di Claudia Bruno (da inGenere.it)
Il ministero della salute ha presentato la relazione annuale sull’applicazione della legge 194. Per la prima volta le interruzioni volontarie di gravidanza registrate scendono sotto le 100 mila. Ma qual è lo stato dell’accesso ai servizi e del diritto alla salute?
Per la prima volta in Italia il numero annuale di interruzioni volontarie di gravidanza (IVG) è inferiore a 100.000. A riportarlo è la relazione del ministero della salute appena presentata in Parlamento e relativa all’attuazione della legge 194 del 1978 nel nostro paese. Nel 2014, si legge nel rapporto, sono state notificate dalle regioni 97.535 IVG (dato provvisorio), con un decremento del 5.1% rispetto al dato definitivo del 2013 (102.760 casi), e un dimezzamento rispetto alle 234.801 del 1982, anno in cui si è riscontrato il valore più alto di interruzioni volontarie di gravidanza nel nostro paese. Il tasso di abortività[1], che nel 2013 si registra al 7,6 per 1000 rimane tra i più bassi di quelli osservati nei paesi industrializzati. Dati, questi, che andrebbero però tenuti insieme alla quantificazione degli aborti clandestini. L’Istituto Superiore di Sanità ne ha fatto una stima inclusa tra i 12.000 e i 15.000 casi per il 2012, riscontrando una sostanziale stabilizzazione del fenomeno negli ultimi anni. Si tratta di cifre comunque sempre molto alte se si considera che tra le cause potrebbe esserci proprio la difficoltà nell’accesso ai servizi.
Lo stato dell’obiezione di coscienza e dell’accesso ai servizi
I valori di obiezione riscontrati dalla relazione nel 2013 restano elevati soprattutto tra i ginecologi – a obiettare sono il 70.0%, cioè più di due su tre – un dato che tende a stabilizzarsi dopo il notevole aumento degli ultimi anni. Il rapporto ha osservato poi un ulteriore incremento di obiettori tra il personale non medico, con valori che sono passati dal 38.6% nel 2005 al 46.5% nel 2013. Le maggiori differenze si riscontrano a livello regionale. I picchi sono al centro sud, con percentuali di obiezione tra i ginecologi superiori all’80%: in Molise (93.3%), nella provincia autonoma di Bolzano (92.9%), in Basilicata (90.2%), in Sicilia (87.6%), in Puglia (86.1%), in Campania (81.8%), nel Lazio e in Abruzzo (80.7%). Per il personale non medico i valori impennano in Molise (89.9%) e in Sicilia (85.2%). L’obiezione continua ad essere maggiore all’interno delle strutture ospedaliere rispetto ai consultori, dove pure è presente.
Cosa significano questi dati in termini di accesso ai servizi e diritto alla salute? La relazione mette in luce che per la prima volta, per quanto riguarda i carichi di lavoro per ciascun ginecologo non obiettore, anche su base sub-regionale, non emergono criticità nei servizi, perché ogni non obiettore in media si ritrova ad effettuare 1,6 interruzioni a settimana, e in ogni caso un non obiettore non arriva mai alle 10 interruzioni a settimana. Dall’analisi del ministero emerge poi che non c’è correlazione fra numero di obiettori e tempi di attesa, e che in media l’aumento degli obiettori in sei anni è coinciso con una diminuzione dei tempi d’attesa.
Secondo la ministra Beatrice Lorenzin, che ha firmato il documento, le difficoltà nell’accesso ai servizi“sono probabilmente da ricondursi a situazioni ancora più locali di quelle delle singole aziende sanitarie rilevate nella relazione, e probabilmente andrebbero ricondotte a singole strutture“.
Ma se è vero che a fare la differenza tra buona e cattiva applicazione della legge 194 sono proprio i singoli ospedali, allora va considerato che quattro ospedali pubblici su dieci di fatto non la applicano. Dalla relazione emerge infatti che nel 2013 a livello nazionale il numero totale delle strutture che effettuano le IVG corrisponde solo al 60% del totale delle strutture con reparto di ostetricia e ginecologia (era il 64% nel 2012). A livello regionale, risulta poi che in due casi, relativi a regioni molto piccole, è presente un numero di strutture disponibili inferiore addirittura al 30%.
La legge però prevede il diritto di obiezione solo per i singoli medici, non per intere strutture, significa che ognuna di queste dovrebbe essere in grado di garantire comunque il servizio.
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