Il senso del lavoro a partire dall’esistenza: dalla sicurezza all’accuratezza

Centro Donna “Liliana Paoletti Buti”, Livorno, 13 marzo 2013

Abbecedario del lavoro femminile/2 – Dalla sicurezza all’accuratezza
Simona Cerrai, Antonella Faucci, Maria Pia Lessi, Jacqueline Monica Magi, Oriana Rossi

Presentazione di Teresa Di Martino

 

In questo Abbecedario troviamo un aggiornamento sugli interventi normativi degli ultimi due anni che hanno causato un ulteriore stravolgimento del diritto del lavoro, quello sancito dalla costituzione e fondato su “parole luminose” – come voi le definite: scelta, possibilità, esistenza libera e dignitosa, progresso materiale e spirituale, parole piene di un senso storico e politico annientato dal pensiero unico del pareggio di bilancio e delle parole molto meno luminose (spread, pareggio di bilancio, fiscal compact, crisi finanziaria) che ci invadono la quotidianità, entrano nel sentito comune, dettano le scelte nazionali e sovranazionali, ma che si dimenticano dei corpi e delle vite.

 

Gli ultimi interventi normativi:

–         L’art.8 del 2011 (che introduce la deroga dei contratti aziendali ai Contratti Collettivi nazionali e alle disposizioni di legge)

–         Aumento età pensionabile

–         Pareggio di bilancio in costituzione

–         Riforma Fornero

 

Questo per dire cosa è accaduto nel nostro paese con il passaggio dal governo Berlusconi al governo (non tecnico) che ha portato avanti la politica liberista e di destra di chi lo ha preceduto. Ma anche per dire quanto sia ancora lontana la politica istituzionale dalla politica delle donne, quella che invece parte dai corpi e dall’esperienza del quotidiano, dalle condizioni materiali.

 

E torno all’Abbecedario.

 

Qui si parte nel rintracciare la differenza sessuale nella parola SICUREZZA, da “sine cura”, senza preoccupazione, che vede, nelle diverse genealogie maschili e femminili uomini armati e donne amate e riconosciute.

Si parla allora di cura come paradigma dei tempi nostri, quelli della precarietà. Dove per cura io ho chiara in testa la distinzione che ne faPina Nuzzo dalla manutenzione. Leggo dal suo intervento all’anteprima al XV congresso nazionale dell’Udi nell’ottobre 2011:

Quello che si svolge fuori dalle mura domestiche viene considerato lavoro ed è retribuito, quello che si svolge fra le pareti domestiche viene definito lavoro di cura. Il primo è prevalentemente considerato maschile, il secondo è una prerogativa femminile. In realtà si opera una confusione quando si mettono sullo stesso piano cura e manutenzione rendendo molto complicata la condivisione dell’una e dell’altra nella gestione della vita quotidiana. Si chiama cura l’insieme dei gesti amorosi e gratuiti di un soggetto verso un altro, la cura può essere maschile o femminile, materna e paterna e non è negoziabile. La cura richiede impegno e un pensiero costante e attento per qualcuno o per qualcosa. Essa non è solo accudimento, ma attraverso la cura si impara/insegna la relazione con le persone con il mondo e si apprendono/insegnano i comportamenti. Si chiama manutenzione quell’insieme di operazioni quotidiane di cui ogni donna ha esperienza, senza le quali una casa piomba nel caos. Questa fatica è invisibile, è gratuita e non è riconosciuta. Una retribuzione è prevista solo se questo lavoro lo fa un’altra, più raramente anche un altro, in genere a ore. La manutenzione si può condividere e negoziare, addirittura contrattualizzare, la cura chiama in causa entrambi i genitori o i soggetti di una relazione.La cura non è lavoro, anche quando è faticosa, essa è la cifra di una relazione, ma allo stato attuale è difficile separarla dalla manutenzione, da tutte quelle azioni che fanno di una casa uno spazio vivibile ed armonioso.

E’ difficile perché entrambe, cura e manutenzione, sono perlopiù a carico delle donne nel nostro paese.

 

Ma la cura, la cura delle cose, la cura del territorio, la cura dei luoghi, la cura delle relazioni, la cura del pensiero e delle pratiche, così come degli spazi politici e delle attività produttive, materiali e immateriali, è cura del mondo, è quella che permette di tenere insieme i fili, nonostante tutto, e di ritrovarci qua, ogni volta. Sono molte ormai le femministe che pensano alla cura così intesa come modello generale, come pratica di potere. La questione è controversa, perché se da una parte la cura è quell’attività – come dice Trontoche include tutto ciò che noi facciamo per conservare, continuare e riparare il nostro mondo in modo da poterci vivere nel miglior modo possibile, dall’altra non possiamo dimenticare, e ce lo ricorda Cristina Morini, che dietro e dentro il concetto di cura si celano anche il sudore, il sudiciume, le lacrime, l’oblatività, la noia […] la cura rimanda anche a esperienze non care alle donne. Ruoli imposti, costruzioni sociali, obblighi, norme naturalità innaturali.

Nel convegno dell’Associazione internazionale delle filosofe in Italia di marzo 2012, dedicato al lavoro, dicevo che la cura relegata all’ambiente domestico, come cura di sé, dell’altra/o, è “solo” accudimento, responsabilità, norme, ma per farsi politica deve diventare pratica sociale di tutti, de-naturalizzarsi. Come? La cura non è amore incondizionato, ma è cura delle condizioni. Agire la cura là dov’è il mio desiderio, ri-pensare gli spazi e i tempi non produttivi nel senso capitalistico del termine. Spazi e tempi fertili, di rigenerazione dei corpi, dei saperi, del pensiero, delle relazioni, di politica.  Un pensiero che ho ritrovato in questo abbecedario, nello spostamento di senso che attuate da SICUREZZA (sine cura) ad ACCURATEZZA (cum cura). DONNE SICURE PERCHE’ SAPIENTI DI CURA (e non senza preoccupazioni). Sapienti di cura perché partono dai corpi e dalle vite, ed è questo che le rende libere dal pensiero unico e forti dell’invenzione del quotidiano. Pensiamo alle donne de L’Aquila che hanno reinventano una cittadinanza sospesa dall’emergenza riappropriandosi degli spazi cittadini; le donne di Napoli che autogestiscono la raccolta dei rifiuti, le donne del movimento studentesco, la campagna referendaria per l’acqua bene comune che parte da una risorsa naturale per parlare di un nuovo modo di stare al mondo, lontani dalla speculazione e dalla messa a profitto; le occupazioni degli ultimi anni, molto diverse da quelle del passato, che parlano, come dice Federica Giardini, di “restituzione” alla cittadinanza, che “non è un programma che va applicato, accade. Accade per via dell’apertura che consegue alla cura, quando questa si fa atto di forza politica”.

Pensiamo alle donne della Val di Susa, che avete giustamente ricordato qui. La loro è una lotta che Barbara De Bernardi, una compagna impegnata da oltre 20 anni nel movimento NO Tav, ha definito “di presidio del comune” (DWF, Saper fare comune, 2012, p. 6)

 

Il paradigma della cura passa quindi dall’agire la cura. E la sicurezza, come voi scrivete, è in stretta relazione con la cura. Lo è anche il conflitto, perché anche prendersi cura del conflitto è una pratica politica che abbiamo riconosciuto, e riconosciamo nei luoghi che attraversiamo, come pratica delle donne. Anche quando il conflitto assume le forme della violenza: lo abbiamo visto nelle piazze degli ultimi autunni caldi, lo vediamo nelle esperienze di occupazione dilagate in tutto il paese, in quella pratica di liberazione degli spazi e di restituzione alla città che attraversiamo, soprattutto a Roma.

Torno all’Abbecedario

 

C’è un passaggio rispetto al primo, un passaggio dettato dalla crisi

–         dall’informazione alla controinformazione

–         dalla contrattazione al conflitto creativo

–         dalla relazione alla cura

 

La crisi, inevitabilmente, ci sposta. Lo abbiamo fatto anche noi, rispetto a tre anni fa, rispetto a quei due numeri di DWF sul lavoro. Se ci siamo chiamate DiversamenteOccupate perché era impossibile definire i nostri lavori simultanei, le nostre acrobazie, le nostre contrattazioni e il nostro desiderio di politica nel termine “precariato” operando di fatto già uno spostamento, qualcos’altro è avvenuto nel frattempo. Lo spostamento è stato togliere il lavoro dal centro, per potenziare il resto, in primo luogo per riappropriarci di quei corpi che il lavoro e un intero immaginario ci sottraggono, di quei saperi corporei di cui veniamo espropriate e quella sessualità che anziché partire da noi ci viene dettata da altri luoghi. Un percorso intrecciato che tiene insieme politica, desiderio, corpo e lavoro. E che ci ha portate ad affrontare la questione del reddito da un punto di vista sessuato, reddito di esistenza o di autodeterminazione, come lo definisce Eleonora Forenza, e che voi riprendete nel bel passaggio della battaglia comune a Quarto e Quinto stato come:

–         rivendicazione all’altezza delle attuali forme di mercificazione e sfruttamento, la messa a valore delle nostre vite agita dal capitale (tempi di lavoro che si confondono ai tempi di vita)

–         elemento indispensabile per demercificare il lavoro in una prospettiva di liberazione dal lavoro.

 

Il tema del reddito passa così da un ripensamento del lavoro come attività umana che si attua in 2 mosse:

1-     demercificare il riconoscimento e lo status di cittadino legato al lavoro

2-     connettere in modo nuovo lavoro, reddito e autodeterminazione

 

Come e soprattutto perché è quello che spesso, soprattutto dalle femministe storiche, ci viene chiesto. Intanto, perché le condizioni sono cambiate. Oggi che il patto sociale con lo stato non passa più dal lavoro (non c’è più la garanzia d’occupazione che nel 900 dava un reddito per una vita degna) bisogna ripartire dalle condizioni materiali, dentro e fuori il lavoro. E possiamo farlo a partire dalle donne per pensare una nuova cittadinanza, perché le donne sono state sempre un soggetto escluso, e quindi anche più libero, rispetto a questo modello di cittadinanza (fondato sul lavoratore maschio bianco a tempo pieno operaio) che oggi è in crisi. E’ ora quindi che anche il nostro paese faccia i conti con quei diritti universali slegati dal lavoro, quei diritti di cittadinanza a cui le donne prima ed oggi tutti siamo esclusi.

Il reddito è uno di questi diritti (voi ricordate giustamente che L’Italia è l’unico paese dell’UE, insieme a Grecia e Ungheria, a non avere alcuno schema di reddito minimo). La crisi della cittadinanza porta con sé la crisi delle coordinate del reddito, inteso come reddito diretto (denaro), reddito indiretto (servizi, welfare pubblico), a cui vanno aggiunte le politiche sulle condizioni di vita (nuove forme che spostano). Anche qui, le donne hanno una posizione autorevole per pensare un reddito sganciato dal lavoro, che diventi lo strumento con cui si ricostruisce lo spazio pubblico (che ancora oggi sembra essere ad appannaggio esclusivo del lavoro, il neocapitalismo ti pone in disponibilità permanente, ti occupa i tempi di vita, ecc).

Il reddito innanzi tutto perché pone un argine a quel ricatto lavorativo ed economico a cui tutte e tutti sottostiamo, che rende tempi, salari, condizioni contrattuali non contrattabili; il reddito permette a tutti, donne e uomini, di riappropriarsi della propria forza di contrattazione così come del proprio corpo, non più a disposizione, a qualunque costo, dei ritmi e delle richieste di un lavoro calibrato  sulla logica del precariato, fatta di sostituibilità e contemporanea rapina. Questo è tanto più vero per una donna, sia per il rapporto che come donne intratteniamo con la dimensione del lavoro di cura, sia per il fatto che anche in un contesto di “femminilizzazione” del lavoro e precarietà che include anche gli uomini resta il fatto che le condizioni lavorative e sociali continuano a non essere le stesse tra un uomo e una donna.

Ma ci sono delle precisazioni da fare. La proposta di un reddito garantito va nella direzione di un nuovo paradigma di cittadinanza se e solo se è concepito come universale e incondizionato, destinato a tutte e tutti, permettendo maggiore libertà di scelta, uscita dal ricatto, livellamento delle disparità economico-materiali, liberazione del tempo. Inoltre, il reddito può essere solo lo strumento “tecnico”, la riforma strumentale da cui muovere per un mossa più ampia, per costruite un percorso politico-culturale che vada verso l’invenzione di un nuovo paradigma di cittadinanza, attraverso pratiche di partecipazione, autogoverno che ridefiniscano il significato della ricchezza, dove per ricchezza si intende tutto ciò che è risorsa (cultura, saperi, corpo, acqua, scuola, sanità, incluso denaro).

Il discorso sul reddito, ovviamente, va tenuto insieme al lavoro. E non è, come qualcuna dopo Paestum ha detto, la conditio sine qua non di qualunque possibilità di autodeterminazione femminile oggi, si tratta invece di un passaggio – non rivoluzionario ma importante – che poggia su quella pratica femminista che considera la posizione di una donna come il punto di partenza da cui pensare una giustizia per tutti. Siamo pienamente consapevoli di una cosa: la nostra libertà non passa certo dal reddito, che è solo uno strumento per uscire dai ricatti, ma anche con un diritto di base combinato con altri tipi di diritto, è uno strumento che ci permette di ripensare una nuova organizzazione sociale e simbolica. Non è dicotomico con il lavoro, ma permette un sottrarsi dalla logica produttivistica. Riprendersi il corpo, riprendersi un tempo di vita e, con esso, riprendersi il tempo e le condizioni per la politica, riappropriandosi di un fare comune; sottrarre tempo al lavoro in favore di un tempo fertile in cui ciascuna di noi si lascia la possibilità di accogliere  quel che corrisponde al suo desiderio e al senso di sé: parlare del reddito diviene allora l’occasione per costruire un discorso che parli a tutte e a tutti, non  solo ai precari, su lavoro e tempo di vita  e che apra al desiderio di politica e contemporaneamente alla coalizione tra diversi lavoratori, disoccupati, studenti.

Ritorno all’Abbecedario

 

SALUTE E SICUREZZA SUI LUOGHI DI LAVORO

 

Anche qui torna prepotente un sistema del lavoro pensato per i maschi e cucito addosso ai loro corpi e la volontà del superamento di un’impostazione sessuata della tutela della salute e della sicurezza sul lavoro che è pensata e studiata sui maschi.

 

Testo unico 2008: Prima norma riguardante la sicurezza sul lavoro che cita la differenza di genere (una rivoluzione in materia) perchè prima la donna lavoratrice era tutelata solo in quanto madre. L’altra faccia della medaglia di un welfare che pone il lavoro al centro, dove alle madri vengono riconosciuti diritti solo se lavoratrici (e torniamo al diritto universale di maternità).

 

Le malattie lavoro-correlate sono differenti tra maschi e femmine. E si registrano più patologie da stress nei lavori a più alta percentuale femminile, che richiedono la cura degli altri, anche perchè a questi si aggiunge lo stress del lavoro domestico.

 

Leggendo questo capitolo mi sono chiesta: Esistono malattie precarietà-correlate? Che lo stress del precario esista non ho dubbi, la malattia delle donne precarie la vivo sulla mia pelle: è che ci dimentichiamo dei corpi, trasportati da un posto all’altro della città, usati fino allo stremo delle forze, sempre disponibili al mercato, mai malate, mai incinta. E’ il segno negativo del portare tutto al mercato – per citare lia cigarini – perché noi ci siamo tutte intere, sempre, ma ciò che con la femminilizzazione del lavoro abbiamo portato al mercato, in primo luogo le capacità relazionali, ci è stato espropriato per non avere in cambio nulla, se non una dubbia inclusione in un sistema già dato. Per uscire dalla trappola è necessario uno spostamento: ribaltare la lettura della femminilizzazione del lavoro. Se questa ha significato nuovi modi di produzione che tengono conto delle esigenze e dei desideri femminili di far parte di un contesto produttivo senza separarlo da quello riproduttivo, portare tutto al mercato, quando il mercato è a tempo determinato, frammentato, precario, instabile, si traduce in espropriazione e isolamento, perché un mercato che ci vuole solo se competitive, individualiste, sempre disponibili e sorridenti, mai malate, mai incinta, è un mercato che ci rapisce e ci libera in base al pagamento del riscatto. Il riscatto è la perdita di diritti, l’impossibilità di costruire un futuro, la difficoltà a vivere il presente, il perdere di vista il desiderio di ciascuna e ciascuno, la rinuncia a pensare secondo giustizia.

Il passo di Cigarini che voi riportate dice: “come si fa a valutare qualità e capacità relazionali, difficilmente quantificabili e misurabili con la moneta? Le donne portano tutto al mercato del lavoro. Rifiutano cioè la separazione tra vita e  lavoro, mettendo una grande affettività anche nel lavoro e nelle scelte che esso comporta. Quale invenzione politica e simbolica dobbiamo avere perché il di più relazionale delle donne sia significato e scambiato? La politica delle donne ha avanzato l’idea che questo di più possa giocarsi a livello di politica del simbolico, ottenendo cioè più agio nel lavoro cosi come nella società”

Allora chiediamoci  dove e come le donne vogliono giocarsi quel di più, quell’eccedenza, che portata al mercato ha significato messa a produzione da parte del sistema maschile patriarcale, e di certo non più agio come dice Cigarini. E’ l’eccedenza femminile fatta di altissimi livelli di istruzione e di bagagli di sapere che poi non trovano traducibilità nel sistema dato del lavoro; l’eccedenza di un pensare politicamente che non trova spazio nella politica delle istituzioni, l’eccedenza del saper fare e del progettare, per citare Annarosa Buttarelli,  “la predilezione femminile per non separare il sapere fare il pane (e provarne piacere) e il saper fare filosofia, fare simbolico (e provarne piacere)”.

 

Questa eccedenza femminile si ricolloca a partire dalle condizioni di vita delle donne. Quali sono le condizioni delle donne nel lavoro?  Oggi parliamo ancora di discriminazioni, dimissioni in bianco, doppio lavoro, sfruttamento, differenze salariali forti (fordismo) e a questo dobbiamo aggiungere precarietà, disponibilità permanente, riduzione degli spazi e dei tempi della politica, delle relazioni (postfordismo). Nel capitolo dell’abbecedario DOVE SONO LE DONNE LAVORATRICI si parla di isolamento, scarsa partecipazione ai momenti assembleari. Perché il lavoro femminile è ancora largamente dipendente dalla presenza, o meglio assenza, dei servizi (welfare). La mancata ricerca di lavoro è legata agli impegni famigliari (figli, anziani, disabili). I Contratti sono atipici, a progetto, part-time con forti differenze retributive. Vittime di Discriminazioni, prime vittime della crisi aziendale.

 

Ma il di più delle donne c’è e noi questo di più noi ce lo giochiamo nella politica, quella delle donne ma non solo, quella dei movimenti, quella dal basso, quella dei beni comuni. E’ altrettanto faticoso, ma ci sono risposte, di linguaggi, di pratiche, anche da parte dei compagni maschi.

 

Il fatto che le CAPACITA’ RELAZIONALI messe a profitto non hanno scardinato il sistema del lavoro, sono diventate una trappola sia per donne che per uomini risulta evidente nel capitolo dedicato  alla formazione che oggi, nella società della conoscenza, del lavoro immateriale, del terziario, si fonda su quelle competenze di ascolto e di relazione tipicamente femminili, che le donne hanno appunto portato al mercato, di cui il mercato si è impossessato senza dare in cambio alcun valore, neanche sul piano del linguaggio, visto che, scrivete, si utilizza un linguaggio neutro o orientato al maschile anche di fronte ad un pubblico maggiormente femminile.

 

E allora ben vengano l’esperienza dell’associazione ambientalista ALT e del Coordinamento donne del sindacato: declinare i rischi sul lavoro al femminile superando la terminologia della normativa e la cultura della prassi, entrambe neutre, così come l’utilizzo del partire da sé (metodo autobiografico) come scelta di metodo e di merito per la formazione con un obiettivo che ci sta particolarmente a cuore

–         saper attingere dall’esperienza e dalla pratica le regole per ridefinire i processi formali (vale a dire creare fattispecie giuridica a partire dall’esperienza)

 

Chiudo su un’immagine che mi ha stimolato il capitolo sulle DIFFERENZE DI GENERE DAL PUNTO DI VISTA DEL MEDICO DEL LAVORO.

Si dice: Quanto più saranno realizzati ambienti di lavoro a misura di lavoratrice, tanto più alto sarà il contributo in termini di prevenzione per tutti. Leggendo questa frase mi è tornata in mente una conversazione con Pina Nuzzo, che raccontava delle prime lotte dell’UDI nel secondo dopoguerra, di quella fantastica campagna che ha portato le donne in massa ad iscriversi nei centri di collocamento per andare a lavorare. E lei mi raccontava che queste donne venivano chiamate a fare tutti i tipi di lavori, alcune anche nei cantieri. E si presentavano problemi non calcolati dal sistema maschile, tipo i bagni appunto nei cantieri. La presenza delle donne costrinse i datori di lavoro a dotarsi di bagni, sia per le donne che per gli uomini (che non si erano mai posti il problema). E’ proprio questo: realizzare ambienti di lavoro a misura delle donne significa migliorare le condizioni di lavoro per tutti.

 

E ritorniamo alla scommessa del femminismo degli ultimi anni: non più le donne per le donne, bensì pensare a partire dalla vita delle donne per creare un nuovo paradigma per tutti.