Isabella Pinto – Intervista ad Adriana Cavarero. Filosofia della narrazione e scrittura del sé: primi appunti sulla scrittura di Elena Ferrante

I.P. Cara Adriana, grazie per avermi concesso questa intervista. Alcune cose in breve sul lavoro che sto portando avanti. Il mio interesse di ricerca prende le mosse dalle scritture del sé che usano in maniera progettuale la fiction, su diversi livelli. In particolare intendo studiare forme di scrittura riconducibili a generi dai confini molto labili autofiction, memoir e personal essay. Per farti qualche esempio: Elena Ferrante, Annie Ernaux, David Foster Wallace. Questo primo anno di ricerca mi è servito per costruire una forte base teorica. Nei primi testi letterari che ho avuto modo di approfondire ho ritrovato molte strade che lei ha percorso nel suo lavoro filosofico. Ad esempio, per quanto riguarda Ferrante, mi sembra di scorgere un lavorio della questione dell’unicità che però problematizza la questione dell’identità, poiché l’autrice si sottrae dalla propria identità reale mettendo così in questione il meccanismo autoriale commerciale. Allo stesso tempo credo che Ferrante sottolinei fortemente questo suo carattere di unicità, perché leggendo i suoi testi è forte la percezione di essere di fronte ad un’autobiografia, capace di parlare attraverso quell’unicità di un’esperienza più ampia, più collettiva. Quindi da una parte questo, dall’altra ho approfondito il pensiero di Rosi Braidotti e Donna Haraway, perché penso che tanto la questione della tecnologia, quanto del non-umano, siano problematiche strettamente connesse con le storie e lo scrivere, in un epoca in cui tutto è raccontato e raccontabile. Lo storytelling e i social network sono due esempi che mettono in luce come lo scrivere di sé, la propria unicità ecc., siano oggi messi a valore. Il profitto di cui godono i giganti del web 2.0 sembra venire dalla messa a lavoro del desiderio di esternare la propria unicità attraverso il racconto di sé. Questo è il campo di forze che sto mappando alla ricerca di una materialità delle storie e credo che in questo nodo potrebbero esserci cose interessanti da dire. Penso ad esempio all’ambito del lavoro, in cui la svolta postindustriale è stata chiamata da più parti femminilizzazione del lavoro o lavoro immateriale, termini che segnalano una sorta di genderizzazione della supposta non-corporalità del lavoro o flessibilità del lavoro, sempre più difficile da pagare perché non rispetta i classici criteri di visibilità del lavoro; quindi non credo sia un caso che questa svolta sia stata nominata servendosi di tale terminologia. In un contesto così delineato trovo interessante i discorsi che si stanno raccogliendo attorno al New Materialism, anche se, sul piano della materialità narrativa, il punto di vista da cui viene preso in considerazione il rapporto tra narrazione, storie e tecnologie è quello hardware: i rifiuti altamente tossici in cui si trasformano i nostri computer, tablet e smartphone, una volta esaurito il loro uso, vengono smaltiti in luoghi lontani dall’Occidente, danneggiando la vita e l’ambiente in cui vengono scaricati. La mia ipotesi è che sia possibile formulare il problema da un punto di vista software, forse più subdolo perché invisibile, ovvero attorno alla materialità della narrazione e dei flussi narrativi.

A.C. Vorrei puntualizzare una cosa rispetto a quello che dici sul desiderio di esternare la propria unicità attraverso il racconto di sé. Quando parlo, nei miei libri, del sé narrabile insisto sul fatto che si tratta di un sé narrabile che viene narrato dall’altro o dall’altra. Il suo è un desiderio di narrazione per bocca altrui. Certo, questo desiderio di narrazione può anche sfogarsi in autonarrazione, oppure in una fiction autobiografica, però si tratta di un abbaglio di matrice narcisistica che postula l’autosufficienza de sé e la sua trasparenza a se stesso: secondo me, un vecchio abbaglio in cui è caduto, per esempio, anche Rousseau. Per come la vedo io, l’unicità non è un’eccezionalità che l’autobiografia dovrebbe comprovare o produrre. E’ un dato – ogni essere umano è un essere unico, dice Arendt – che la biografia, già come genere letterario, presuppone. Quando parlo dell’unicità in termini di narrabilità, riprendendo un’idea di Hannah Arendt e, un po’ piegandola al mio discorso, insisto appunto sul fatto che l’altra è necessaria perché la mia storia sia narrata. Il senso della storia è anche l’operazione materiale di narrare la storia che viene dall’altra. Penso che, se c’è qualcosa che Ferrante prende come ispirazione dal mio lavoro – come ho letto in una sua intervista su Vanity Fair – è il paradigma della relazione narrativa. Mi pare che, soprattutto nella tetralogia, Ferrante utilizzi proprio un modulo di questo tipo: è una che narra, però narra la vita dell’altra, narrando al contempo di altri e di narrazioni altrui sull’altra. Il rapporto fra le due amiche è molto stretto e le due amiche producono, l’una per l’altra, delle narrazioni biografiche. Addirittura, secondo me, in Ferrante, in maniera molto raffinata da un punto di vista stilistico, viene fuori, alla fine, che tutti e quattro i romanzi hanno come ispirazione i temi, i fogli, che aveva scritto Lila da bambina. Sia Elena che Lila vanno bene a scuola, sono promettenti: ma è Lila che, quando sono bambine, scrive delle pagine che fa leggere a Elena, è lei che si rivela precocemente scrittrice, narratrice. E’ lei che intuisce il legame fra vita singolare, relazione di amicizia e storia. Poi Ferrante suggerisce tra le righe, come poetica della tetralogia, che questa grande narrazione biografica di Elena in quattro libri sia proprio uno sviluppo dei fogli che aveva scritto Lila. C’è comunque un continuo incrocio per cui ciascuna diventa narratrice dell’altra, reale o potenziale: una vera e propria poetica che, nella scrittura di Ferrante, diventa un nuovo genere letterario per la fiction. Nuovo genere letterario che non è né puramente autobiografico né semplicemente biografico: ciò che attraversa la tetralogia di Ferrante e ne caratterizza l’originalità sono infatti le biografie di una relazione in atto. Quello che io colgo, leggendo i quattro libri, è questo continuo mettere in scrittura, mettere in narrazione, una relazione in atto fra le due amiche. Al centro della trama c’è una soggettività relazionale, continuamente in atto, continuamente narrata, che non solo viene narrata dall’autrice Ferrante, ma viene anche narrata dalle due protagoniste del libro, che si raccontano l’un l’altra la loro vita, le loro storie, le quali, a loro volta, sono storie delle loro relazioni. Per cui, alla fine, una lettrice come me viene totalmente catturata in questa rete di narrazioni, in questa ragnatela narrativa. Nella scrittura di Ferrante l’elemento della relazionalità costitutiva del sè viene reso in modo molte efficace e coinvolgente. Quel che ho cercato di teorizzare nel mio Tu che mi guardi tu che mi racconti, ossia la relazionalità narrativa del sé, sforzandomi di liberarlo dalla gabbia definitoria delle categorie filosofiche alle quali sono per mestiere purtroppo incatenata, l’ho ritrovato, con una certa emozione, nell’opera di Ferrante e nella sua capacità di raccontare. Ed è questa, secondo me, la bellezza del libro: sei direttamente coinvolta nella relazione narrativa, la relazione fra Elena e Lila ti lega; cominci a leggere e non puoi fare a meno di andare avanti. Il coinvolgimento è anche un riconoscimento: facilitato da una quotidianità di vite vissute – certo, napoletane e italiane, ma anche punteggiate da esperienze femminili ricorrenti altrove in Occidente – che può aspirare a un certo grado di “universalità”. Uso con cautela il termine “universalità”, che è ovviamente assai problematico da un punto di vista filosofico. Ma non voglio rinunciare a spiegarti perché questo aspetto mi ha colpita rispetto a un particolare decisivo della mia concezione del sé narrabile. Come sai, Arendt esemplifica il suo modello narrativo sul rapporto fra gli eroi della guerra di Troia ed Omero: Omero è l’altro, lo storyteller, che racconta la storia degli eroi e li rende così immortali presso la memoria dei posteri. Ancora noi sappiamo chi erano Ulisse ed Achille perché conosciamo la loro storia, narrata da Omero, nella quale è messa in parole – resa tangibile, dice Arendt – quell’unicità della loro identità personale che si rivelava momentaneamente e in modo discontinuo nel flusso delle loro azioni. Sfrondando la teoria arendtiana dal peso dell’epica, io invece faccio del sé narrabile un sé narrabile quotidiano: io ti racconto la mia vita, tu me la ri-racconti, noi siamo dei sé narrabili nelle vicende della quotidianità, in un certo senso, nella normalità…e non c’è bisogno di Omero che ci scriva la biografia! Ferrante riesce a rendere narrativamente il sé narrabile facendo proprio emergere questo nodo relazionale incardinato nella quotidianità: il cosiddetto ‘patto col lettore’ risulta così tanto più naturale e perfetto. Scusa se accenno un altro punto in cui ho trovato una corrispondenza fra l’opera di Ferrante e i miei sforzi teorici: quando parlo di relazionalità non parlo di relazionalità generica, non dico tutti siamo in relazione con tutti e il mondo è interdipendente … sì anche questo … e si possono costruire importanti discorsi etici, politici, ecologici su questo, ovviamente; ma io non chiamo in causa questa relazionalità generale nei miei testi. Quando parlo della relazionalità, intendo relazionalità di situazioni concrete, come può essere l’amicizia, come può essere l’amore, come può essere il rapporto madre e figlia ecc.. E Ferrante coglie, secondo me, proprio nel segno di questa relazionalità concreta, diffusa e quotidiana, perché mette a tema la relazionalità tra due amiche, e tutte le loro relazioni, a seconda della famiglia o delle situazioni. C’è appunto sempre una concretezza nell’altro, nel narratore, nella narratrice, nella relazione, nel rapporto. Sintomaticamente, questa concretezza della relazione all’altro solo la letteratura, solo la narrazione la può dare. La filosofia invece non ce la fa, anzi, la neutralizza! Che brutto mestiere è il mio! In questo momento, per esempio, non ti sto narrando di qualcuno, di me o di te: ti sto facendo un discorso filosofico, ti sto spiegando una teoria: un discorso filosofico può essere utile per chiarire quello che intendo, ma rimane sempre a un livello assertivo generico. Anche se questa è un’intervista, e stiamo avendo una relazione faccia a faccia nello spazio angusto del mio studio, lo schema dialogico che adottiamo è il tipico metodo filosofico che ci presuppone come soggetti razionali astratti, capaci di condividere una razionalità discorsiva generale. Ossia capaci di parlare logicamente di qualcosa, non di qualcuno e, tanto meno, di me o te. Attraverso la narrazione, come dice Hannah Arendt, la relazione viene invece resa tangibile, cioè trova significazione, trova significato tangibile quella relazione costitutiva che fa sì che nessuna e nessuno di noi sia un soggetto astratto che si pone da sé, perché ogni sé, proprio nella sua unicità, è totalmente costituito e sempre esposto all’altro. Ecco, Ferrante riesce a esprimere queste cose che, dette col linguaggio filosofico, sembrano tanto astruse; riesce a renderle tangibili e, per virtù della sua arte narrativa, anche piacevoli: immediatamente il significato viene assorbito da chi legge. Il discorso definitorio della filosofia non ci riesce. Questa è la grandezza della letteratura!

I.P. Secondo lei i personaggi di Lenù e Lila potrebbero essere letti come due facce dello stesso volto, come una sorta di multistrato del sé?

A.C. Incamminarci su questa strada non mi piace: sarebbe un po’ come schiacciare l’occhio alla psicanalisi, magari con un tocco di post-moderno, rischiando di essere banali. Chiaramente, qualsiasi narratore, in qualsiasi personaggio, mette un po’ di sé. Allora si può dire che Tolstoj sia Anna Karenina o il conte Vronskij, e che Flaubert sia Emma Bovary: e, in effetti, è stato detto più volte. Ma così facendo si rischia, appunto, una certa banalità che non coglie in profondità il mestiere del narrare. Perché questo è sempre vero: se tu sei l’autore o l’autrice di un romanzo, è ovvio che in ognuno dei personaggi ci sei anche tu, o per lo meno, ci sei tu che hai visto un certo tipo di atteggiamento o di carattere in altri e ne fai un personaggio: insomma il filtro è sempre chi scrive. La costruzione narrativa di relazionalità concreta che Ferrante mette in parole, invece, mi pare un’operazione molto più raffinata. Non mi interessa se dietro il nome Elena Ferrante si celi una sola autrice (credo di sì) o magari una squadra di scrittori, mi colpisce la capacità di costruzione, di architettura, di progettazione, di tenuta del filo narrativo relazionale del romanzo che sto leggendo. Il narrare, fare romanzo, fare fiction, non è semplicemente un’operazione spontanea, fluida, che viene dalla mente e dalla mano, il frutto di una pulsione autobiografica naturale. C’è una sapiente architettura, c’è un’artigianalità (craft), e questo va molto apprezzato nei libri che sono buoni libri. E non credo che si tratti di un’architettura in cui ciò che conta è che chi scrive fa vedere se stesso e il suo doppio, oppure, senza neanche volerlo, rivela la sua parte inconscia: questi discorsi freudiani da cinque dollari mi infastidiscono! Invece, oltre al talento, c’è un’arte, e la narrazione è una grande arte. Sherazade è un’artista, non è che spontaneamente racconti per salvarsi la vita, sa inventare e narrare storie. Anche Karen Blixen è una vera artista, secondo me. Ho una predilezione per l’arte femminile del narrare.

I.P. A partire da Karen Blixen, che affronta molte questioni letterarie in modo assolutamente originale, coma hai ben spiegato in «Tu che mi guardi, tu che mi racconti» e «A più voci», quali sono scrittori/scrittrici contemporanee che portano avanti alcune delle questioni o dei modi di narrare da lei espressi?
A.C. Chiedi troppo! Mi limito ad accennare ad alcune autrici contemporanee che mi piacciono molto e nei cui testi trovo qualche preziosa corrispondenza rispetto ai miei modi di intendere la narrazione. Irene Nemirovsky, per esempio, soprattutto per la sua spudorata capacità di raccontare un rapporto difficile e crudele fra figlia e madre (Il ballo! Un piccolo capolavoro che, quando lo leggi, stai male). Poi Annie Eranux, brava anche per la sua semplicità di tono nel raccontare della relazionalità concreta rispetto all’esperienza quotidiana. Non parliamo di Elsa Morante che è per me un classico! Ultimamente ho molto apprezzato un libro di Clara Uson, La figlia, romanzo biografico sulla vita della figlia di Mladic, con un respiro storico notevole: la Storia, per Uson come per Arendt, è ciò che risulta dall’intrecciarsi di storie individuali. Ti cito a memoria una frase di Arendt da Vita activa: “che ogni vita individuale tra nascita e morte sia raccontata un giorno come una storia con un inizio e una fine è la condizione prepolitica e preistorica della Storia senza un inizio e una fine, ossia della Storia come grande libro dei racconti dell’umanità”. Di questo appunto racconta La figlia: una tessitura formidabile di biografie che fanno la Storia o, per lo meno, quel che noi chiamiamo Storia e che Uson scompone sotto i nostri occhi di avide lettrici. (Ebbene sono una lettrice molto avida: leggo romanzi, ogni notte, almeno per tre ore, da decenni: è il momento migliore della mia giornata). Devo aggiungere, per onestà, che, a livello di capacità narrativa, e mi dispiace che non sia una donna (ride), leggo anche volentieri Philip Roth: ma quanto narcisismo!

I.P. Vorrei seguire il desiderio di costruire un corpus di testi letterari attraverso cui è possibile pensare attraverso le storie. Su questa traiettoria uno dei primi problemi che mi sono trovata ad affrontare è quello del posizionamento,motivo per cui mi sono inizialmente indirizzata verso testi femminili; sento ancora operativa una sorta di cancellazione della genealogia intellettuale femminile, ad esempio nello studio dello storytelling. E quindi una parte del mio lavoro vorrei dedicarlo a ri-aggiornare tale questione, pur sapendo che il femminismo ha fatto già molto in questa direzione.

A.C. Dal punto di vista della tradizione letteraria c’è molto materiale, mi pare, a partire da un libro famosissimo di molti anni fa, The Madwoman in the Attic, di Sandra Gilbert e Susan Gubar: pubblicato nel 1979, è subito diventato una specie di bibbia per la critica letteraria femminista, preso a modello, soprattutto in ambito anglosassone e statunitense, per la ricostruzione di genealogie femminili nell’arte del romanzo e del racconto. Il libro è anche tradotto in italiano e si può dire, in generale, che anche in Italia ci siano studi interessanti sul tema, tanto caro a Virginia Woolf, del rapporto fra donne e romanzo. Gli studi femministi italiani, per lo meno dal mio angolo di osservazione, se confrontati con quelli di lingua inglese, spiccano però per il loro alto tasso di politicizzazione, al quale corrisponde il notevole sviluppo di discipline, per definizione, vicine alla politica, come la storia o la filosofia. Il fenomeno è molto interessante e prende degli aspetti curiosi. In tempi recenti, per esempio, nel mondo di lingua inglese, ho assistito al risveglio di un grande interesse per Carla Lonzi. Spesso mi invitano a seminari o convegni nelle università britanniche, pensando che io sia una specialista del pensiero di Carla Lonzi o, addirittura, che abbia avuto un forte legame intellettuale con lei e ne sia diventata, per così dire, l’erede. Ovviamente l’ho letta e l’ho apprezzata, ma non l’ho mai conosciuta personalmente, e non credo che i suoi testi siano per me più importanti di quelli di Luce Irigaray o, in misura minore, di Simone de Beauvoir. Visto dall’estero, si coglie insomma la continuità di una certa scuola italiana di pensiero femminista che, a dire il vero, non c’è o è comunque molto complicata e frastagliata.

I.P. Forse anche perché all’estero le discipline sono organizzate in maniera diversa rispetto a quella italiana.

A.C. Se vuoi dire che Carla Lonzi è un esempio di pensiero libero che si oppone alle logiche accademiche e che il femminismo italiano è più libero perché nelle nostre università non ci sono i Gender Studies o i Feminist Studies, ho un discorso da farti. Ritengo che sia un peccato che nell’università italiana non ci sia un’area disciplinare (in burocratese si dice così!) di Studi Femministi o Studi della Differenza Sessuale e mi sono sempre opposta alle femministe italiane radicali che della loro contrarietà all’istituzionalizzazione accademica di questi studi hanno fatto una bandiera politica e soprattutto ideologica. Le storiche sono state più sagge e hanno ottenuto degli spazi accademici di riconoscimento, le filosofe invece hanno nuociuto a loro stesse e, soprattutto, alle giovani generazioni. L’accademia non è un male assoluto, è un’istituzione nella quale ci sono finanziamenti e posti di lavoro per chi si dedica meritevolmente alla ricerca, eventualmente anche per chi fa ricerca sui temi femministi, se gli Studi Femministi fossero inclusi nelle discipline accademiche. Nel lavoro che tu stai facendo e per il quale mi stai intervistando, per esempio, al di là del fatto che puoi prendere ispirazione anche dalle pensatrici extra-accademiche o anti-accademiche, che tu abbia una sede accademica per scrivere e discutere la tua tesi è importante. L’università organizza la trasmissione alle giovani generazioni dei saperi e dei metodi di ricerca. Questo è importante: dobbiamo fare in modo che il patrimonio di sapere femminile, ne parliamo in questi termini altisonanti (ride), non vada perduto e prosperi nell’accademia, perché l’accademia è un luogo di conservazione e trasmissione. E conservazione non è un vocabolo cattivo, ovviamente: Dante e Shakespeare sono conservati e si continuano a studiare anche per merito dell’accademia. Questa è la ragione per cui, andando contro corrente rispetto a molte filosofe femministe italiane, ho sempre militato in favore dell’istituzionalizzazione degli Studi della differenza sessuale o degli Studi di genere: bisogna vedere in che parte del mondo una abita per usare i vocaboli giusti (ride) ma non è quello che conta, quello che conta è che giovani studiose come te possano occuparsi all’università di temi femministi e, magari, fare carriera per trasmettere il loro sapere alle prossime generazioni. In Italia, al momento, non è possibile se non attraverso il compromesso di una finzione. Io ne sono un esempio: sotto l’etichetta neutrale della disciplina ‘Filosofia Politica’, che compare fra le materie istituzionali ammesse da Ministero, insegno e faccio ricerca nel campo della teoria femminista e della differenza sessuale. Anche la mia lettura di Hannah Arendt risente di questa angolazione prospettica. Di recente è stato fondato, all’università di Verona, un “Centro Hannah Arendt per gli studi politici”: ne fanno parte alcuni giovani colleghi e colleghe impegnati in una ricerca che rivisita il pensiero arendtiano o, più in generale, la tradizione del lessico politico, alla luce del pensiero femminista. C’è anche un centro di studi, ormai consolidato e molto vivace, “Politesse” (Politiche e Teorie della Sessualità) che si occupa, tra l’altro, dei queer studies: una rarità in Italia! Abbiamo molti rapporti internazionali e attiriamo dottorandi stranieri e ricercatori Marie Curie. E questo è un bene: anche per l’ateneo di Verona e i suoi indici di eccellenza. Per queste e altre ragioni, io non sono fra coloro che dicono «meglio stare fuori dall’accademia perché così siamo più libere e pure». Al contrario, ritengo che l’accademia sia molto importante e vitale perché la ricerca interdisciplinare in questo campo trovi continuità e fiorisca.

I.P. Però forse ora, e visto che il sistema universitario è in fortissima crisi, la questione dell’istituzionalizzazione di saperi potrebbe spostarsi anche verso istituzioni artistiche e culturali esterne all’università?

A.C. Sì, ma l’università, anche fuori dall’Italia, è il cardine. Per ottenere fondi di ricerca europei destinati anche a finanziare il lavoro di studiose giovani come te, bisogna essere strutturate, ossia, in sostanza, bisogna essere professoresse universitarie come me, che infatti ho fatto molte application alla Comunità Europea per avere dei fondi. Se tu sei esterna al sistema universitario puoi farlo, ma è molto più difficile. Certo il mondo è cambiato e i saperi non vivono più entro angusti confini e secondo i ritmi del sistema accademico: ci sono nuovi mezzi, internet, il digitale, anche le biblioteche non sono più le biblioteche cartacee e polverose di una volta, per non menzionare l’evoluzione delle arti e del teatro a cui tu accenni. Si tratta di una metamorfosi in rapido mutamento, con accesi multipli e diverse modalità di partecipazione, che è ovviamente ricchezza e apre infinite possibilità, dentro e fuori dell’università. Però, per le giovani generazioni che vogliono fare ricerca, l’università è l’ambito che più immediatamente dà loro una possibilità e il tempo per mettersi alla prova.

I.P. Un ultima domanda sulla questione del desiderio connesso alla scrittura di sé sui social network, abbiamo già accennato qualcosa, lei dice un narcisismo che sta alla base di tutti noi. Però è anche vero che le nuove tecnologie ti mettono in relazione con altri. Tutti, potenzialmente, possono leggere ciò che scrivi, e visto che lei conosce bene gli Stati Uniti, un’altra linea di ricerca, che forse affronterò dopo il dottorato per questione di tempo, è quella che si apre nel tentare di capire se e come la soggettività viene modificata dalle forme del digitale e di internet nella loro svolta emozionale, e come tale architettura digital-emozionale sia connessa ad una forma di vita ben specifica, ed è quella da cui si sviluppa, ovvero le forme di vita californiane. Studi su questo già ci sono stati, ad esempio tutto il discorso sulla Californian Ideology datata 1995.

A.C. Io non so molto di questo, ma quello che posso suggerire è che, quando si parla di America e di relazioni fra le persone, è indispensabile tematizzare la questione dello spazio. La California, per esempio, è notoriamente un territorio molto grande ed espanso: viene messo in conto, come la cosa più naturale del mondo, che prendi la macchina e guidi per chilometri per qualsiasi cosa tu voglia fare, compreso incontrare amici e prenderti un caffè. Insomma la percezione interelazionale e quotidiana dello spazio è diversa per chi, come me, vive a Verona e per una californiana. Pensa poi agli insediamenti in the middle of nowhere, ai bordi di un nastro asfaltato, con un distributore di benzina, un motel, poche casupole e niente negozi. Che differenza con la Napoli di Elena e di Lila! Ciò’, a mio avviso, diventa tanto più significativo in rapporto al problema che tu poni di questo nuovo tipo di relazionalità all’epoca di internet, che è una relazionalità che elimina lo spazio e tuttavia produce una prossimità artificiale istantanea. Prendiamo Skype: è in tempo reale, vedi l’immagine dell’altra, senti la sua voce, in un tipo di situazione che però non mette veramente in relazione o, per lo meno, non mette i corpi in vicinanza. Si smaterializza il concetto di vicinanza, viene eliminata la distanza, ossia sostanzialmente lo spazio: è una relazionalità dove ciascuno degli esseri in relazione può essere in qualsiasi luogo. Quando mi capita di parlare via Skype con una collega americana non le dico infatti «ciao, sono a Verona», posso essere a Berlino o in Inghilterra o in qualsiasi luogo: il punto è che non è interessante né per me né per lei dove siamo fisicamente. Da questa prospettiva l’elemento dello spazio è quindi qualcosa da pensare con attenzione: tu hai un modo di metterti in relazione che, pur non essendo propriamente fisico, ha però una sua materialità percettiva – tu vedi e senti l’altra – in un certo senso distorta o esasperata. Del resto, su Facebook, c’è una tendenza alla narrazione del sé che, oltre ad essere morbosamente narcisista, è spesso esasperata se non esasperatamente stupida. Io uso Facebook raramente perché, se da una parte sono contenta di vedere le fotografie dei bambini di alcune amiche che vivono in paesi lontani, d’altra parte mi annoio alquanto a leggere informazioni autobiografiche essenziali come: I’m having a tea o had a walk on the beach. Insomma, a volte, il narcisismo sui social media è pateticamente tedioso.

I.P. Quello che io ho trovato interessante sono le cose più collettive che si possono fare tramite Facebook, dalle primavere arabe al 15M spagnolo, dove però il registro narrativo è comunque molto simile alla scrittura di sé in prima persona e il senso collettivo viene creato solo se tanti, con la loro unicità, concorrono a formare un flusso narrativo oltre che un’azione politica collettiva.

A.C. Sì, certo, tutti questi fenomeni sono molto interessanti. Ne va del significato politico di un modo di comunicazione immediata, singolare e plurale; ci costringe a ripensare il concetto di movimento e il concetto di piazza. Di nuovo, c’è di mezzo lo spazio: che è virtuale ma anche materiale, secondo una mescolanza di piani di partecipazione e ‘presenza’ che sconvolgono le coordinate tradizionali. Il medium cambia l’assetto concettuale e produce un effetto di vicinanza, persino una prossimità o un’illusione di prossimità agli eventi della Storia. Per esempio, io stessa, qualche mese fa, sono stata in piedi tutta la notte per seguire il colpo di stato in Turchia semplicemente perché i nuovi media me ne davano la possibilità. In un certo senso ero presente nella Storia, in che modo non lo so, però alcune informazioni le carpivo e mi pareva di partecipare all’evento in atto: ne percepivo la contingenza. Si tratta appunto di temi molto interessanti, ma è un discorso enorme: ripensare la politica, i movimenti in presenza, le pluralità virtuali, delocalizzate, virali. Bisognerebbe studiare questi fenomeni una decina d’anni per capirci qualcosa, perché mettono in campo categorie nuove, sconvolgenti. Proprio in questo periodo sto cercando di confrontarmi con Judith Butler che, nel suo ultimo libro Notes Toward a Performative Theory of Assembly affronta proprio questi temi.

I.P. Capisco la difficoltà, però io sono arrivata a pormi queste domande a partire dal ripensare la soggettività fuori dal soggetto razionale, cercando vie differenti di interpretazione: lo studio del pensiero di Cavarero, Braidotti, Haraway, con un’attenzione anche alle trasformazioni del presente, mi hanno portato a riflettere sulla necessità di inchiestare le forme di vita da cui nascono infrastrutture digitali che ci modificano. E quindi se studio il soggetto nomade di Braidotti o il “suo” lavoro sul superamento del soggetto cartesiano è perché mi faccio delle domande sul presente attraverso la realtà che vivo e attraverso le persone a me più prossime.

A.C. Adesso ho capito cosa vuoi dire. Adrienne Rich, in un saggio famoso, ha usato l’espressione politics of location: la tradizione femminista ne ha ripreso spesso la formula, anche secondo il senso, che ritengo importante, di ‘politica che si radica nella tua situazione concreta’. Le femministe italiane del pensiero della differenza sessuale insistono invece sull’espressione ‘partire da sé’, ma quello che intendono dire non è molto diverso. Tu sei giovane e non solo vivi ma sei cresciuta, ti sei formata, nell’era delle infrastrutture digitali: è giustamente da questa posizione, da questa esperienza, dalla tua location, che vai a reinterrogare il soggetto nomade di Braidotti o il cyborg di Haraway. Le accomuna una critica del soggetto cartesiano, un soggetto astratto che, non a caso, è pretestuosamente non situato nel mondo, immobile, compatto, autosufficiente, puro – in una parola, irrelato. La critica viene sviluppata dalle due filosofe soprattutto attraverso categorie post-moderne e post-strutturaliste. Pur apprezzando sia Braidotti che Haraway, personalmente ritengo che la grande onda del post-modernismo e del post-strutturalismo, anche in campo femminista, abbia fatto il suo tempo e abbia prodotto risultanti deludenti, soprattutto sul piano etico e politico, ovvero risultati sostanzialmente estetizzanti, come la glorificazione della frammentarietà e del cambiamento vorticoso, temi che non si coniugano facilmente con le questioni, a me care, della responsabilità e dell’impegno. Capisco però che, dalla tua situazione esistenziale, immersa nel contesto dei nuovi media digitali e delle domande al concetto stesso di soggettività che esse pongono, un rivisitazione di queste teorie possa risultare stimolante. Non capisco bene, però, quale connessione ci sia, nel percorso della tua ricerca presente e futura, fra questo tipo di problematiche e quelle che la lettura di Ferrante ti suscita. Più che nomade o frammentata, la soggettività narrativa di Ferrante ha la virtù di essere, allo stesso tempo, locale, situata e, per lo meno nei suoi effetti, transculturale. Ferrante ha venduto molti libri, non solo in Italia ma anche negli Stati Uniti, dovunque all’estero. Il suo successo suscita invidia, come nel caso di Harry Potter, e la comunità intellettuale degli invidiosi tende a reagire sottovalutandone la qualità letteraria e inserendola invece in un fenomeno di marketing ben congegnato, che sa conquistare i gusti popolari. In verità, come tu stessa dici, ci sono invece elementi narrativi e questioni ontologiche di grande complessità e profondità nella scrittura di Ferrante. Ti incoraggio ad andare avanti in questa direzione e ti raccomando di non trascurare il rapporto madre-figlia che, nell’opera complessiva di Ferrante, è una perla davvero preziosa: sarai la prima, o una delle prime, ad analizzare l’arte di Ferrante con strumenti speculativi adeguati alle risorse del suo universo narrativo. Io appunto la chiamo arte e ne vedo uno dei sintomi decisivi proprio nell’aspetto transculturale. Che io legga le storie di Lenù e Lila a Verona, ritrovandomi perfettamente in esse, presa al laccio e quasi appaesata con il loro ambiente, non è poi un fatto tanto sconvolgente: non so gran che di Napoli ma ci sono stata tante volte, ho delle amiche napoletane, ho visto le commedie di De Filippo, mi piace il suono della lingua, il pathos, la gestualità. Il fatto significativo è che leggono Ferrante con passione anche in Iowa e nell’Arkansas, o in altri luoghi che non hanno nemmeno una piazza in tutto il territorio urbano, eppure le lettrici si riconoscono in queste storie napoletane piene di viuzze, negozietti e mappe urbane relazionali straordinarie. Sono convinta che in questo effetto transculturale ci sia qualcosa di più di una trama ben confezionata e di una buona operazione di marketing. E’ il sé narrabile inserito nella relazionalità di situazioni concrete a definire la qualità specifica dei libri di Ferrante e a farla apprezzare, per così dire, universalmente. Di interessante c’è anche la specificità della sua tecnica di scrittura. Mi pare di averla percepita dopo poche pagine: il segreto, se così vogliamo chiamarlo, sta nell’eliminare gli aggettivi e gli avverbi, producendo una sorta di lingua bianca, elementare. Credo che sia facile da tradurre e che non si rovini nel passaggio da una lingua all’altra. Felicissimo esito espressivo della frantumaglia!

*L’intervista è stata realizzata a Verona il 28 Settembre 2016

Già pubblicata in “Testo & Senso”, numero 17, 2016. www.testoesenso.it

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