Il percorso di Diversamente Occupate ha avuto inizio con la stesura dei due numeri di DWF nel 2010, Diversamente Occupate e Lavoro. Se e solo se, è proseguito con una serie di incontri con singole donne e gruppi in diverse città italiane, ha poi visto l’ingresso nel gruppo di Valeria Mercandino e Roberta Paoletti, provenienti dalla mobilitazione in difesa dell’Università pubblica, si è infine aperto al confronto con realtà miste, entrando a far parte del comitato promotore della manifestazione contro la precarietà Il nostro tempo è adesso, la vita non aspetta.
Lo scambio con altre e altri ha confermato quello a cui noi avevamo provato, con i due numeri di Dwf, a dare parola. L’impossibilità di ridurre la questione del lavoro al dibattito sulla precarietà, ad un problema generazionale, all’assenza di prospettive di stabilizzazione esistenziale, occupazionale ed economica. Allo stesso modo è diventata sempre più evidente l’impossibilità di porre come dimensione entro cui collocare le nostre lotte qualsiasi disegno di riforma che lasciasse inalterata l’attuale concezione della vita produttiva, dei corpi asserviti alla produzione e al consumo, in una disponibilità permanente che ci priva, al contempo, della dimensione del comune.
Ci siamo allora messe alla ricerca di quei nodi che rendono possibile il nostro adattamento alle dinamiche della produzione e del mercato del lavoro – ricerca di status, isolamento, svalorizzazione della sfera pubblica, abitudine alla delega, ricerca di realizzazione nel lavoro – riconoscendo nel corpo indisponibile alle misure del mercato una sorta di anello mancante che fa saltare la catena dell’auto-moderazione e apre all’imprevisto possibile.
Così è nata la proposta di aprire un dibattito, speriamo il più largo e intenso possibile, sul diritto universale alla maternità come diritto – per donne e uomini – di un tempo ed uno spazio generativi, sottratti al paradigma della produttività che rende i corpi sterili.
A monte c’è l’analisi di Pateman dello stato sociale patriarcale, in cui il criterio principale di cittadinanza è rappresentato dall’indipendenza e questa a sua volta è costruita su abilità e attributi maschili, ricavando per difetto una dipendenza tutta declinata al femminile.
Il confronto sul piano dell’attuale modello di cittadinanza e di welfare prevede per Pateman due alternative possibili: che le donne aspirino, e riescano, a diventare come gli uomini o che continuino a vivere come cittadine svalorizzate per il loro lavoro “da donne”.
Al contrario, è quel modello di stato sociale a dover entrare in crisi, con il proprio soggetto di diritto e con il proprio sistema simbolico, come retorica della responsabilità individuale privata e privatistica.
Com’è possibile questa operazione?
Pateman ci dice che perché si dia piena cittadinanza delle donne lo stato sociale deve assumere come valore sociale la responsabilità nei confronti degli altri; solo così “l’opposizione tra l’indipendenza maschile e la dipendenza femminile si rompe, e si va sviluppando una nuova conoscenza e pratica di cittadinanza. La dicotomia patriarcale, che separava le donne dalla cittadinanza basata sull’indipendenza e sul lavoro, sta subendo un cambiamento politico, e le basi sociali dell’idea di un’occupazione (maschile) a tempo pieno si stanno sgretolando. E’ visibile l’opportunità di creare una democrazia genuina, di spostarsi da uno stato del benessere ad una società del benessere senza esuli sociali involontari, di cui le donne, così come gli uomini, possano fare pienamente parte”.
La proposta di diritto universale alla maternità raccoglie questa ambizione e per questo motivo parla a tutte e tutti. Perché non è solo rivendicare il diritto alla maternità per quelle donne lavoratrici a cui non è riconosciuto – le precarie e le lavoratrici autonome – ma è riconoscere un tempo ed uno spazio non produttivi nel senso capitalistico del termine, è riconoscere un tempo riproduttivo, generativo, dedicato alla cura, di sé, dell’altro. E’ riconoscere ai cittadini, donne e uomini, il tempo della rigenerazione dei corpi, prendere atto del fallimento del paradigma della produttività a tutti i costi.
Lottare tutti insieme, donne e uomini, per un diritto esplicitamente sessuato come quello alla maternità universale, significa mettere in piedi un’alleanza tra donne e uomini, per una cittadinanza che veda la produttività dipendere dalla cura. Per lavoro di cura intendiamo non quello che donne e uomini svolgono quando si occupano di una casa, dei figli, degli anziani, ma un modo di fare e trasformare, una cura che si manifesta anche nel processo di produzione e di lavoro, cura dell’organizzazione, che deve poter allargarsi ed essere riconosciuta come cura dei contesti, cura delle attività, cura del bene comune, cura dell’ambiente in cui si vive.
Eccola la maternità, così intesa, non come mettere al mondo un figlio, ma come trasformare il mondo, avere un modo altro di pensarlo. Allora ecco che il paradigma della riproduzione come cura – paradigma pensato dalle donne – diventa quello di tutti, diventa il nuovo paradigma del mondo e del mondo del lavoro.