente incontrollato della brughiera notturna e le condizioni metereologiche avverse che la protagonista incontra e su cui non ha alcun controllo. Il non umano non è solo la natura intesa come wilderness, ma anche le strutture, le case, gli edifici.
Lawrence Buell, pioniere dell’ecocritica, ricorda infatti come sia inesatto credere che quest’ultima riguardi solo la letteratura che narra di luoghi rurali o selvaggi. Al contrario, ogni tipo di ambiente — aree urbane, suburbane, edifici, zone agricole e industriali, terraferma, ambienti marittimi, interni ed esterni — si presta bene all’analisi ecocritica. Per quale motivo? Perché l’oggetto del procedimento ecocritico coinvolge l’intera gamma dei modi in cui la letteratura ha concepito i rapporti tra esseri umani e ambiente fisico. Chi narra dovrà individuare le concause che hanno determinato la realtà esistente: l’opera letteraria dovrebbe essere l’espressione di questa concatenazione, che rivela — tramite la narrazione — la connessione vicendevole tra tutte le entità presenti nell’ambiente. Inoltre, il fine dell’ecocritica è di porre in discussione la relazione tra la concezione di natura e la scissione umano e non umano secondo uno schema gerarchico: dobbiamo ripensare proprio tutto quindi, a partire dalla relazione asimmetrica basata sull’idea di controllo della natura da parte dell’uomo e la distinzione netta tra ciò che è naturale e ciò che è artificio.
Ritorno così a Corpi eloquenti, a come Serenella Iovino sottolinei che l’ecocritica ci invita a essere caute e cauti nei confronti delle tecniche narrative fondate sulla antropomorfizzazione della natura. Lo scenario di Jane in fuga da Rochester, situato nella natura notturna e avversa, presenta un’azione e interazione di umano e non umano, che si muove prescindendo dalla presenza e controllo solo umani.
Contaminazione è dunque il secondo concetto presentato nel saggio e su cui è essenziale soffermarsi. Questo termine non si limita a essere un sinonimo di inquinamento, bensì è una delle condizioni di esistenza delle forme viventi, umano compreso. In questa prospettiva, nel corso del saggio viene ripresa la tesi di Donna Haraway, secondo la quale il mondo è una dimensione in cui forze differenti emergono e costruiscono storie in cui la natura è sempre contaminata con la cultura. Quando si riflette sulla possibilità di raccontare storie è necessario tenere a mente come lo scambio sia reciproco e continuo.
Aprire allora la questione di una ecocritica della materia risulta ancora più utile; si tratta dello studio del modo in cui le forme materiali naturali e non (dai corpi agli oggetti, dalle sostanze ai paesaggi) interagiscono tra loro e con la dimensione dell’umano, producendo in tal modo configurazioni di significati e discorsi interpretabili come storie. Iovino rimanda alle tesi sulla biosemiotica di Charles Sanders Perice e Jacob von Uexkülll, dove la vita, ogni forma vivente si presenta come sistema di produzione semiotica; l’universo è cosparso di segni: tutto ciò che vive, partendo dalle forme di vita unicellulari, è impregnato di segni. Di conseguenza, i processi semiotici non riguardano esclusivamente la cultura umana, ma anche la natura intesa come non umano.
La ricerca biosemiotica ha messo in luce che, in stretta correlazione con i segni, le «pratiche interpretative» sono una parte essenziale dell’attività degli organismi e delle forme di vita. La stessa sopravvivenza di un organismo dipende anzi da queste pratiche interpretative. […] Vedere i segni come disseminati in tutto l’universo vivente, a prescindere dalle specie che li articolano o da metafore antropomorfiche, è molto importante per il nostro ragionamento, poiché ci aiuta a estendere la zona di produzione semiotica dall’umano al vivente, da un livello culturale antropocentrico a un livello biocentrico in cui la cultura […] è un’emergenza evolutiva della creatività naturale (p. 105).
Si arriva quindi a comprendere una delle questioni-nucleo del discorso di Serenella Iovino: il significato è il principio organizzatore della natura e i procedimenti semiotici-comunicativi sono una componente fondamentale della natura vivente. Tra gli esempi portati, quello peculiare del DNA, un codice contenente un messaggio specifico; tale messaggio è privo di significato fino a che non viene decodificato dalle proteine contenute nelle cellule: ne consegue che i significati del codice genetico emergono solo quando il DNA subisce una interpretazione. Se si parla di significato, quindi, si dovrà parlare anche di interpretazione: la biosemiotica sottolinea infatti come le pratiche interpretative siano una componente essenziale dell’attività sì degli organismi, ma anche delle forme di vita in generale. Per giunta, “la stessa sopravvivenza di un organismo dipende da queste pratiche interpretative” (p.105): secondo un approccio ecocritico ed ecosemiotico, l’ambiente naturale (inteso come umano, non umano e il loro relazionarsi) potrà essere considerato come un testo da interpretare. Sottolineo la dipendenza tra contaminazione e interpretazione, poiché al fine di essere significante, un segno ha bisogno di essere contaminato da un ambiente interpretativo. La produzione semiotica non è dunque un processo esclusivamente umano. I segni, disseminati in ogni forma di vita, prescindono dalle elaborazioni esclusivamente antropomorfiche. Si tratta di una considerazione fondamentale di Serenella Iovino, che invita a estendere la zona di produzione semiotica all’intero universo vivente, passando così da un panorama culturale antropocentrico a una veduta biocentrica dove la cultura è elemento costitutivo.
Ci ritroviamo quindi a parlare di ecocritica nella prospettiva filosofica dei new materialisms: così facendo, è possibile osservare i nostri ambienti come una dimensione in cui le diverse entità costruiscono storie in cui natura e cultura sono contaminate l’una dall’altra. L’idea di introdurre la materialità nell’approccio ecocritico è affascinante: si tratta di dotare finalmente di una voce la vitalità intrinseca alla materia, compito non facile se consideriamo che non sempre i nostri mezzi linguistici sono adatti a svolgere una simile impresa. La nozione di vibrant materialism di Jane Bennett, che teorizza una vital materiality che attraversa ogni corpo, umano o non umano è di particolare aiuto in questa prospettiva. Decodificando la trans-corporeità che riguarda tutte le nature corporee si scopre come contengano ed esprimano un groviglio di organismi e discorsi che, come sottolinea Serenella Iovino, diventano manifestazioni del legame tra forme di esistenza e condizioni di vita.
La scelta di inserire le questioni di biosemiotica nel quadro dell’ecocritica si rivela un mezzo per compiere un percorso interpretativo: il tema dell’eloquenza umana e non umana è spinoso, ma l’invito a osservare i corpi in quanto capaci di esprimere segni in un ambiente dinamico e operoso è un buon supporto per comprendere a fondo la proposta di Iovino.
Una lunga storia di osservazione scientifica […] ci insegna che la materia (chiamiamola «corpo» o «cose») non è un sostrato passivo cui un certo grado di attività è semplicemente aggiunto dall’esterno. Al contrario, l’attività è inerente alla materia, e la materia è un campo di «forza congregazionale» […]. Gli esseri umani condividono questo campo con innumerevoli attori non umani, la cui attività — sia essa intenzionale o non — costituisce il tessuto degli eventi. La separazione tra attività umana e attività non umana è pertanto molto più incerta di quanto siamo disposti ad ammettere. Nel tessuto materiale e dinamico della realtà, umano e non un umano sono sempre nell’atto di una costante e reciproca ibridazione (p.106).
È sicuramente curioso come l’essere umano, autore di una gerarchia inventata, si sia posto al di sopra dell’ambiente, rendendolo una sua proprietà silenziosa. L’essere umano ha sviluppato questa convinzione nel corso della storia, un credo scorretto ma semplificato e dunque pratico. L’ecocritica ci riporta all’idea che la materia non è un ente inerte e vuoto, anzi, l’attività è contenuta nella materia e noi, esseri umani, condividiamo un campo di forza con una serie di entità non umane. Iovino sviluppa questa tesi in riferimento al lavoro di Bruno Latour, e in particolare ai concetti di attante e di collettivo. L’attante indica qualcosa che agisce o a cui un altro ente conferisce attività: può trattarsi di un virus, una sostanza, una merce, una rete elettrica; si caratterizza per la sua efficacia cooperativa, in quanto non agisce mai realmente da solo, poiché la sua azione dipende dall’interferenza interattiva di molteplici corpi e forze. Ironicamente, è proprio l’attante non umano a essere l’esempio più adatto di materia che agisce.
C’è una forte differenza di prospettive tra l’associazione dell’agire collegata al singolo umano e tra quella basata sulle reti di attanti, più affine al ragionamento ecocritico: quest’ultima rende il non umano un attore a pieno titolo; soprattutto, corregge l’errore culturale dell’uomo che agisce da solo smascherando questo processo come una mera astrazione, dato che l’agire umano, che sia sociale, naturale o tecnologico, è sempre il risultato di azioni congiunte. Il collettivo, dunque, è una entità che attua delle modifiche insieme a un’altra entità coinvolta in un processo. Quando l’essere umano accede a questa rete di contaminazioni si creano dei collettivi e viene in luce come, se un collettivo ha luogo tutte le volte che gli esseri umani sono coordinati con esseri non umani, siamo sempre coinvolti in collettivi e che questi sono dappertutto: nella società, nella tecnologia, all’interno delle esperienze cognitive, nei sistemi finanziari, nelle industrie, nei mercati, nelle produzioni narrative. Ovunque.
Condivisione. Umano e non umano condividono spazio, tempo e materia. Negli atti dinamici del mondo reale ogni corpo vitale è coinvolto in un unico processo di ibridazione in cui l’umano non ha il controllo che crede di possedere: «l’attività della materia è dunque un dinamico e reciproco sovrapporsi di strati, un origami in cui umani e non umani sono ripiegati insieme, gli uni sugli altri» (p. 107).
In questa prospettiva il metodo interpretativo dell’ecocritica si rivela di estrema importanza. Porre la letteratura in una prospettiva ecologica diventa una strategia di sopravvivenza. Come ribadito da Serenella Iovino, la cultura quale luogo di conservazione della memoria ci aiuta a progettare la permanenza, ma anche a distanziarci da tradizioni che potenzialmente agiscono contro la sopravvivenza anziché favorirla. Tramite questo processo analitico-letterario si mettono in luce alcune visioni del mondo, avviando un percorso conoscitivo ma anche correttivo: la letteratura è un mezzo per ottenere informazioni sul funzionamento dei sistemi biologici, ci permette di fare un lavoro di selezione e di scarto al fine di preservare l’entità unica costituita da umano e non. Analizzando le realtà tramite il testo letterario — che si fa spazio di intersezione —, si ha la possibilità forte di progettare e ri-progettare la cultura improntandola alla sostenibilità.