II incontro – I miti – Relazione di Ilaria Coccia

Partiamo da una domanda.

Che cos’è una donna? C’è chi risponde: una matrice!

Ma non credo che basti avere un utero per far si che una donna sia..una donna! Esistono le femmine, ma poi si scivola sul terreno impervio della cosiddetta “femminilità”, una chimera, un animale a rischio d’estinzione che vaga tra i deserti, selve, boschi, c’è addirittura chi l’ha vista nuotare nel grande oceano, e chi dice che è in “pericolo”, che si sta perdendo.

Se l’avvistate, dichiaratelo  agli organi competenti!

Si ode in lontananza un grido “restate donne”, ma non nel senso fisico “restate ferme, donne!”, come se fosse un chivalà militare, ma nell’accezione di un divenire altra cosa rispetto alla Donna. Quindi non si nasce donne? Mi pare di capire che ci si diventa, in qualche modo.

“Divenire donna”, affermazione che già implica che non è condizione biologica, non è scontato che ogni essere umano di genere femminile sia una donna, ma per esserlo, dicono i ben informati, bisogna che sia partecipe di una sorta di mistero misteriosissimo, di velato sospetto che alimenta paura, quasi come se fosse della stessa sostanza della nebbia, senza una consistenza precisa, non tangibile, ma che avvolge tutto. Nessuno sa bene di quali infiniti attributi consta questo mistero, però tutti sanno precisamente che per essere una donna vera bisogna partecipare di questo non-so-bene-cosa-ma-sono-sicuro-che-è-da-donna. SE sei donna è perché possiedi il mistero.

Bene, quando questo arcano mistero si rivelerà o si risolverà, fatelo sapere che la curiosità (che dicono sia attributo squisitamente femminile) mi uccide.

L’uomo non ha un divenire uomo. L’uomo è già dato, è l’Uno, l’universale e quindi il concetto di uomo si lascia in pace. Tutti con gli occhi puntati sulla donna per cui si inizia a rappresentare, ad indagare questo mistero che si è fatto carne, ma pur sempre mistero e quindi si descrive sempre con termini vaghi, peregrini, altisonanti quasi come se fossero pronunciati dall’oracolo di Delfi. Pronunciazioni sibilline che scaturiscono dalla certezza di chi solo sa cosa è donna e lo deve insegnare alle non-donne.

Operazione quasi sempre maschile, sia ben inteso.

 

Per chiarire meglio queste affermazioni passo ad illustrare alcuni esempi di tipologie femminili nella società descritta da Omero nell’ “Iliade”.

In  un ambiente in cui l’attività principale è certamente la guerra, gli uomini detengono il potere, un predominio atavico, mai messo in discussione, che si esplica anche tramite la reclusione della donna nel palazzo, nella casa-fortezza, una forza che si muove dentro i ristretti confini dell’oikos.

Fin dall’infanzia tenuta lontana dagli spazi pubblici, in cui si può prendere attivamente parola e quindi crescere e far crescere la polis, alla donna non è offerta l’opportunità di divenire un eroe, rappresenta la dote nel matrimonio o un bottino di guerra, semplice merce di scambio.

Pensiamo alle sette lesbie che Agamennone promette ad Achille in cambio del suo ritorno in campo. La  sua vicenda non ha nulla di eccezionale, al contrario dell’uomo, il cui destino è quello di vivere da eroe e di avere una compagna fedele e devota a lui solamente.

La donna omerica, succube di una concezione misogina della realtà, esiste in quanto compagna, l’altra, la cui principale attività è la cura della sua bellezza e della casa, sempre guarnita di modestia, fedeltà e obbedienza.

Omero  sfoggia con orgoglio una tipologia di donna che non ha stabilità né il senso della misura, alogica. Anche le migliori tra loro, rappresentano, in potenza, un pericolo.

 

 

Ma si scorge una figura che sovrasta tutte le altre, la figlia di Zeus, Atena, astuta consigliera e competente degli affari maschili, l’unica dea non concepita con l’unione carnale, venne al mondo già tutta armata, balzando fuori dalla testa di Zeus e votata alla castità. Rappresenta tutte le qualità maschili, non è dunque donna, non è percepita come tale.

Tra le altre figure femminili omeriche emerge come donna virtuosa, Andromaca, spose fedele dell’eroe troiano, Ettore. Ella incarna l’idea di  maternità, la devozione, la bellezza d’animo.  Andromaca, ricopre un ruolo esemplare, di grande forza morale, che ama con impeto generoso il suo sposo, tanto da rinunciare sommessamente alle aspirazioni di tutte le spose e madri. Pur consapevole del suo ruolo subalterno di compagna, tenta di dissuadere Ettore dal combattimento frontale e finale con Achille, per non rischiare di perdere tutto.

Nel personaggio di Andromaca, dopo la caduta di Troia, emergono chiari sentimenti di disperazione per aver perso tutti i privilegi dati dalla condizione di regina e la solitudine di chi è stato strappato dalla propria gloriosa patria, ogni aspetto della sua vita è stato sovvertito: degradata dal rango regale a condizione di schiava, da moglie fedele di Ettore a concubina di un nemico, Neottolemo, il figlio di Achille, straziata dalla morte del figlio Astianatte, l’erede legittimo della dinastia troiana, ora è madre di un “bastardo”. Per questo motivo è odiata dalla sterile moglie di Neottolemo, Ermione, ferita nella sua dignità dall’arrivo di una concubina e invidiosa per non aver messo al mondo un erede, si scontrano apertamente nell’ambito del diritto familiare, in relazione alla questione della discendenza. Andromaca diventerà il simbolo della donna-preda,  resa una schiava straniera.

Insieme alla regina troiana Ecuba, moglie leale e avveduta fiancheggiatrice di Priamo, che guida il consiglio delle anziane e cura i rapporti con la dea Atena, rappresenta la figura di madre e sposa ideale. Ben rappresentato dal tragico Euripide, il dolore di Ecuba d’altro canto, si trasformerà in vendetta, la sua disperazione di fronte alla morte dei figli ci fa intravedere un altro aspetto della saggia regina, quello più drammatico e passionale che la porterà a trasformarsi in lucida vendicatrice, dopo aver ottenuto il permesso da Agamennone di uccidere  il tracio Polimestere, che mosso da cieca avidità aveva infranto i sacri vincoli di ospitalità, uccidendo suo figlio, Polidoro. Agli occhi dei greci la guerra, “maestra brutale”, come diceva lo storico Tucidide, che permette anche di introdurre nelle famiglie dei vincitori schiave e concubine, perpetuava in modo indiretto l’azione devastante  per il trauma che viene ad imporsi all’interno dell’ oikos.

Invece è il personaggio di Elena di Sparta, poi diventata Elena di Troia dalla personalità oscura, a tratti enigmatica che ben evidenzia il nesso tra Amore e morte, tra l’essere e il nulla, l’inquietudine del fascino che ci permette di comprendere la costruzione del  mito della donna. In entrambi i poemi omerici è additata come l’origine di tutti i mali della guerra; da Atena, dai vecchi troiani nel palazzo e da Odisseo quando parla con lo spettro di Agamennone, nell’Odissea.

La poesia lirica non poteva esimersi dal maledire questa figura di adultera, come fa Alceo o Pindaro, ma il picco più alto si raggiunge nella tragedia, dove il Coro dell’Agamennone di Eschilo arriva a formulare una bizzarra etimologia del suo nome partendo dal verboeléin: “distruggere”.

Di contro troviamo i retori, soprattutto Gorgia, che proteggeranno Elena solo in quanto figura passiva,  dominata dall’eros e dal potere della parola.

In questo panorama si distingue per un’indimenticabile e dirompente esaltazione di Elena la poetessa Saffo, che dichiara una precisa scala di valori al cui vertice pone l’eros, seguito dagli affari militari, esclusivamente maschili. Saffo va ben oltre la difesa della donna, suo scopo è la celebrazione dell’amore come esperienza totalizzante che stravolge intensamente  la vita di ognuno.

Eros infatti è rappresentato come un forte vento che scuote violentemente e si abbatte contro le querce e si insinua tra le membra fino a scioglierle, farle tremare e a sconvolgere la mente.

Una regina affascinante, di una bellezza sovraumana, archetipo della femminilità, ma anche fragile e irresistibile. Causa scatenante della guerra ne esce integra, Menelao, marito tradito non riesce ad ucciderla. Una donna che non ha paura del conflitto, fugge dalla sua patria per seguire Paride e abitare in un palazzo pieno di rancore nei suoi confronti, al contrario della gioia manifestata all’arrivo di Andromaca insieme ad Ettore, non teme lo scontro aperto, evidentemente pericolosa perché rappresenta una contraddizione vivente, fa emergere la fragilità del potere e delle passioni umane, paradigma della seduzione e di un eros funesto. Ha un ruolo da protagonista, sa controllare gli uomini che le stanno attorno, sa perfettamente come muoversi, anche in ambienti a lei ostili. È figura ambigua e ambivalente, forte e consapevole delle sue armi, sicura del suo valore tanto da non accettare di avere come compagno un uomo pavido, Paride, che non sa combattere contro Menelao, suo primo marito.

Riesce infine a inscenare un arguto duello d’ingegni contro Ecuba, che  tenta di convincere Menelao ad ucciderla, e anche se la saggia regina usa argomentazioni schiaccianti è ben consapevole di non riuscire a sovrastarla, a sconfiggere il potere della sua bellezza e infatti, alla fine, il marito tradito la risparmierà.

Sulla sua figura si sono giocate parecchie partite, simbolo dell’aspetto perverso dell’eros, Elena rappresenta la summa di tutti i problemi maschili nei confronti del piacere femminile. Il desiderio che gli uomini sentono nei confronti della sessualità femminile è percepito come un problema che li porta ad accusare e colpevolizzare la donna stessa, viene facilmente il confronto con Eva.

 

Ancora oggi pare che resistano gli ultimi focolai di resistenza del grande partito “solo io so cosa è una donna e ora ascolta che te lo spiego”, ma più in generale le “credenze”,  “i deliri” hanno ceduto il passo alle scienze che, deo gratias , non ritengono valide teorie che mirano a provare l’esistenza di entità immutabili che definiscono precisi caratteri, come quelli della donna, del negro, dell’ebreo o dello schiavo.

Se gli aderenti al grande partito “so io cosa è una donna”  declamano a gran voce che la femminilità non esiste più, è perché la femminilità non è mai esistita (ma vaglielo a spiegare…)

Ovviamente un po’ spaesati da questa affermazione, vissuta come un lutto, alcuni si sono subito ricostituiti in un altro partito, che possiamo intitolare “siamo tutti esseri umani”. Cancellare così, con un colpo di spugna ogni differenza, approssimare fino ad annichilire!  Respingere  le nozioni di eterno femminino o di carattere  predisposto alla schiavitù, non significa negare l’esistenza di donne o schiavi, ma solo coprire la realtà, per gli interessati rappresenta una fuga dall’autenticità. Allora, se la sua funzione di femmina non basta a definire la donna, se sparisse il concetto di  “Eterno Femminino” e se oltre a tutto questo ci si ostina a dire che esistono le donne, è legittimo porre questa domanda, la stessa da cui siamo partiti, che cos’è una donna?

La risposta è implicita nella domanda. È già importante che io lo chieda. Ad un uomo non verrebbe mai in mente di scrivere trattati, libri, girare film sulla posizione che loro ricoprono nell’umanità. Che sia uomo è sottointeso, non ha bisogno di spiegare niente a nessuno, tantomeno a sé stesso. Il fatto che esistano divisioni simmetriche tra i due sessi è pure formalità, il rapporto tra i due sessi non è polare o simmetrico. Mutuando una formula dalla linguistica possiamo definire il maschile come l’elemento cosiddetto “non marcato”, l’universale, laddove la donna è il “ marcato”.

L’umanità è maschile e l’uomo definisce la donna in relazione a se stesso, è la donna che viene qualificata come il “sesso”, perché per l’uomo è il sesso e quindi diviene in senso assoluto. È la donna che si determina e si differenzia in relazione all’uomo, egli è l’assoluto, lei è l’Altro.

L’uomo è l’Universale, racchiude in sé il Bene e il Male, la donna è tutta piegata verso il negativo, esiste nella donna una eccezionalità, una marcatezza rispetto alla linearità maschile.

Pensiamo al mito di Pandora, la prima donna  che apparve sulla terra, come ci narra il poeta Esiodo sia nella Teogonia, che ne Le opere e i giorni. Nata dall’ingegno di Efesto, a cui Zeus aveva ordinato di formare con acqua e fango una creatura dalle sembianze aggraziate, tutti gli dei e le dee le offrirono doni, da qui il significato del suo nome: ogni genere di dono.

Vendetta, questa è la motivazione che sta alla base della nascita della prima donna. Il padre degli dei, Zeus, adirato con Prometeo, il cui nome significa letteralmente “colui che prevede”, colpevole di aver rubato il fuoco ai celesti per donarlo ai mortali, ideò una punizione in carne ed ossa. La giovane donna fu condotta in seguito da Epimeteo, il fratello di Prometeo, per diventare sua sposa, sebbene Prometeo avesse ordinato al fratello di non accettare alcun dono dagli Dei.

La ragazza portava con sé un vaso, donatole da Zeus con la raccomandazione di non aprirlo. Dal momento che Ermes aveva donato alla ragazza la curiosità, Pandora aprì il vaso, disobbedendo all’ordine di Zeus, facendo uscire da quello tutti i mali, fino ad allora sconosciuti. All’interno rimase solo la Speranza, che non era riuscita ad uscire in tempo, prima che Pandora richiudesse il vaso. Il mondo divenne un posto desolato finché la donna decise di riaprirlo e liberare la Speranza. È chiaro come questo mito volesse imputare alla donna tutte le colpe e tutti i mali del mondo, la sua apparizione coincide con la perdita di felicità del mondo, la fine dell’età dell’innocenza. Plasmata per punire gli uomini, rappresenta l’inizio della fine. Pandora è inizio e anche fine, vita legata a morte. Anche qui viene facile il paragone con Eva.

La donna nel mito è insieme Elena e Andromaca, Pandora e Atena, Eva e vergine Maria, è la preda dell’uomo e la sua confusione, è tutto ciò che egli  non ha e che vorrebbe avere, la sua negazione e la sua ragion d’essere. Attraverso lei si compie il passaggio dalla speranza alla delusione, dall’odio all’amore, dal bene al male e questa ambivalenza colpisce immediatamente.

Un altro spunto di riflessione ci viene offerto dal mito di Demetra e Persefone, un mito in cui la donna appare l’uno e l’altro. Demetra, Donna-madre-terra, caos che origina tutto e riassorbe, in una delle varianti del mito madre di Dioniso, il dio dell’agiatezza, della spensieratezza, legato ai culti della terra e poi indicato come inventore del vino. Demetra, letteralmente “dea-madre, dispensatrice”, protettrice dell’agricoltura e delle istituzione familiari, a cui viene strappata la figlia Persefone, dal dio degli inferi, Ade.

Mentre Persefone raccoglie dei fiori lontana dalla madre, il dio degli inferi la costringe a seguirla, lancia urla vane, nessuno la può aiutare. Comincia così la battaglia di Demetra, informata da Apollo- il dio Sole, che la porterà ad abbandonare la terra, rendendola un luogo non più fertile, in cerca della figlia. Zeus, intima al fratello Ade di restituire la giovane, non poteva permettere l’estinzione del genere umano e con esso le offerte sacrificali. Ingannando l’autorità del padre degli dei, Ade promette libertà a Persefone, non prima di averle fatto assaggiare un chicco di melograno, offerta del suo amore, in questo modo sarà sempre legata agli inferi. Madre e figlia finalmente si ricongiunsero, ma Persefone dovette obbedire al suo destino, ritornò dopo pochi mesi negli Inferi, sua seconda casa. Il mito che tenta di spiegare l’alternanza delle stagioni climatiche sulla terra, rappresenta anche il simbolo di una violenza agita da un uomo su una donna, che la rapisce e la tiene legata a sé con l’inganno. Mentre, il patto che stabilirono Zeus, ovvero il padre-padrone e Demetra, madre di ogni cosa, per conto della ragazza e a sua insaputa, ben rappresenta la potenza di due forze primordiali che si scontrano, riconoscendosi.

Demetra, madre gelosissima che non vuole concedere la figlia a nessuno, mette in evidenza anche un altro genere di violenza, quella che agisce su un soggetto, privandolo di ogni libertà. Desidera  conservare la verginità di Persefone, che Saffo paragonerebbe ad una mela rossa  sul ramo più alto e che nessuno riesce a raggiungere, è costretta a sottostare al volere altrui, sia esso mosso da meschinità e inganno, che da protezione, è un fiore reciso dalla violenza di un aratro, come direbbe il poeta Catullo riprendendo un frammento di Saffo.

Demetra quindi diviene il simbolo di madre-tiranna, quasi l’unica artefice o comunque co-partecipe del destino crudele riservato alla figlia.

Persefone diviene anche simbolo di ingenuità e al contempo di materia che si corrompe e che cede agli inganni, dimentica degli insegnamenti della madre, è posta ai limiti della terra/inferi. Un mito in cui convivono le due pulsioni originarie dell’essere umano: amore e morte, eros e thanatos, due aspetti che convivono nel ritratto che l’uomo greco ha dipinto attraverso il mito della donna, fondandone la legittimità sul sacrificio di sé e dei proprio affetti;  per Medea il delitto dei figli avuti con Giasone, per Andromaca la schiavitù in terra straniera, per Persefone la rinuncia alla vita, per Clitemnestra il sacrificio della figlia Ifigenia.

 

Sulla falsariga dell’opera presa in considerazione in questo ciclo di seminari su Simone de Beauvior, Il secondo sesso, ho cercato di mettere in evidenza il condizionamento che alla celebrità della donna è derivato dal fatto che i maschi si sono occupati, da sempre, della cosa poetica, costruendo da soli e per uso proprio, il mito della donna.

Ho assunto una postura molto umile, propria di una letterata che si sta avvicinando alla filosofia, è evidente quindi che avrei potuto moltiplicare gli esempi, ma ho scelto, tra i tanti messi a disposizione in millenni di letteratura misogina, quelli che a parer mio sembravano più evocativi.

Ovviamente questo breve testo è solo uno spunto di riflessione, so bene che il mio lavoro non è stato esaustivo, questo è solo l’inizio di una riflessione che spero sarà ampliata collettivamente, è il primo mattoncino con cui mi piacerebbe costruire un percorso più omogeneo.

 

Concludo con una citazione da Il secondo sesso: “dando una definizione della donna, ogni scrittore definisce la propria etica generale e l’idea particolare che ha di se stesso: in lei vede spesso la distanza tra la sua visione del mondo e i suoi sogni egoisti… tuttavia la donna come Altro ha ancora una funzione in quanto, sia pure per superarsi, ogni uomo ha ancora bisogno di prendere coscienza si sé”.

Redazione

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