Un percorso verso e con il Femminismo
Voglio precisare che ogni donna è diversa dall’altra in quanto ogni persona è diversa e unica. Quando nasciamo, siamo influenzati dalla nostra famiglia, dalle nostre amicizie, dall’ambiente, dagli studi scolastici e, inoltre, dalla nostra personale interpretazione alla realtà. Con questo intervento, ho cercato di spiegare a come io sia arrivata a dare un significato preciso al mio essere donna.
Emancipazione non vuol dire libertà
I primi segnali di desiderio di emancipazioni credo che siano giunti quando, durante i cenoni di Natale nel meridione, a casa dei nonni paterni, gli uomini stavano in una stanza a giocare a carte e le donne dovevano – lo sentivano come ordine morale e naturale delle cose – starsene in un’altra stanza a giocare a tombola. Il gioco delle carte era cosa di uomini.
La prima avversione nei confronti del mio corpo e del mio essere donna credo sia cominciato quando mi sono sviluppata e i miei familiari si congratulavano con me per qualcosa che era doloroso, fastidioso e aveva fatto cambiare il mio corpo in così poco tempo. Qualcosa, mi dicevano i grandi, che faceva di me una donna. Qualcosa che cominciava a farmi accorgere che i ragazzi erano interessati sessualmente a me.
Il primo impulso di ribellione credo sia giunto quando, mentre guardavo la TV con i miei nonni paterni, dopo aver fatto una domanda sulla politica che non capivo, mio nonno mi rispose: “Sei femmina, queste cose non le puoi sapere.” Sono stata costretta a ignorare argomenti e fatti per lungo tempo, perché nella mia famiglia era convinzione che fosse sconveniente che una ragazza sapesse “certe cose”.
Per tanti anni, quindi sono stata tesa tra la voglia di soddisfare le aspettative dei miei genitori (essere una brava ragazza, imparare a cucinare e a fare le faccende, imparare a truccarmi e a vestirmi secondo un certo gusto) e la voglia di ribellarmi e staccarmi da quel nucleo familiare che mi schiacciava e mi faceva sentire diversa e colpevole di non essere all’altezza delle loro aspettative.
Quando avevo sedici anni, mio padre, la persona più autoritaria della mia famiglia, abbandonò il nucleo familiare. Era stato un padre violento, autoritario e crudele. Era stato un padre che aveva voluto imporre la sua autorità sul mio corpo e sulla mia mente. Era stato un padre che mi aveva detto che ero grassa e brutta, che il mio carattere aggressivo avrebbe fatto di me una zitella, che non sarei stata in grado di studiare in un liceo classico, che ero una troia perché mi truccavo e avevo amici maschi, che sarei stata una nullità e non sarei divenuta nessuno. Il tutto si chiudeva con schiaffi e pugni.
Quando se ne andò, mi sentii finalmente libera di vivere la mia vita senza condizioni e senza influenze negative. Sentii che io, mia madre e le mie sorelle avremmo potuto costruirci un futuro indipendente. Invece, mia madre cadde ancora di più in depressione e mi disse che una donna aveva bisogno di protezione e cura costante. E fu lì, dopo varie discussioni, che pensai: “Io non ho bisogno di un uomo. Sono femminista.” Fu la prima volta che pronunciai quella parola. Fu un gesto di ribellione a quella mentalità che mi voleva necessariamente docile e ferma, che mi voleva mansueta.
Da qui è partito il mio cammino verso l’emancipazione. Da qui sono partita per eliminare tutti i paletti che avevano posto, come a creare un recinto, durante gli anni della mia crescita. E questo percorso, che mi ha portato a mettere in discussione me stessa, la mia famiglia, le convinzioni secolari che ancora si tramandano è stato un passaggio difficile e doloroso.
E’ stato doloroso dichiararsi esplicitamente femminista con amici e essere vista come una specie di Medea ferita pronta a vendicarsi. Ho dovuto parlare con loro, più e più volte, nella speranza di fare capire che stavo solo cercando di costruire rapporti e relazioni basati sulla parità e sulla libertà. Ho dovuto scontrarmi con mia madre che non desiderava altro per me che il matrimonio e la maternità, mentre io, ogni giorno, le ricordavo di quanto ambiziosa fossi in verità.
E’ stato doloroso, perché talvolta mi sono dovuta scontrare perfino con me stessa: c’era una parte di me che a volte si sentiva come se stesse tradendo il luogo dal quale proveniva, come se stesse rinnegando i rapporti di sangue che possedeva, come se stesse cercando di rifiutare il proprio genere di appartenenza e le caratteristiche e peculiarità ad esso correlato.
Allora, ho compreso che l’emancipazione e la libertà sono due cose diverse: si può essere emancipati ma si può non essere liberi, perché la libertà non è un fatto pratico come l’emancipazione, ma è qualcosa di puramente mentale: sono tutti quei paletti imposti dalla società e dal patriarcato che sono stati definitivamente aboliti, annientati, bruciati.
Il corpo è mio
Mi guardo allo specchio e vedo il mio corpo. E il mio corpo, per la società, è un corpo di donna, è un corpo riproduttivo e produttivo. E comprendo che forse questa cosa mi ha sempre terrorizza.
Mi sono sviluppata a 12 anni. Quando mi accorsi del sangue sulle mutandine, rimasi in silenzio per una giornata intera, fino a quando non dovetti necessariamente confessarlo a mia madre. Lei sorrise e mi disse: “Auguri! Ora sei una signorina.” E io proprio non capivo perché, da bambina dovessi passare allo status di “signorina”. Cosa voleva dire? E perché tutti quanti continuavano a farmi gli auguri, come se fosse il mio compleanno? Ero terrorizzata. Il mio corpo stava cambiando a vista d’occhio e non potevo fermare questa mutazione se non vestendomi con felpe e maglie larghe.
All’epoca, potevo solo intuirlo dai discorsi di mia madre e di mia nonna, ma ciò che stavo rifiutando non era il mio essere donna, era l’imposizione di una compostezza e di una femminilità (in vista di un futuro di genitrice) che non volevo, non sentivo. Volevo solo continuare a essere la bambina spontanea che correva per i campi e che si sporcava, che leggeva e creava storie.
“Stai seduta composta. Non poggiare i gomiti sul tavolo. Hai la gonna, incrocia le gambe. Smettila di mangiarti le unghie. Aggiustati i capelli. Dovresti cominciare a truccarti…”
E così via. All’età di 15 anni chiesi a mia madre di iscrivermi ad un corso di pugilato. La risposta fu: “Non è uno sport da femmine. E poi ti rovineresti il naso.”
Le continue pressioni da parte di mia madre, dei mass media, delle mie compagne di classe mi portarono durante all’adolescenza a trasformare il mio corpo come tutti lo volevano: curato, femminile, aggraziato.
Ma alla fine – credo che sarebbe stato inevitabile – esplosi. Buttai i tacchi alti, mi spogliai degli abiti che indossavo. E mi iscrissi in palestra. Cominciai a correre. Fare sport, essere scompigliata, sudata, puzzolente era un modo per liberarmi di quelle imposizioni, di quegli ordini. Correre sotto la pioggia, mentre mia madre mi urlava che mi sarei ammalata e che ero pazza, era per me il gesto più liberatorio che io potessi fare. Era per me un ritorno alla spontaneità, alla me bambina che correva in mezzo i campi di mio nonno. Sentire che il mio corpo era forte, che poteva correre veloce come facevano “i maschi”, che rispondeva agli input del cervello, che non si fermava e superava tutti i limiti.
A ventun anni mi sono tatuata la pelle per la seconda volta. Da un piccolo tatuaggio sull’avambraccio destro, sono passata a un tatuaggio colorato che parte dalla scapola sinistra e mi prende tutta la spalla. Mia madre non mi rivolse parola per una settimana. Mio nonno mi disse che somigliavo ad un calciatore. Uomini e donne, in estate, mi dicono che: “Peccato! Eri così carina. Ti sei rovinata la pelle.” Oppure: “Hai paura di non essere notata?”
Il fatto che la mia pelle sia colorata, mi rende felice. Vedere quei disegni sull’epidermide e pensare che ci sono volute quattro ore e mezza di dolore mi fa sorridere. Mi piace vedere cicatrici colorate su di me. Mi rende viva. Il corpo è mio. Il mio corpo è in piena connessione con la mia mente. Sono pienamente padrona di esso e posso dargli piacere e amarlo con tutta me stessa. Posso ascoltarlo. Posso abbracciarmi e sentirmi parte di un tutto. Sentirmi libera.
Comunicare con l’altro
Io sono io e sono diversa da te. Tu sei tu e sei diversa o diverso da me. Riconoscere la diversità è possibile, riconoscersi è altrettanto possibile. Il dialogo è la chiave di tutto.
Dialogare, comunicare credo voglia dire mettersi allo stesso livello dell’altra persona, annullare ogni possibile pregiudizio, essere aperti a comprendere secondo schemi mentali non nostri i ragionamenti dell’altro (senza necessità di condivisione). La domanda che mi sorge è: chi tende a usare violenza, chi tende a essere aggressivo, chi si chiude a riccio attaccando e denigrando la posizione altrui, è disposto a scendere a tale compromesso? E’ disposto a scendere dal suo piedistallo e aprirsi al diverso?
E noi, nel nostro piccolo mondo, ne siamo capaci? Siamo capaci di confrontarci con qualcuno che è diverso da noi senza per questo giudicarlo o imporgli il nostro pensiero?
Se non riusciamo a comunicare con l’altro, ad aprirci al dialogo, se non impariamo ad ascoltare e ad accogliere ciò che è diverso da noi, come possiamo, allora, rispettando la diversità, intravedere l’uguaglianza che ci unisce? Quando comunichiamo e abbiamo un dialogo fallimentare, forse, dovremmo mettere prima di tutto in discussione noi stessi e il nostro modo di interagire con l’altro.
Allora, dovremmo, partendo dal nostro piccolo mondo e dall’agire quotidiano, cominciare ad annullare pregiudizi e schemi mentali per poter accedere ad una comunicazione del tutto nuova. Spesso non comprendiamo la diversità, non perché sia incomprensibile, ma perché comprenderla sarebbe uno sforzo che porta a minare le nostre certezze.
Riconoscere che siamo tutti uguali in modo diverso, infatti, renderebbe il disegno del mondo più sfumato e dai contorni meno definiti.
Essere consapevoli
Sento spesso discorsi riguardo la raggiunta parità dei sessi data dal fatto che le donne siano entrate nel mercato del lavoro. E’ vero, certo, è un primo passo, ma sono ancora rilegate ad uno spazio marginale. E se, comunque, ricoprono ruoli importanti, sono in qualche modo costrette a dimostrare giorno per giorno la loro capacità senza perdere di vista la loro femminilità.
Un sacco di volte ho sentito commenti denigratori riguardo a donne ben stipendiate e con lavori importanti. Se la donna è attraente, “Chissà con quanti uomini sarà andata a letto per essere arrivata dove è arrivata.” Se la donna non lo è, “Dato che non è bella, doveva pur puntare su qualcos’altro.”
C’è da considerare anche che donne che hanno lavori di dirigenza o responsabilità sono ancora e assai rare. E questo comporta che la maggior parte delle decisioni sia presa da uomini.
La televisione è lo specchio della società. Nella televisione italiana vediamo donne fare da “cornice” (puro oggetto estetico che attira lo sguardo) e donne messe al pari degli uomini che si comportano, però, come loro, denigrando e deridendo le donne “cornice”. Le donne in TV sono estremamente curate, truccate, quasi tutte si sono sottoposte a chirurgia estetica per mettere mano a dei “difetti”. Si sottopongono, quindi, tutte a interventi per rispettare un certo canone di bellezza imposto. Ma imposto da chi?
Non dobbiamo andare molto lontano per comprendere quanto sia marginale ancora la donna all’interno della vita attiva. Nella famiglia, infatti, vige ancora l’immagine della mamma onnipresente e onnisciente, capace di esserci in ogni momento e di prendersi cura di tutti. Capace di essere riproduttrice, produttiva e infine nutrice.
Ma noi donne cosa vogliamo davvero? Cosa ci fa sentire apprezzate? Cosa ci fa stare bene? Cosa ci rende libere? Perché ci facciamo questo? Perché ci dobbiamo denigrare tra donne? Perché dobbiamo sempre essere competitive tra di noi? Perché dobbiamo puntare il dito e offenderci? Perché ci stiamo torturando a vicenda? Perché non ci apriamo, allora, al dialogo? Perché non combattiamo per avere un ruolo di rispetto all’interno della società, invece di essere sempre giudicate per il nostro aspetto fisico, guardate per quello che indossiamo, osservate per come ci comportiamo? Consapevolezza. Secondo me questo è uno dei primi passi da fare. Potremmo ancora manifestare in piazza, potremmo ancora discuterne, potremmo ancora combattere con gli uomini per avere un posto importante nella società. Ma finché le donne non saranno coese, finché le donne non saranno consapevoli di ciò che vogliono essere, finché le donne non si scrolleranno di dosso tutti i (stramaledetti) paletti che ci sono stati imposti, allora continueremo a vivere nell’era della contraddittorietà: sì alle donne in carriera, purché siano di bell’aspetto; sì al lavoro femminile, purché rimanga nella sfera degli affetti; sì alla parità all’interno della famiglia, purché la donna rimanga donna.
La morte di Beatrice
L’arte femminista dagli anni ’70 si è sviluppata mostrando corpi: corpi di donne e uomini, nudi. Inizialmente, ho creduto che non ci fosse nulla di diverso dalle sculture greche o dai nudi michelangioleschi. L’arte è piena di corpi nudi. Ma, guardando poi in profondità, ho capito che era il messaggio ad essere completamente diverso: i corpi si mostravano come corpi e basta. Corpi, che appartengono a persone. I corpi nudi femminili che studiamo sui banchi di scuola, invece, sono corpi divinizzati e venerati come se fossero oggetti sacri e intoccabili. E infatti, la donna doveva essere casta e pura, vergine, pacata, silenziosa, scostante…
In qualche modo, la Beatrice che Dante ci delinea nelle sue pagine della Divina Commedia, quell’amor cortese che tanto declama per la sua bella amata, è proprio ciò che il Femminismo ha sempre voluto combattere. Appunto quella donna vergine e taciturna.
In quante, fin dalla tenera età, ci è stato detto che avremmo dovuto comportarci come delle “vere signorine”? A quante è stato ordinato di chiudere le gambe, di non alzare la voce, di non corteggiare un uomo, di non bere o mangiare troppo avidamente? A quante? E quante, nel non riuscire a seguire tutti gli imperativi, hanno pensato di essere diverse dal resto delle donne e quindi si sono sentite diverse e meno femminili?
Ma che cos’è la femminilità? Cos’è essere donna?
Mi guardo in giro, parlo con le mie amiche, parlo con donne che non ho mai visto prima e mi rendo conto che la femminilità ancora non la conosciamo, perché non abbiamo mai ascoltato il nostro essere interiore, il nostro demone interiore, se vogliamo utilizzare il lessico di Socrate. Il suo imperativo “Conosci te stesso” è ancora estraneo alla maggior parte di noi.
Le donne sono in continua tensione nel cercare di essere ciò che devono essere e non ciò che esse stesse sono.
E allora, mi viene in mente Merlin Stone e il suo libro Quando dio era una donna. Merlin Stone parla di moltissime popolazioni nelle regioni della Mesopotamia le quali, prima dell’arrivo e della conquista da parte degli indoeuropei, praticavano una religione che venerava una dea. Una grande dea, saggia, un po’ oscura. Allo stesso modo, c’è da pensare che fossero le donne a ricoprire cariche importanti ai vertici del potere e gli uomini ad accudire e a prendersi cura della casa. Le popolazioni in questione erano pacifiche, diplomatiche e tranquille.
Gli indoeuropei, invece, erano bellicosi e veneravano un dio guerriero. Conquistarono queste popolazioni con la forza e imposero il proprio culto.
La Dea veniva spesso identificata col serpente, che aveva in verità un significato molto positivo. Se ci pensiamo bene, nell’Antico Testamento, il Diavolo si incarna nei panni del serpente e cerca di sedurre Eva con la mela. Secondo la Stone questo era una sorta di messaggio di avvertimento per tutte le donne che avessero voluto riprendere a praticare il loro vecchio culto. E così la Dea saggia si è trasformata in un essere maligno e malvagio.
Non è un po’ quello che fa da sempre il Cristianesimo nei confronti della figura della donna? La donna non viene all’interno della religione demonizzata, schiacciata, soprattutto se usa il suo corpo, se cerca di dare piacere al corpo? L’unica donna che viene accettata nel cristianesimo è infatti la Madonna: essere puro e intoccabile, vergine, madre di un figlio divino, senza vizi e dalle molte virtù… Ma la Madonna non è uguale a Beatrice?
Ho bisogno del Femminismo perché…
Ho spesso l’impressione che il Femminismo si sia in qualche modo assopito.
Un anno fa vidi delle immagini che ritraevano delle ragazze che avevano un cartello in mano con la scritta “I don’t need femminism beacuse…” e la motivazione. Non ho bisogno del femminismo perché.
Inizialmente il primo sentimento che è sopraggiunto è stato quello di rabbia. Come potevano le donne dimostrarsi così ingrate per tutte le lotte delle donne che ci hanno preceduto? Come potevano buttare al vento anni di conquista sudate col sangue?
Leggendo le motivazioni di queste ragazze, mi sono resa conto che parlavano del femminismo in modo pregiudiziale: le donne che vogliono demonizzare gli uomini, donne che vogliono sottomettere gli uomini, donne che vogliono fingersi vittime…
Ma possibile che una parola come “Femminismo” faccia così tanta paura? Possibile che crei così tanto dissenso? Paradossalmente il contrario, Maschilismo è più socialmente accettata; perché?
Allora se cambiassimo nome? Se il Femminismo si cominciasse a chiamare “Personismo”? Forse avrebbe un diverso impatto? Forse accoglierebbe tutti quanti, uomini e donne, neri e bianchi, etero e omosessuali, in modo da camminare verso l’uguaglianza?
Tanti interrogativi, ancora, si installano nel mio cervello. Tante domande a cui ancora non so dare risposta. La sensazione che ho, quando leggo le notizie sui giornali, quando parlo con le donne, quando parlo con gli uomini, quando mi trovo a scoprire il mio corpo e a essere guardata con occhi di dissenso o di malizia, è che non è abbastanza ciò che stiamo facendo, ciò che io sto facendo per la mia libertà, per la libertà di tutte, di tutti.
Cosa vogliamo lasciare alle nostre figlie? Cosa alle nostre nipoti? Cosa vogliamo per la nostra persona? Cosa per i nostri corpi? Perché accontentarsi dei pochi diritti raggiunti? Aveva ragione Pasolini quando disse che il Femminismo, dotato di un potenziale infinito, sarebbe stato ingannato dagli uomini e si sarebbe fermato nel momento in cui avrebbe ricevuto quei pochi diritti ricevuti.
Ho bisogno del Femminismo perché voglio essere libera. Ho bisogno del Femminismo perché voglio avere le stesse opportunità di un uomo. Ho bisogno del Femminismo perché non voglio più sentirmi dire: “Non hai bisogno di studiare. Sei carina.” Ho bisogno del Femminismo perché voglio creare un mondo migliore. Ho bisogno del Femminismo anche per il mio ragazzo, un ragazzo intelligente e sensibile, che spesso viene additato come poco virile. Ho bisogno del Femminismo per tutti gli uomini e le donne che vogliono sentirsi liberi di esprimere se stessi senza pregiudizi e giudizi. Ho bisogno del Femminismo per creare un mondo migliore.
E tu? Perché hai bisogno del Femminismo?