di Ludovica De Joannon
Introduzione
Lemma plastico, fecondo, sempre parlante: femminismo. Sotto il suo lume si raccoglie una molteplicità con cui è arduo ed entusiasmante confrontarsi. Si tratta di storie incarnate e articolate a partire dalla propria contingenza, a contatto le une con le altre. Una polifonia sempre più ampia e coinvolgente di voci alle quali mi sembra impossibile rendere giustizia: voci che hanno animato e discusso il passato e voci che infervorano e interrogano il presente; voci che non si sono mai realizzate, tenute segrete e andate perdute; voci che non trovano un canale di trasmissione, che dimenticano se stesse e che vengono dimenticate.
Prenderò le mosse, in primo luogo, da quello che ha scosso la mia emotività, catturato la mia attenzione, eccitato la mia curiosità. Mi sembra questo un modo sincero per inserirmi nella pluralità ora armoniosa ora dissonante che articola costantemente le riflessioni sul femminismo.
Viviamo in una società in cui riflettere sul rapporto – economicamente, culturalmente, linguisticamente, politicamente mediato- tra i sessi sembra a molti un gioco teorico spiralizzato su se stesso. Svariate volte ho visto schiudersi discussioni interessanti intorno a questa parola – femminismo – per essere immediatamente chiuse, con gestualità infastidita, da chi si accontentava di dirsi che tanto, oggi, “uomini e donne sono uguali”. Mi sono chiesta se un’espressione di questo tipo potesse essere il prodotto di una stanchezza generale e strisciante, un malessere che invoglia a chiudere gli occhi sui problemi che emergono dalle maglie della vita associata; l’ansioso tentativo di mantenere un quieto vivere su cui facilmente possono far leva politiche che, con pericolosa disinvoltura, comunicano attraverso slogan semplici e semplificatori.
Che cos’è stato a creare insofferenza in chi, per un motivo o per un altro, non si è sentito coinvolto nel dialogo avviato dal pensiero femminista?
È anche vero, tuttavia, che stiamo assistendo a un profondo cambiamento nella sensibilità pubblica per quanto riguarda la questione del gender, grazie anche allo stimolo estetico-visivo dei social media. Dunque, completando l’interrogativo precedente: da quali errori sta prendendo le mosse questo rinnovato interesse?
Ciò che mi è capitato di percepire, durante improvvise conversazioni intorno al femminismo (lapidarie e sconfortanti) è stato un vago disappunto, un’impazienza sottesa, una frustrazione che troppo spesso trova conforto nell’idea che sia inutile sviluppare un pensiero sulla differenza sessuale.
Se oggi “uomini e donne sono uguali”, in fondo, perché sforzarsi di parlarne?
«On ne naît pas femme: on le devient»
Donna. Che cosa tiene unite queste cinque lettere dominate da una maiuscola? Che cosa si nasconde sotto questo termine? Un’essenza universale? Un’ineluttabilità biologica? Si tratta di domande che interrogano la soggettività femminile così come le strutture egemoniche di pensiero la consegnano alle pratiche discorsive e alla sensibilità pubblica, all’interno di un sistema in cui la divisione sessuale del lavoro («[…] ha relegato le donne dapprima nella dimensione domestica – facendo così della famiglia etero-normata e mononucleare il cardine della riproduzione sociale -, in secondo luogo includendole nel mercato del lavoro a mezzo di nuove violenze, disparità e ingiustizie»). Le parole consegnate da Simone de Beauvoir, in un’intervista del 1975, sono chiare: («Essere donna non è un dato naturale, ma il risultato di una storia. Non c’è destino biologico o psicologico che definisce la donna in quanto tale. Tale destino è la conseguenza della storia della civiltà, e per ogni donna la storia della sua vita»). Restituire alla singolarità esperienziale di ciascuna la facoltà di produrre una soggettività pensata come femminile rappresenta un punto di svolta focale. Significa permettere alle donne e, in generale, a tutte le soggettività che non rientrano, non si identificano e incrinano con la loro presenza le logiche del binarismo di genere, di riappropriarsi della possibilità di pensarsi, crearsi e presentarsi attraverso modalità discorsive nuove, categorie impreviste o, anche, per mezzo della sottrazione delle stesse. Se, infatti, non esiste un’essenzialità aprioristicamente posta e se si riconoscono i contesti, la contingenza, gli spazi della vita associata come luoghi di produzione di soggettività (così come di valori, norme, abiti cognitivi, comportamentali, linguistici etc.), allora si può pensare in un modo più ampio, libero, fluido.
Solo così il femminismo può scendere tra di noi, nell’ambito dell’esperienza, della corporeità e della territorialità vissute da singoli soggetti che si mettono in gioco, quando aperti al confronto, al dialogo, allo scambio e alla condivisione con gli altri.
Non un soggetto identitario – le donne o la Donna- ma un discorso
Quando nel 1928 si trovò a parlare nei collegi femminili di Newnhan e Girton sul rapporto tra donna e scrittura, Virginia Woolf si pose una serie di domande che trascendevano la dimensione artistica e invadevano con urgenza gli ambiti del sociale, del politico, dell’economico e tutti quei luoghi fisici e simbolici di esclusione di genere. Non soltanto quale fosse («[…] l’effetto della povertà sulla mente; e quale l’effetto della ricchezza sulla mente»), ma la pensatrice inglese si dedicò anche («[…] all’effetto della tradizione e della mancanza di tradizione sulla mente dello scrittore») giacché («[…]essendo donne, dobbiamo pensare attraverso le nostre madri»). Credo che sia interessante leggere la riflessione woolfiana alla luce di una sensibilità più recente, riattivando l’interrogativo proposto dall’autrice e chiedendoci (senza toccare l’esigenza artistico-trascendentale di un matrimonio di contrari, ovvero di una mente androgina priva di autopercezione sessuale) come si struttura questa eredità linguistica, com’è fatta, cosa implica e cosa esclude. L’immagine dello specchio proposta e altrove riformulata, ci viene in soccorso. La donna, ci dice la Woolf, è lo specchio – magico, delizioso, pericoloso – dell’uomo: non un soggetto attivo ma un oggetto passivo, riflettente, deformante. È grazie all’ordine di vita condotto dalla Donna (domestico, privato, mite), che l’Uomo consolida e potenzia il proprio (esterno, pubblico, vigoroso). È un gioco di contrapposizioni. Un gioco che produce, da un lato, un oggetto privo di una propria immagine (e, possiamo tradurre, di una propria voce, un proprio linguaggio, un proprio universo semantico e semiotico), dall’altro, un soggetto teso nel tentativo di ridurre l’ineluttabile distanza tra la realtà dell’esperienza vissuta e la proiezione distorta dallo specchio stesso (penso, per esempio, ai preconcetti di mascolinità, virilità etc. posti a modello universale).
È dunque pericoloso pensare attraverso le madri utilizzando paradigmi forgiati, modellati e sagomati dall’esterno, dall’esperienza universalizzata e neutralizzata del “maschile”: («[…]da Platone a Freud, ogni volta che si dà un sapere sistematizzato sugli uomini e sul mondo, la donna ha una funzione precisa: la donna, la madre, il femminile, servono al soggetto per proclamarsi autonomo, dotato di un pensiero neutro e universale, valevole per tutti, padrone di un oggetto, che descrive secondo pretese di verità, ma la verità è quella di un solo sesso, quello maschile»).
Quindi la domanda sorge spontanea: come può il femminile evadere dal limitato contenitore in cui è stato rinchiuso? Come si può frantumare la superficie dello specchio? Che cosa implica riconoscere la differenza tra equità e uguaglianza? Come si esce dalle ideologie che, («[…] attraverso le forme ragionate di potere (teologico, morale, filosofico, politico), hanno costretto l’umanità a una condizione inautentica, oppressa, consenziente»)?
Virginia Woolf parlava nel 1928, anno del riconoscimento del suffragio universale femminile nel Regno Unito. All’epoca lo slogan EQUAL RIGHTS era schietto, diretto, non fraintendibile. Si trattava di una lotta prebellica e postbellica che mirava a un obiettivo tangibile ed esercitabile: il voto. Quindi fu (in primis ma non solo) una lotta di riconoscimento politico, di uguaglianza nel senso di equità di quel secondo sesso escluso dal dibattito e dalla prassi pubblici.
Ma bastò concedere loro un diritto, il diritto al voto, per cancellarne le storie?
Ogni donna porta con sé la storia di tutte le altre. E, dunque, cosa ne fu delle donne che non furono direttamente toccate da questo evento storico?
Mi domando cosa abbia portato così tante persone a credere ancora, oggi, alla formula “uomini e donne sono uguali”. Sembra quasi una magia. Un incantesimo inquietante e pericoloso.
Dopotutto, sono tanti i nodi che rimangono irrisolti nel momento in cui tra i rischi dell’inclusione, nel momento in cui non si apporta alcun cambiamento strutturale al sistema in cui viviamo, vi sono quelli dell’assimilazione neutra, del travestimento dell’equità in uguaglianza, della trasposizione di una minoranza dal fuori al dentro senza smettere di considerarla tale.
Riporto, come esempio, una domanda apparentemente semplice ma da cui emerge il modo in cui il maschile-dominante ha sempre visto la donna, seppur accettandone alcune pretese:
(«Ci basta la parità salariale quando abbiamo già sulle spalle ore di lavoro domestico?»).
Stronger together
Se le rivendicazioni portate avanti dai vari femminismi hanno spesso intrapreso la via della mancata cooperazione, l’attuale discorso femminista si sta aprendo a una molteplicità di tematiche e soggetti inclusiva, sensibile e sempre più incline a vedere nella diversità non una dissipazione di energie, ma un reciproco potenziamento. Le eterogenee condizioni di oppressione patriarcale, infatti, sono tasselli incastrati tra loro e indispensabili per ottenere una visione d’insieme più autentica.
È questo, sicuramente, un accento che il movimento Non Una Di Meno, a partire dall’esperienza delle sorelle argentine di Ni Una Menos, intende porre, assumendo («[…] la complessità come presupposto, valorizzando le molteplici e ineliminabili differenze che caratterizzano gli individui e le comunità, al fine di trasformare la società nella direzione dell’equità, della giustizia, della parità, della pluralità»).
Complessità, dunque, e non neutralizzante semplificazione dei contesti, diversi nelle rispettive coordinate simbolico-materiali. È qui che il corpo di ciascun@ è immerso, prodotto, plasmato. È qui che dispositivi di potere, basati sul binarismo di genere, insistono nel mantenere il maschile (in particolare, il maschile nella sua forma privilegiata benestante, bianca ed eterosessuale) in una posizione dominante.
Il lemma femminismo, oggi, estende ancora di più la propria capacità comprensiva: si parla allora dell’iperonimo transfemminismo che, insieme a intersezionismo, pone lo sguardo su tutte le forme di discriminazione e su tematiche precedentemente poco frequentate (come, per esempio, l’urgente questione ecologica). Va detto, tuttavia, che forme di discriminazione si sono prodotte all’interno degli stessi movimenti di liberazione femminile, quando non sono stati in grado di teorizzare e restituire alle esperienze pratico-territoriali le dinamiche di potere instaurate tra sesso, razza, classe, orientamento sessuale, identità di genere etc.
La denuncia a questa pericolosa complicità trova una rigorosa sistemazione nel saggio della militante, filosofa e femminista Angela Davis, scritto sì durante gli anni del carcere (1971) ma tradotto e diffuso in Italia solamente un anno fa grazie al lavoro di Cinzia Arruzza.
Angela Davis, infatti, ripercorre le esperienze dei movimenti di emancipazione femminile negli Stati Uniti d’America mostrando il («[…] legame sistematico tra la schiavitù dei Neri al sud, lo sfruttamento economico degli operai al nord e l’oppressione sociale delle donne»).
La riflessione della Davis, tuttavia, non si limita a essere una preziosa testimonianza storica di un percorso tracciato come se avesse una teleologia intrinseca tale da condurlo a momenti risolutivi fondamentali per tutte le militanti. Mette in luce, invece, un altro aspetto più problematico e contraddittorio: il rapporto, troppo spesso conflittuale, tra le posizioni delle donne americane bianche appartenenti alla middle-class e alla working class, e le posizioni delle donne americane Nere, in cui più assi di potere intersecati le ponevano in una situazione ancora più complessa. Anziché leggere i punti di sofferenza come comuni e, quindi, punti strategici per sostenersi, supportarsi, potenziarsi reciprocamente, le donne vissero all’interno delle rispettive esperienze, trovando raramente canali di comunicazione.
Anzi, come riporta lucidamente la Davis, «[…] razzismo e sessismo frequentemente convergono e la condizione delle donne lavoratrici bianche è spesso legata allo status oppressivo delle donne di colore».
L’uomo e la donna sono uguali?
Durante la seconda ondata degli anni Settanta del XX secolo, la maturazione di una nuova coscienza comune delle donne condusse a momenti topici nella storia dei movimenti di liberazione. Certamente, la possibilità di analizzare con sempre più acume la struttura gerarchica e gerarchizzante di una cultura etero-normata consegue le conquiste ottenute, specialmente in Europa, durante la prima metà del secolo.
Oggi più che mai, però, problematizzare il concetto cardine di uguaglianza è fondamentale per svuotare di efficacia la domanda che dà il titolo a questo paragrafo. Dire distrattamente che “uomini e donne sono uguali” è troppo semplice. Bisogna, invece, sforzarsi di mantenere vivo il dibattito attorno all’istituzionalizzazione e alla normalizzazione di un sistema in cui classismo, sessismo e razzismo cooperano alla produzione di un surplus di capitale sempre maggiore (il cui beneficio – se di beneficio si può parlare – tocca una piccola parte della popolazione mondiale, a discapito della maggiore).
Il pensiero intersezionista, dunque, ci mette di fronte a una serie di assi di oppressione che strutturano le gerarchie in cui, in base a una serie di caratteristiche (fortuite o meno), veniamo collocati e stratificati nella vita associata. Ovviamente, i soggetti possono essere attraversati da più assi di oppressione e questo ci restituisce una complessità di dinamiche di resistenza che non vuole essere meramente semplificata ma desidera essere accolta in tutte le sfaccettature di cui si compone. Bisogna considerare tutti i fattori che concorrono a porre il soggetto tra le vittime piuttosto che tra i privilegiati e avere il coraggio di affrontarne ogni conseguenza, non solo quelle più evidenti o che ci riguardano direttamente.
Non è un caso che, infatti, il femminismo intersezionale maturò nei gruppi femministi di donne nere e/o lesbiche. Furono loro a rendersi conto di subire discriminazioni multiple: in quanto donne, in quanto nere, in quanto lesbiche. Ci troviamo nel pieno degli anni Settanta.
Per questo motivo le lotte delle femministe che, a partire dal XIX secolo, vennero portate avanti per ottenere libertà fondamentali, diritti politici, sociali ed economici (anche qui, il mio riferimento si basa soprattutto sull’esperienza europea e statunitense) rischiano di storicizzarsi e allontanarsi dalle pratiche contemporanee se non vengono riattivate alla luce di nuove consapevolezze ed esigenze. Sappiamo oggi come l’uguaglianza ottenuta, che trova una delle massime espressioni nel suffragio universale femminile, sia sempre situata all’interno di un sistema strutturato nei secoli, patriarcale, capitalista, colonialista: l’uguaglianza deve poter essere ripensata in chiave di differenza e non di assimilazione.
Pensare in termini più ampi, comprendendo tutte le soggettività ancora al margine dello spazio pubblico normalizzato, farebbe tacere chi legge il femminismo come un movimento ostile nei confronti del maschile.
È un qualcosa di più complesso. Più profondo. Più attento.
Simone de Beauvoir, in una conferenza tenuta in Giappone nel 1966, ci mise in guardia a proposito di questo. La filosofa francese si pronunciò in modo illuminante circa il regresso della condizione femminile nei diversi paesi in cui, paradossalmente, le donne avevano ottenuto gli stessi diritti e trattamenti degli uomini. Se gli Stati Uniti erano alle prese con politiche economiche volte a trasformare le donne in consumatrici ideali, la Francia non era da meno: («[…] Da un lato la democrazia borghese vorrebbe essere una democrazia, cioè un regime in cui c’è uguaglianza perfetta tra tutti i cittadini […] Ma dall’altro lato la democrazia borghese è borghese, cioè significa che la direzione del paese appartiene a una certa classe; la quale vuole naturalmente conservare i propri privilegi, il proprio ruolo dirigente, cioè l’ordine stabilito […] che è fondato sulla disuguaglianza»).
Si tratta, con le dovute differenze ed evoluzioni, del medesimo problema: se la differenza non viene accolta come tale ma assimilata solamente in seguito a una serie di mediazioni sterilizzanti e indirettamente coercitive, allora non avremo ottenuto che un ampliamento di un sistema ingiusto e già in atto, produttore di minoranze e soggettività destinate ad essere («[…] nutrimento per l’espansione dei mercati secondo la grammatica neo-individualistica della democrazia fondata sulla libertà mercantile»).
Una visione per apposizione:
Ci sono insetti, tra cui mosche e libellule, che possiedono occhi composti: migliaia di ommatidi (occhi elementari) isolati e in posizione stabile restituiscono all’animale singoli tasselli d’immagine che, sommati, la costituiscono nella sua interezza. Si parla di visione per apposizione. Un sistema di questo tipo ricorda, inoltre, la modalità adottata recentemente per ottenere la prima immagine di un buco nero, attraverso diversi radiotelescopi sparsi per il mondo e collegati tra loro, dal Cile all’Antartide. Sebbene il buco nero in questioni si trovi a circa cinquantacinque milioni di anni luce dalla Terra, dalla somma dei frammenti ottenuti dai diversi dispositivi, ne è stata ottenuta un’immagine piuttosto soddisfacente. È sorprendente pensare a come, invece, ciò che avviene a distanze estremamente più ridotte arrivi talvolta da fonti talmente filtrate e manipolate da non essere più veritiere. Passano attraverso le mani e le valutazioni degli esseri umani che faticano a non imprimervi il proprio interesse.
Le esperienze interne al femminismo non sfuggono a queste dinamiche di alterazione, venendo spesso silenziate sia dall’azione diretta di dispositivi di potere che dagli effetti indiretti degli stessi, nella gestione della sensibilità e dell’attenzione di chi vi è assoggettato.
Quello che intendo dire è che, se le libellule e le mosche hanno un’efficiente capacità percettiva di minimi movimenti grazie alla giustapposizione di molteplici occhi, sarebbe sicuramente un beneficio adottare lo stesso tipo di visione. Dovremmo imparare da loro – mosche e libellule- a indirizzare la nostra attenzione verso i dettagli, gli aspetti meno visibili e trasparenti. Dovremmo sentirci coinvolti anche da ciò che facciamo più fatica a comprendere (perché territorialmente o culturalmente distante da noi) e non sfruttare le circostanze per fingere che non ci riguardi. Questi dettagli, che dettagli non sono, devono essere assunti come necessari, nella loro singolarità, per ottenere l’immagine completa, in quello che rimane un processo infinito di approssimazione continua.
In un mondo sempre più connesso, la facilità con cui veniamo a contatto con le storie degli altri rischia di privarle del loro autentico valore.
(«Troppa informazione uccide l’informazione»).
E anche questo genera stanchezza: l’essere immersi, costantemente, nei contenuti che i mass media ci offrono: semplici e superficiali, non richiedono grandi sforzi e non stimolano il pensiero. Finiamo, così, per adagiarci su linguaggi e prospettive omologanti.
È per questo che dobbiamo partire, come sostiene il movimento Non Una di Meno, da una “politica del posizionamento”, allontanandoci da un modo di pensare che vanifica la contingenza, la situazionalità delle prospettive in nome di un’universalità neutralizzante.
Non possiamo più accettarlo.
Abbiamo bisogno, invece, di femminismi plurali e vigili, che sappiano dialogare a lungo e con tutti e che riescano a turbare anche le coscienze di chi, con uno svolazzo di mano e gli occhi al cielo, mi ha detto sovente: “uomini e donne sono uguali”.
Bibliografia
DAVIS, A. Donne, razza e classe, Roma: Alegre. 2018.
DE BEAUVOIR, S. “Situazione della donna di oggi” in Quando tutte le donne del mondo… A cura di C. Franci, F. Gontier, Torino: Einaudi. 2006.
GIARDINI, F. Il divenire dei conflitti. Per una politica dei corpi sessuati.
GIARDINI, F. La differenza sessuale tra pensiero e teoria.
IRIGARAY, L. Speculum, dell’altro in quanto donna, Milano: Giangiacomo Feltrinelli Editore. 2017.
NON UNA DI MENO, Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere.
TODOROV, T. Lo spirito dell’Illuminismo, Milano: Garzanti Elefanti. 2007.
WOOLF, V. Una stanza tutta per sé, Milano: Giangiacomo Feltrinelli Editore. 2017.