Leggendo queste pagine si nota subito il tentativo minuzioso, un’attitudine quasi tecnica nella descrizione, di osservare la materia del vivente come attraverso la lente di un microscopio, preoccupandosi di analizzare anche ciò che a occhio nudo non si vedrebbe, per verificare se effettivamente la differenza sessuale risieda nella biologia.
La risposta che emerge è complessa e tiene conto di un’analisi rivolta all’intero universo dei viventi (E qui mi sembra che lo sguardo di De Beauvoir non sia ancora del tutto incarnato. O meglio si percepisce il suo essere una donna, e quel che scrive lo scrive in quanto corpo di donna, ma nell’analisi che fa, indossa ancora i panni dello Scienziato che guarda i corpi dall’esterno, sulle sue valutazioni pesa lo sguardo arbitrariamente ‘neutro’ dell’obiettività tecno-scientifica, e i suoi giudizi. Barbara Duden, che si definisce una storica dei corpi delle donne, ha scritto molto sullo sguardo esterno e maschile nelle immagini di anatomia, di questo vuoto nelle immagini e del di più nei corpi).
Gli organismi maschili e femminili hanno origine dallo stesso tipo di cellule e sono speculari e simili, dice De Beauvoir. Le differenze stanno nell’evoluzione somatica, quindi nella formazione dei corpi. Ma i corpi maschili e femminili, per De Beauvoir, rimangono comunque degli organismi similari, che includono gli stessi elementi, solo sviluppati in maniera diversa, includendo la possibilità di elementi sessuali differenti presenti nello stesso individuo (intersessualità), e individuando nei mammiferi tracce di bipotenzialità sessuale (utero maschile e ghiandole mammarie nel maschio, clitoride nella femmina).
Per quanto riguarda la specie umana, la conclusione di De Beauvoir sarà che le differenze dipendono soprattutto da condizioni sociali ed economiche. La differenza sessuale tra maschi e femmine, uomini e donne, dunque, non trova le sue radici soltanto nella biologia è condizionata da una “seconda natura”, (“una società non è una specie”, “gli individui non sono mai abbandonati alla loro natura ma obbediscono a quella seconda natura che è l’abitudine”).
C’è comunque un elemento che De Beauvoir rintraccia come costante negli organismi viventi e come determinante della differenza sessuale, ed è il concetto di “destino”, non a caso la parte all’interno della quale è incluso questo capitolo si chiama proprio così. Vale a dire quello che De Beauvoir definisce “l’essere schiava della femmina rispetto alla specie” e quindi alle esigenze riproduttive e conservative del collettivo a discapito dei desideri individuali di produzione e creatività (“nei mammiferi la scissione dei due movimenti vitali si realizza in modo definitivo nella differenza tra i sessi”, p. 48).
Formiche, api, ragni, farfalle, gli esempi sono tanti, ma la donna – sostiene De Beauvoir – è più schiava delle altre femmine animali rispetto alle esigenze proprie della specie. Il conflitto specie-individuo si realizza così nel corpo della femmina umana, che dalla pubertà alla menopausa – proprio durante quello che viene comunemente riconosciuto come il suo “periodo fertile” e dunque identificato con il suo “essere donna” – vive un processo di continua alienazione da sé.
Il corpo come elemento di alienazione nella donna è caratterizzante rispetto all’analisi che De Beauvoir fa della differenza sessuale. “La donna come l’uomo è il suo corpo, ma il suo corpo è altro da lei”, dice.
Sulla concezione del corpo della donna come “altro da sé” ed elemento di alienazione, è impossibile non pensare al lavoro che ha fatto Rosi Braidotti sul “femminile materno mostruoso”, dove il corpo femminile diventa “teatro privilegiato di eventi terrificanti”, o comunque inaspettati perché non aderenti a quanto viene riconosciuto come norma all’interno della cultura di stampo patriarcale. Questo essere a-normali delle donne scatena fantasie ricorrenti di minacce identitarie, dove il corpo femminile è associato spesso alla figura dell’isterica, ingestibile, divoratrice, tanto che anche il rapporto sessuale diventa la riproduzione di un rituale di castrazione (si pensi alle fantasie sulla vagina dentata, o anche – cito De Beaovoir – all’immagine dell’ovulo che sta in agguato e mutila lo spermatozoo).
C’è da tener conto del fatto che il corpo di una donna cambia forma in modo molto evidente nel corso della propria esistenza, sia ciclicamente che spostandosi in avanti nel tempo, come in una sorta di movimento a spirale. Mai uguale a se stesso, segnato dallo scorrere del sangue, ritorna diverso, in ogni giorno del mese e in ogni mese dell’anno. Questo implica il fatto che lo stesso riconoscimento di sé non è mai scontato. Una donna ha di solito ben presente la sensazione di sentirsi aliena a se stessa e di vivere una esistenza “di confine”.
A questo proposito, oltre al dibattito queer molto in voga oggi, penso agli studi cyborg degli anni Novanta (in particolare a Donna Haraway) che hanno messo in connessione donne e alieni e donne e macchine esplorando la permeabilità dei confini e il concetto di contaminazione.
Queste ricerche, insieme al filone cosiddetto ecofemminista sviluppatosi intorno alle correlazioni tra femminile e natura e femminile e sacro, ci parlano di un corpo spesso associato al non umano (inteso come naturale, macchinico o divino). In questo senso la donna, come direbbe Irigaray – anche se Irigaray si riferisce soltanto alle dimensioni umana e divina, e di sicuro non a quella macchinica o aliena – diventa “altro dal medesimo” (tanto più se intendiamo il medesimo come maschio, umano, bianco).
Sul nesso donne-natura c’è da dire che, inteso come equivalenza, è stato per lungo tempo alla base di dinamiche di prevaricazione, dominio e colonizzazione dell’immaginario da parte del pensiero patriarcale. Dunque è fondamentale tener conto oggi del fatto che anche quando viene individuata la necessità di ritornare alla natura per trovare un radicamento, per una donna non può essere un ritorno ingenuo, ma dovrà inevitabilmente essere un ritorno ‘con altri occhi’. Seguendo Haraway, per necessità storica si impone quindi l’abbandono sia di una visione femminilizzata della natura sia di una visione naturalizzata ed essenzialista della donna.
Quello che fa il concetto di “donna” è una complessa rete di connessioni biologiche e culturali, e storiche, ognuna di queste dimensioni significherebbe avere una visione distorta di ciò che siamo. Natura e cultura fanno tutt’uno (Haraway direbbe “naturcultura”) e in questo senso un corpo non è mai solo manufatto né soltanto destino, ma qualcosa che oscilla continuamente tra natura e cultura, che ci plasma ed è plasmato dal nostro modo di essere al mondo. Donna si diventa e donna si nasce, insomma, separare queste due dimensioni suonerebbe comunque riduttivo.
Tornando al “destino”. Dopo De Beauvoir il femminismo ci ha insegnato che un pensiero che parte dall’esperienza incarnata ha maggior peso e consistenza, ma ci ha anche raccontato che l’anatomia non per forza dev’essere un percorso obbligato. Se la consapevolezza di questa libertà assume le forme di un’emancipazione dal corpo stesso, però, il rischio può essere quello di lasciarsi assorbire dal disincarnato della storia.
Lavorando sul concetto di medicalizzazione a partire anche dal confronto con altre sull’esperienza mestruale, ho avuto modo di riflettere sulla cultura della corporeità in cui siamo immersi. Il modo in cui le donne vivono l’esperienza mestruale mi è sembrato allora un canale importante attraverso cui intercettare da una parte le contraddizioni del nostro tempo, dall’altra le fattezze di una cultura medica che ha sommerso altri modi di sapere e percepire il corpo bollandoli come privi di autorevolezza, e allo stesso tempo – facendo a pezzi il corpo e trasformandolo in macchinario complesso – ha precluso qualsiasi possibilità di abitarlo.
“La donna è conformata più secondo i bisogni dell’ovulo che i propri. Dalla pubertà alla menopausa essa è sede di una storia che si svolge in lei e che non la riguarda personalmente” scrive De Beauvoir (p.53), ed è così che dai racconti spesso l’esperienza mestruale emerge, come un avvenimento che non ci riguarda mentre accade.
Il sangue, fluido caldo e denso che scorre nelle viscere e si muove di un moto proprio, sfugge alla volontà causando ansia, disgusto, paura di contaminazione del mondo esterno. Al confine tra l’abietto e il meraviglioso, il sangue mestruale permea i confini tra dentro e fuori, sacro e profano, normale e a-normale, rientrando appieno nelle teratologie femminili di cui parla Braidotti (“la donna, come segno di differenza, è mostruosa”). Oltre al terrore della macchiatura – la macchia sporca, ma rende anche visibile qualcosa che si voleva tenere nascosto e taciuto – per molte donne oggi il sangue mestruale che fuoriesce dal corpo è avvertito come un fastidio, questo movimento dal dentro al fuori è subìto come un disagio che sfocia nella paura di perdere il controllo.
Sembra esattamente il contrario di quanto racconta Barbara Duden a proposito delle donne del 1700. Queste erano letteralmente terrorizzate da ristagni interni e “indurimenti” – come può essere l’assenza di mestruazioni o la riduzione del flusso mestruale – perché percepivano se stesse come “pura mescolanza di mucosità sanguinanti”. Un indurimento di questi fluidi significava pericolosi ristagni, avvicinamento della morte a cospetto di un fluire che indicava la vita. Oggi, dice Duden pensando “al flusso nel corpo e al corpo come flusso”, ci siamo “seccate” non siamo più corpi che “trasudano sangue”, “i flussi somatici, ancora contemplati dal vocabolario, in noi si sono essiccati” (Duden, 2006, p. 27).
Anche l’immaginario che ruota attorno alle ‘pillole’, anticoncezionali o analgesiche, è molto interessante per capire che tipo di cultura della corporeità caratterizza il nostro tempo. La pillola è piccola, veloce, indolore, contribuisce all’occultamento dell’esperienza mestruale riducendone l’intensità e la percezione non solo in termini di fluidi – nel caso della pillola anticoncezionale è l’intero processo dell’ovulazione a non avere luogo – ma anche in termini di umori e stati d’animo. Che si parli di sesso o di performance lavorative: la pillola autorizza un altro a pretendere il tuo essere sempre a disposizione. In un certo senso, è un’altra versione dell’addomesticamento: un piccolo marchingegno sociale per tenere a bada la parte più imprevedibile e selvaggia, la parte ‘fertile’ intesa in senso ampio, una dimensione che continua a spaventare e infastidire. “Con la pillola [la donna] interiorizza un comando chimico”, scrive Duden. Da questa prospettiva la pillola è uno strumento di controllo eterodiretto sui corpi, prima ancora che di auto-controllo.
Per quanto riguarda l’ingresso e l’esodo da quello che viene definito il “periodo fertile” di una donna, e che coincide con il fluire del sangue mestruale – e con il concomitante occultamento culturale di questa esperienza –, sono entrambe fasi concepite nell’immaginario collettivo come l’inizio e la fine dell’essere “una donna”. Invece ho trovato interessante che De Beauvoir parli della menopausa come un tornare a se stesse, definendo quell’età come un terzo sesso “esse non sono né maschi, né femmine, e spesso questa autonomia fisiologica si manifesta con una salute un equilibrio un vigore che prima non possedevano” (p.55). Leggendo di medicina tradizionale cinese, ho trovato una corrispondenza, ho scoperto che la fine delle mestruazioni – che noi chiamiamo “menopausa” – viene chiamata “seconda primavera” e che questa fase di vita non è intesa nell’ottica di una perdita a cui sopravvivere, ma in quella di una conservazione di energia vitale ponderata da un corpo saggio a cui affidarsi.
Per chiudere: che ne è stato della trasmissione dei saperi sui corpi tra donne dopo il movimento per la salute delle femministe negli anni Settanta? Io, altre, nate negli anni Ottanta, ce lo siamo chieste. Dal tempo in cui le donne individuavano una gravidanza in base alla percezione di un “movimento sotto al cuore” a quello dei test e delle ecografie ad ultrasuoni, sono successe un sacco di cose. Ma dopo l’espropriazione dei saperi sul corpo da parte dell’apparato medico-scientifico, c’è stato anche un forte e potente lavoro politico praticato dalle donne per la salute. Un lavoro che è stato molto proficuo anche in Italia negli anni ‘70, come racconta bene Luciana Percovich, e che è stato complesso e variegato. Dai gruppi di self help ricalcati sul modello americano, ai consultori autogestiti, agli incontri di autocoscienza.
Quello per la salute delle donne è stato un vero e proprio movimento che ha lavorato sodo per scardinare i capisaldi dell’immaginario promosso dal discorso medico-scientifico patriarcale sui corpi. Dopo però, si è interrotto qualcosa. Il discorso delle donne impegnate sui temi della salute si è spostato dai corpi alla scienza, dalla pratica in presenza all’accademia, con la critica della neutralità e dell’oggettività scientifica e la scoperta della parzialità come valore irrinunciabile, l’esperienza dei corpi in relazione tra donne ha subìto una battuta d’arresto, il discorso sulla sessualità è andato sotto-traccia, i consultori istituiti per legge come “familiari” (etichetta che già ne snaturava l’esigenza per cui erano nati) da luoghi di partecipazione e trasmissione di saperi tra donne sono diventati parte integrante dell’istituzione medica e della sua cultura gerarchica e neutra, per di più marginalizzati all’interno di questa come luoghi a cui ricorrere solo in casi di “emergenza”.
L’andamento carsico della parola femminista sulla sessualità, sulla salute, sui corpi è andato insieme all’intermittenza nella trasmissione, e oggi in più contesti si è fatta evidente l’urgenza di riprendere parola su queste istanze di autodeterminazione a cominciare dalla materialità delle esperienze, rimettendo quindi al centro i corpi nella loro interezza, la possibilità di saperli abitare e non di subirli come un fardello. Da questa esigenza è nato anche il lavoro che sta facendo Livia Geloso con altre sue coetanee e donne nate dopo.
C’è, da parte delle donne più grandi, tanta voglia di raccontare quello che è stato fatto ed è andato perso di bocca in bocca senza lasciare troppe impronte sulla carta, e da parte delle più giovani tanta voglia di chiedere sulle pratiche, desiderio di raccogliere memoria ma anche voglia di capire oggi quali pratiche e perché il corpo resta un continente sommerso da altre urgenze come il lavoro, la precarietà esistenziale, le condizioni materiali di queste esistenze troppo spesso incorporee.
Dopo mesi in cui parlavamo solo di lavoro, sentire il corpo nel nostro quotidiano è stata la pratica che con le altre del mio collettivo (‘Diversamente Occupate’) ci ha portate ad interrogarci sulla sessualità come un qualcosa di non sconnesso dalle urgenze “di superficie”. Affinando questo sentire siamo state capaci di porre delle condizioni prima ancora di pretendere dei diritti, rispetto al nostro modo di stare nel mercato del lavoro attuale.
E il self-help? Io ne ho sentito parlare sui libri, ma è stato incontrando Livia e le altre che ne ho potuto ascoltare testimonianza diretta e mi è apparso subito chiaro che il meccanismo della delega all’autorità medica non è ancora stato rotto all’interno della nostra cultura della corporeità.C’è da riconoscere, proprio in un momento che ci viene raccontato come l’apice della nostra evoluzione di società, che l’autosservazione dal vivo come smascheramento e rottura della delega ha funzionato come pratica molto potente, e in pochi anni è passata sotto silenzio. “L’utero può assumere la forma di una lineetta, di un cerchietto, di un puntino”, “osservato al microscopio il muco dell’ovulazione cristallizza a felce, come la neve”, “i colori e le consistenze che cambiano”, raccontano le donne del self-help romano. Sguardi totalmente incarnati. Tutto questo mi dice che mi sono persa qualcosa, qualcosa che mi riguarda eccome. Che quello che è qui in me, già adesso, l’ho dimenticato per troppo tempo. Ora si tratta di riprendere il filo, accogliendo la sfida di sostenere la complessità del presente e le sue apparenti incongruenze.