Diversi piani nell’esperienza del lavoro
Come presupposto del mio ragionamento vorrei riprendere la parte finale dell’intervento di Federica Giardini sui diversi elementi di cui è fatto il lavoro. Il passaggio fondamentale in Diversamente Occupate è stato proprio il riconoscere quali fossero piani in gioco all’interno della nostra esperienza del lavoro: bisogno economico; ricerca di status, di una collocazione; desiderio di espressione e realizzazione; infine lavoro come spazio residuo di relazione e socializzazione in assenza di una dimensione pubblica diffusa.
Rischio asservimento ineliminabile
Proprio in questa combinazione di elementi, il rischio di una centralità del lavoro, che finisce per trattare come scarto tutto ciò che al modello della produttività non corrisponde, il rischio di un’adesione e di un ridurre a merce di scambio il tessuto vivo del vivere comune, per un verso rimane ineliminabile. Quello che si può fare, lo accennava Federica, è nominare e distinguere. Capire cosa impedisce di mettere confini netti allo spazio del lavoro, impedire che debordi consumando tutto il tempo di vita, condizionando le forme della relazione sulla base dei modelli di competitività e performatività che sono propri del lavoro.
Senso di sé e del mondo in ogni relazione e contesto
Il confine non si può tracciare perché nel lavoro, come in ogni ambito di esistenza, c’è un continuo essere implicati. C’è l’eseguire il lavoro, ma anche il curare le relazioni che lo rendono possibile, c’è il prodotto che si vede e uno sforzo che non si vede. Responsabilità, dedizione. Questo il mercato l’ha riconosciuto e l’ha messo a profitto. Ma non è solo questo.
Quell’eccedenza non è una forza necessariamente conservativa. Non tiene per forza in piedi l’ordine così com’è. Può anche mettere in discussione, darsi come negazione di eseguire un compito, generare quell’imprevisto che non è già contenuto nello schema dato. E sulla base, a mio avviso, dello stesso meccanismo che a volte pare solo pacificare. Perchè a muovere è sempre il fatto che ad essere in gioco in ogni gesto è il senso di sé e del mondo. Questa responsabilità è di ordine altro rispetto a quella del portare a termine bene il proprio compito che il mercato riconosce e sfrutta nelle donne. E’ diversa da quel fattore D che si vuole salvi un modello distruttivo in crisi per preservarlo. C’è anche quello, sì. Ma l’essere implicate nel contesto e nella relazione può portare anche a ribaltare il tavolo, a fermare i giochi. E’ il gesto di rottura che vorrei, vorremmo forse, dalle donne che oggi occupano posizioni di potere.
Un nuovo paradigma della cittadinanza mi piacerebbe pensarlo a partire da questo. Possiamo chiamarlo cura? Forse sì, c’è l’andare oltre la performatività, il prodotto visibile del proprio valore, cose che riconosciamo nella cura, a patto però di riconoscerla non solo come composizione, ma anche come questo potenziale di conflitto.
Che riconoscimento vogliamo si dia a questo diverso modo di stare al mondo?
Federica citava Carla Lonzi: “la parità di retribuzione è un nostro diritto, ma la nostra oppressione è un’altra cosa”. Allo stesso modo mi sembra che il riconoscimento di quel che non ha corrispondenza in termini di retribuzione, perché è oltre le ore di lavoro prestate e oltre il prodotto visibile del nostro lavoro, sia sì nostro diritto, ma quello che ci interessa sia ancora oltre.
Voler mettere questa dimensione della cura a fondamento di un nuovo paradigma della cittadinanza richiede per me un riconoscimento che non passa dal denaro, che non è mediato dalla moneta, ma da una serie di condizioni che lo rendono possibile.
Welfare
Se ci centriamo sul nostro presente, ci sembra che in un contesto di smantellamento del welfare e nella pressione di un lavoro che mentre ti sfrutta sembra l’unica strada di libertà, quello di cui abbiamo bisogno sia ricreare le condizioni per quella libertà prescindendo dal denaro. Pensare che sia possibile fare una serie di cose, avere possibilità, spazi di libertà, senza passare per lo scambio economico, ma attivando altre forme di scambio, e quindi relazioni, costruzione di spazi condivisi. Se dovessimo concretamente quali sono queste condizioni, diremmo servizi, diritto all’abitare, diritto all’istruzione, alla mobilità, alla cultura, alla salute, e più in generale diritto a un tempo fertile sottratto alle regole della produzione, non produttivo ma generativo. Tempo di condivisione, di studio, di pensiero, di relazione, di mobilitazione, che alla fine rende possibile liberare anche il tempo del lavoro.
Reddito
A partire da queste considerazioni, ci poniamo delle domande anche rispetto al tema del reddito.
Se il reddito servisse solo a rendere visibile, a riconoscerci, il di più che a lavoro portiamo, che ne sarebbe di tutto ciò che cade fuori dal concetto di produzione – materiale o immateriale che sia – come la intendiamo oggi? Le donne sanno che se i diritti vengono agganciati al lavoro, ci può essere sempre qualcuno che potrà dirti che il tuo non è lavoro, o è lavoro di serie b e quindi minare anche la cittadinanza; allo stesso modo se quel tempo fertile viene garantito dal denaro, rientra ancora una volta tra gli oggetti di governo, da gestire con regole capitalistiche o tecnocratiche, e dunque non legate semplicemente all’esistenza. Ci sarà sempre qualcuno pronto a dirti con quel denaro sei tu a giocarti possibilità o meno di libertà e con quali margini. Non rischiamo di improntare a un modello di performatività anche quella dimensione di cura, scambiandola con denaro?
Questo per dire che siamo d’accordo sulla richiesta di un reddito incondizionato inteso come strumento che sgancia la nostra libertà dalle condizioni di lavoro, non però come strumento sostitutivo di quello che si fa in comune, di quello riproduce lo spazio del comune. Di nuovo, Federica citava Lonzi: “Noi identifichiamo nel lavoro domestico non retribuito la prestazione che permette al capitalismo, privato e di stato, di sussistere”. Una volta monetizzata e affidata alle migranti quella prestazione non smette di essere il supporto oscuro del capitalismo, anzi ne permette la prosecuzione. Allo stesso modo, il reddito senza welfare ci pone in una condizione di isolamento, perché il reddito rischia di sostituire una serie di attività e relazioni che riproducono la comunità. Queste attività devono essere sottratte alla dimensione della moneta. Sono proprio queste attività che caratterizzano il tempo come fertile e ricreano spazi di libertà.