Provo a interloquire con la sollecitazione proposta dalla introduzione di Teresa di Martino – pensare il lavoro a partire dalla filosofia – in primo luogo esplicitando una profonda condivisione della prospettiva di fondo della relazione stessa: la necessità del ribaltamento del paradigma della femminilizzazione del lavoro. Credo che in sintesi si debba parlare di una sussunzione del “femminile” nella ridefinizione del lavoro messa in atto negli attuali processi produttivi: la messa a valore, ossia a profitto, del relazionale, del sessuale, delle capacità di cura (su questo nodo rinvio alle analisi ampiamente prodotte da Cristina Morini) non ci parlano certo di una nuova libertà delle donne nel lavoro, ma di come la femminilizzazione sia una declinazione di una biopolitica che governa vite e corpi, di un neocapitalismo che mette a profitto lavoro, vita, soggettività. La femminilizzazione, dunque, come “metafora” di processi di valorizzazione capitalistici che investono il lavoro di entrambi i generi, ma anche come nuovo modello di inclusione subordinata del lavoro delle donne. È purtroppo la disponibilità (del tempo, del corpo, del lavoro, della vita) il sinonimo della femminilizzazione: precarizzazione e femminilizzazione parlano infatti di un più intenso potere governamentale del capitale nel disporre delle vite. La “metafora” della femminilizzazione dovrebbe allora suggerci che è proprio questa, ora, storicamente, la posizione, la parzialità – quella delle donne- da cui ricominciare a pensare processi di liberazione in grado di parlare delle vite di tutte/i. Mi sembra, infatti, che obiettivo ambizioso e assolutamente condiviso del nostro incontro sia quello di non fermarsi alla denuncia della sussunzione del femminile, ma il porsi la domanda radicale di come un punto di vista, un pensiero femminista sul lavoro ne possa determinare una ridefinizione. A tal proposito, vorrei provare a fare alcune riflessioni interloquendo con le relatrici.
Ampliare il fronte del possibile. Come «ampliare il fronte del possibile» (Braidotti)? Nel contesto del nostro confronto questa domanda chiama in causa la filosofia e la politicità della filosofia – la sua potenza nel generare possibilità e trasformazioni: vale a dire, anche il rapporto fra filosofia e senso comune, rapporto che contribuisce a determinare la qualità politica della filosofia. Una delle strategie delle politiche di austerity nella gestione della crisi è stata efficacemente definita da Naomi Klein «shock economy»: una forma pervasiva di colonizzazione del senso comune che tende alla naturalizzazione della crisi, ossia alla presentazione di essa come catastrofe naturale, e alla narrazione delle risposte che ad essa si danno come ineluttabili, prive di qualità politica. Nella narrazione dominante la tecnica subentra alla politica, la “natura” alla “storia” uccidendo nell’immaginario e nel senso comune la possibilità della trasformazione. Come possiamo pensare che la filosofia (e la politica) resa «inutile» (Giardini) da questa estrema riduzione del «fronte del possibile» nell’immaginario collettivo possa tornare ad agire una funzione trasformativa a fronte di un senso comune così colonizzato? La naturalizzazione della crisi tenta di collocarci non nell’orizzonte del possibile, ma del necessitato: questa è la qualità che permea e pervade il senso comune, questo è il contesto in cui viviamo. L’ideologico che si presenta come non ideologico, o postideologico, o come morte della ideologie, come morte della politica (e della filosofia?). La potenza del movimento altermondialista – circa dieci anni fa definito dal New York Times seconda potenza mondiale – era in quella frase «un altro mondo è possibile» condivisa da milioni di persone. La riapertura del fronte del possibile nel senso comune è oggi pratica filosofica e politica ineludibile.
La ridefinizione del lavoro. La ridefinizione del lavoro implica, in primo luogo, a mio avviso, la liberazione da una cappa definitoria binaria, dicotomica e oppositiva: fra lavoro retribuito e lavoro non retribuito, produttivo e riproduttivo, produttivo e improduttivo, materiale e immateriale. Credo che queste opposizioni binarie ci impediscano leggere le trasformazioni presenti e le connessioni possibili fra diverse soggettività, che cancellino i dati esperienziali di molte e molti di noi, a partire dal lavoro precario e dal lavoro di cura. Personalmente nella mia vita a parità di attività sono stata retribuita e non retribuita e non per questa ragione quella attività ha avuto un valore soggettivante maggiore o minore. Credo che la liberazione dalle dicotomie nella definizione del lavoro sia un punto importante.
Reimmaginare il lavoro (e il conflitto) a partire dalle donne. Riprendo a tal proposito una riflessione che Federica Giardini faceva nel suo intervento e che condivido: viviamo «un tempo comune a donne e uomini, ma entro cui donne e uomini abitano secondo genealogie diverse». In questa diversità genealogica vi sono il lavoro e i processi di soggettivazione ad esso connessi: l’equazione tra crisi del lavoro e crisi del soggetto parla di un lutto maschile (di Martino). Aggiungo che la modalità con cui si è dato storicamente il conflitto capitale-lavoro, l’organizzazione del conflitto e della soggettività, ha agito in maniera differente per i due sessi. Vale a dire, che i processi di soggettivazione connessi ai conflitti del lavoro sono stati differenti, e spesso asimmetrici. In realtà, però, anche il paradigma, la forma storica di soggettivazione nel conflitto capitale-lavoro è in sé oggi in crisi. Da un lato, il maschio adulto operario non è , da tempo, più la parzialità la cui liberazione coincide con la liberazione dell’universalità. Dall’altro, le forme di organizzazione del conflitto (sindacato, sciopero, corteo) perdono di efficacia a fronte della rottura della connessione conflitto-rappresentanza, di una torsione governamentale che svuota la democrazia anche nei rapporti di lavoro, come risulta anche dalla discussione in corso in questi giorni sulla riforma del lavoro. Le trasformazioni in atto inducono a pensare che, come si diceva, sia quella delle donne la parzialità, la posizione da cui reimmaginare un lavoro liberato per tutte/i, ma anche nuovi processi di soggettivazione nel conflitto. Così come è quella della lavoratrice precaria la posizione da cui leggere i processi di ristrutturazione capitalistica e le possibili risposte. Credo, dunque, che sia da queste posizioni che occorra ripensare le forme del conflitto e della soggettivazione nel conflitto.
Il paradigma della mercificazione. Non saprei dire se il capitale ha storicamente prodotto il suo becchino. Oggi parrebbe quasi avere bisogno di disfarsene. E di certo non possiamo confidare – pena ricadere in un fideistico storicismo – nel fatto che in futuro continui a produrlo. Il paradigma oggi dominante nel processo di accumulazione capitalistico, oltre a quello della finanziarizzazione, sembra essere quello dello della mercificazione e della recinzione: ossia un paradigma più ampio, più esteso, che include e ovviamene non cancella la messa a valore, l’estrazione di profitto dallo sfruttamento del lavoro, reso più intensivo. Se alle origini il processo di accumulazione derivava dalla recinzione del comune, oggi il carattere estensivo ed intensivo della messa a valore, ben oltre il rapporto capitale-lavoro, ci parla del divenire-merce di beni comuni e facoltà umane, di un processo di mercificazione “tendenzialmente totalitario”.
Demercificare il riconoscimento. Abbiamo associato tre parole importantissime, pesanti alla parola lavoro: riconoscimento, relazione e soggettivazione. Tre parole pesanti che riconducono il lavoro, ridefiniscono il lavoro non come attività salariata o subordinata, ma come attività umana. Mi chiedo se non si possa fare una doppia mossa. In primo luogo, demercificare il riconoscimento, provare a far sì che il lavoro in quanto relazione, luogo di soggettivazione, e attività che ha alla base una esigenza di riconoscimento non sia più una attività mercificata, il luogo della mercificazione, dello scambio che determina l’accesso. In secondo luogo, connettere in modo diverso lavoro, reddito e autodeterminazione. Pensare a un reddito di autodeterminazione: un reddito di base universale e incondizionato che renda possibile l’autodeterminazione. E reimmaginare il lavoro come un luogo dove l’autodeterminazione si realizza liberamente: dove chi lavora decide qual è l’attività necessaria da compiere anche in base a una esigenza sociale rispetto a cui ci si sente responsabili, e , dunque, riconosciuti. Connettere cioè lavoro e autodeterminazione – non lavoro e subordinazione – attraverso la demercificazione del lavoro stesso.
La cura come lavoro e come pratica politica. Nel processo di ridefinizione del lavoro – dicevamo – entrano pesantemente in campo le diverse genealogie fra i generi. Federica Giardini citava a tal proposito un passo di Carla Lonzi: «noi identifichiamo nel lavoro domestico non retribuito la prestazione che permette al capitalismo, privato e di stato, di sussistere». L’asimmetria fra i dispositivi identitarii – il maschio lavoratore e la donna angelo del focolare – non derivava solo dal riconoscimento economico, ma anche dal riconoscimento sociale dell’uno e dal misconoscimento sociale e politico dell’altro. Piuttosto che batterci per il riconoscimento della cura come lavoro-merce, dovremmo provare sì a riconoscere quello di cura come un lavoro socialmente utile e usare tale riconoscimento come grimaldello per una ridefinizione non mercificata del lavoro e come pratica politica: il “prendersi cura” dell’umano e del bene comune come forma di cittadinanza attiva.
Beni comuni. Il conflitto per i beni comuni ci ha insegnato a leggere il gigantesco processo di recinzione e mercificazione in atto, e ci ha insegnato anche come la definizione di bene comune sia una definizione sociale, che nasce appunto dal conflitto. Abbiamo imparato così a estendere la definizione di bene comune, alla conoscenza, alla democrazia, finanche al lavoro in sé. Non credo sia possibile battersi per la demercificazione di un prodotto in permanenza della mercificazione dell’attività che lo produce. Vi è dunque una connessione profonda fra reddito, produzione di beni comuni e attività di cura: creare la possibilità dell’autodeterminazione e demercificare il lavoro, ossia anche il riconoscimento, la relazione, la soggettivazione ad esso connessi.
Gesti di rivolta. Fare i conti con il paradigma della recinzione che ha incluso quello dello sfruttamento chiama in causa nuovamente una possibilità di approfittare della differenza, dell’eccedenza delle donne. In questi giorni, anche con la discussione sulla riforma del lavoro, è manifestamente andata in scena una sconfitta epocale del nesso lavoro-conflitto-soggettivazione nelle forme in cui storicamente si è dato. E credo che questo debba farci interrogare, senza cestinarlo, anche sugli esiti del paradigma emancipativo. Per la riattivazione di una soggettività creatrice e conflittuale diffusa , per ampliare il fronte del possibile dobbiamo rendere indefinibile- perdonatemi il paradosso – la parola liberazione, attraverso molteplici gesti di rivolta, riconnettendo lavoro, autodeterminazione e insubordinazione.