Mi colpisce innanzitutto la vicinanza di analisi con la relazione introduttiva di Teresa e dunque la lettura della fase che stiamo attraversando. Molto simile peraltro alla base della discussione che ha caratterizzato la due giorni alla Casa Internazionale delle donne di Roma dell’iniziativa “Ragazze interrotte”, una riflessione che, anche in quel caso, si interrogava a partire dalla crisi, sui rischi e sulle opportunità. Questa ambivalenza tra rischi e opportunità mi pare sia stata centrale anche negli interventi di oggi e a me interessa metterla a fuoco proprio per viverla come un’occasione unica per le donne e, attraverso loro, per tutti/e. Dunque, come mettere a valore l’interruzione e trasformarci tutte in ragazze interrompenti?
Per me, come per TILT, è importante considerare anche le differenze di uno sguardo giovane, o meglio di uno sguardo generazionale, di quelle generazioni che con la precarietà sono cresciute e che non hanno conosciuto modelli di lavoro diversi. Federica Giardini richiamava giustamente il valore del lavoro come luogo di socializzazione, il valore del lavoro per la costruzione del senso di sè, aspetti per noi (generazioni nate precarie) sconosciuti. Per questo quando ho letto il titolo di questo seminario, alla domanda “Lavoro o no?”, la mia risposta istintiva è stata NO. No perché oggi, e con questo mercato del lavoro, non si può ripartire dal lavoro, soprattutto se si ha l’ambizione (sacrosanta) di costruire una nuova visione del mondo, un pensiero lungo che ci sottragga dall’errore che spesso fa la politica di agire secondo urgenze, di rispondere alle contingenze, senza ripensare un sistema che entra evidentemente in un cortocircuito.
La precarietà esistenziale ci ha portato a trovare un terreno su cui confrontarci anche con i ragazzi, ed è da questo terreno generazionale che lo sguardo sulla femminilizzazione del lavoro evidenzia aspetti interessanti. Non sono più solo le donne che sperimentano sulla propria pelle cosa voglia dire essere sottoposti a ricatti, cosa voglia dire solitudine, cosa voglia dire non vedere nel lavoro un luogo di socializzazione, cosa voglia dire conoscere relazioni di potere e non il potere delle relazioni, cosa voglia dire sentirsi appellare come SFIGATO/A e capire che in quell’appellativo si nasconde una visione del mondo, quella per cui se non ce la fai è colpa tua, che sei inadeguato. Pensate a quante donne si saranno sentite inadeguate, non necessarie, sostituibili, e quanto conti invece l’indispensabilità. Partire da qui per costruire una nuova cittadinanza vuol dire dunque sentire l’indispensabilità delle relazioni, della cura, delle donne, delle giovani donne e forse dei giovani uomini.
A maggior ragione se guardiamo a chi oggi costruisce modelli. Lo dico con una battuta: è bello che a prendere la parola siano le FILOSOFE dopo le Tecniche, che ci lasciano perplesse proprio sull’occultamento di una visione del mondo, laddove ci sia.
È fondamentale infatti la differenza tra l’agire per compartimenti stagni e l’immaginare con cura una diversa visione del mondo. È interessante forse chiedersi quanto la politica sia mancata e quanto sia mancato alla politica l’apporto delle filosofe. E quanto ci possano essere degli strumenti attorno a cui costruire delle battaglie comuni, dei percorsi e dei processi, e penso al Basic Incombe come strumento per uscire dai ricatti, per uscire da una visione del mondo e pensarne un’altra che vuol dire anche ripensare un modello di sviluppo, per uscire da uno schema che vede il lavoro da una parte e il welfare dall’altra. Per anni abbiamo discusso un modello di welfare disegnato con gli occhi del maschio, oscurando le necessità, le opportunità, le angolature di quello femminile. Un welfare caritatevole e assistenzialista da una parte, a misura di uomo nei tempi e negli spazi dall’altra.
Adesso è venuto il momento di raccogliere la sfida, non per dichiarare lo Stato sociale morto, ma per disegnarne uno all’altezza delle donne e degli uomini del nostro tempo. Il Basic Income rappresenterebbe uno strumento universale con una matrice fortemente europea, e dunque un terreno per costruire una rivendicazione di donne per tutti/e. In questo, tra l’altro, rientrerebbe il discorso sul lavoro di cura ma ancor di più lo scarto rappresentato dalla cura scissa dal lavoro, almeno da quello che domina oggi il dibattito.
Cura di sè e del mondo, del passato, del presente e del futuro. Serve un atto creativo e dunque nuova cittadinanza per ripensare a come fare questo spostamento? Io credo sia già nelle cose che ci siamo dette e che ci diremo nei, mi auguro, prossimi appuntamenti.