Ci sono dei libri che restituiscono la temperie culturale e politica del proprio tempo, che entrano nella scena a tenere le fila di un dibattito da riordinare e poi altri che si impongono a fare la differenza e quel tempo lo scrivono perché sanno scandirlo. In questa ultima categoria rientrano certamente i libri di Judith Butler, filosofa e femminista statunitense tra le più note e influenti del panorama internazionale. La sua presenza interrogante all’interno della discussione politica contemporanea è centrale, dotata come è di rara scrupolosità critica. Tra le sue poderose e illustri interlocuzioni, spiccano certamente quelle scelte per Gender trouble. Scritto nel 1990 per Routledge viene tradotto per la prima volta in Italia da Sansoni nel 2004 con il titolo Scambi di genere. Non più disponibile in commercio, oggi viene pregevolmente riproposto per Laterza con il titolo più fedele Questione di genere e la nuova traduzione a cura di Sergia Adamo; viene riacquistato poi il sottotitolo originario Il femminismo e la sovversione dell’identità mostrandone tutta la rilevanza politica (pp. 220, euro 22). All’interno del volume sono presenti le due prefazioni di Butler (1990, 1998) insieme a un pertinente indice analitico per segnare l’articolazione dell’intera disamina. Seppure da un punto di vista linguistico sia radicato soprattutto tra la French Theory e il post-strutturalismo, il volume nasce – per stessa ammissione dell’autrice da ulteriori avvicinamenti politici; primo fra tutti è il contesto della comunità gay e lesbica della East Coast degli Stati Uniti che Butler nel 1990 frequenta da quattordici anni. Tenendo conto di tutte queste direzioni teoriche e pratiche, Questione di genere è oggi considerato un contributo irrinunciabile per comprendere il pensiero di genere e illuminare la costellazione della teoria queer.
La mimetica del potere
Il volume prefigura un lungo colloquio, dissonante e imprevisto, che Butler liberamente cuce con le fonti filosofiche e politiche a lei coeve intorno all’argomento principale: la discussione sul genere che non poggia sul dato biologico inteso come destinale ma, al contrario, è costruzione sociale e culturale – tensiva e fluttuante mai identica a se stessa. Tuttavia bisognerà risignificare il tempo stesso di quella costruzione e soprattutto capirne il dove. Per farlo, la filosofa mette in campo tutta la potenza della genealogia critica di cui dispone, partendo – nel primo capitolo – dalla critica alle categorie di genere, sesso e desiderio. Attraversa e discute le posizioni di Beauvoir, Irigaray e Wittig in capo alle sollecitazioni sui corpi sessuati, la femminilità e il linguaggio, proponendo da subito uno sguardo che riesca a smarcarsi dal pericolo del determinismo. Così ribalta il comune modo di pensare il genere inteso come afferente alla logica binaria e aproblematica della mascolinità e della femminilità; nella dicotomia infatti, Butler riconosce una mimetica del potere che poi è lo specchio dell’intera economia fallogocentrica. Il binarismo del genere è, con maggiore precisione, l’imprudente reificazione di una gerarchia piegata alla struttura dell’eterosessualità obbligatoria. Quella matrice normativa ed escludente è affrontata e scardinata da Butler nei nodi riguardanti principalmente il discorso strutturalista e psicanalitico in relazione alle strutture parentali e al tabù dell’incesto. Nel secondo capitolo, l’incontro con Lévi-Strauss, Freud e Lacan concede alla filosofa la possibilità di smascherarne i limiti per dichiarare, infine, la pensabilità delle pratiche sessuali e di genere detonando il lusso ontologico del binarismo. La morsa esiziale della gerarchia del genere esclude infatti le prospettive gay e lesbiche ma anche tutte le altre forme e pratiche della sessualità. Sta di fatto che l’intento di Butler non è quello di mostrare modelli più legittimi di altri bensì rompere con il fondamentalismo di una sessualità usurpata dalla normatività che pretenda di poter legittimare solo se stessa. La filosofa californiana non si affida però ad una semplice decostruzione teorica ma si fa signora della sovversione, quella stessa che non a caso risuona nel sottotitolo al volume e che conduce allo spostamento teorico e politico nel testo. Non vi è un’ineluttabilità del soggetto preesistente che racconti un’identità impigliata nell’universalità e nell’unità; si è piuttosto nei pressi di un attraversamento performativo degli atti di genere. Il punto viene proposto nel terzo e ultimo capitolo che, partendo dalla sfida critica offerta dall’incrocio con Foucault, assume delle attente valutazioni riguardo la costruzione del corpo materno da parte di Kristeva. La sovversione dei corpi e del genere è per Butler rintracciabile politicamente nella parodia intesa come postura imitativa senza un’origine. Ciò, secondo l’autrice, farebbe arretrare l’essenzialismo della cultura egemonica che pretenderebbe di parlare per tutte e tutti. In questo nuovo scenario in cui le norme del genere vengono dislocate e ricontestualizzate, Butler apre il femminismo ad una dirompente proliferazione di corpi che sappiano raccontare il proprio radicale stare al mondo. Questo stare al mondo, seppure raffiguri la costruzione di un’identità denaturalizzata, suppone una pluralità di corpi, di desideri e di soggetti che scelgono la relazionalità al posto dell’ontologia per spiegarsi.
Effettivamente la formazione di Judith Butler è una cartografia disseminata di implicazioni e ricadute di diversi ordini. Uno di questi è certamente quello etico con specifica attinenza al soggetto e ad alcune forme repressive interne all’identità; quest’ultima mai univoca e già data bensì sempre sospetta e minata alle fondamenta. In questo territorio complesso che Butler percorre con grande determinazione, la mimetica del potere ha un riverbero etico che pone la relazionalità in un orizzonte storico corrispondente alla filosofa e alla sua personale storia, senza voler per questo cedere all’autobiografismo. Da qui parte la riflessione di Parting ways. Jewishness and the Critic of Zionism. Pubblicato nel 2012 per la Columbia University Press è ora disponibile in italiano per Raffaello Cortina con la traduzione di Fabio De Leonardis. Il titolo, Strade che divergono. Ebraicità e critica del sionismo (pp. 317, euro 26,50) , segnala l’attenzione di Butler verso l’ebraicità di chiaro riferimento arendtiano – ben diversa dalla violenza di Stato israeliana. In questo complicato equilibrio non vi è secondo Butler nessuna confusione, almeno in riferimento a se stessa, giacché ebraicità e sionismo sono appunto strade distinte che non si incontrano se non nel tentativo manipolatorio di giustificare la colonizzazione israeliana verso i palestinesi come un dato radicato in una presunta sovranità. In questo corposo volume, suddiviso in otto capitoli e corredato dalla fine e calibrata prefazione di Laura Boella, Butler puntualizza qualcosa che accenna anche in altri suoi testi. Pensiamo a Critica della violenza etica ma anche a Vite precarie, per esempio. Qui sente però il bisogno di chiamare a sé le voci che l’hanno accompagnata verso la chiarificazione di tale distinzione segnando una dislocazione etica capace di far perdere terreno alla violenza. Da Said a Lévinas passando per Benjamin, Arendt e Primo Levi fino ad arrivare alla testimonianza poetica di Darwish, la filosofa ammette che alla fine del suo percorso critico non ha forse trovato risposte ultimative. Tuttavia, dice, ha lavorato fianco a fianco con un’impossibilità che poi è la minaccia del corpo del pensiero quando intende farsi scrittura intera. A ben guardare, vi sono fulgide risorse ebraiche per la critica della violenza di stato ma non sono le sole; ecco perché nel testo sono presenti anche orizzonti palestinesi nelle parole di Said e Darwish a riprova del guadagno grande che l’autrice avverte nel dono delle loro proposte.
Oltre l’«esclusività»
Nel settembre del 2012, accusata di antisemitismo da alcune organizzazioni israeliane, Butler rischia la mancata aggiudicazione del prestigioso premio Adorno. Così scrive una lunga risposta di precisazione e la pubblica nella rivista digitale «Palestina libre». In quella circostanza ribadisce di essere arrivata alla filosofia attraverso il pensiero ebraico rivendicando la sua vicinanza a Martin Buber e Hannah Arendt e di trovare ignobile ancorché doloroso constatare che un punto di vista critico verso la condotta politica dello stato di Israele possa essere frainteso con un attacco agli ebrei. All’interno del pensiero ebraico vi sono infatti posizioni laiche, religiose e storiche con significative differenze; Butler certamente si schiera con chi respinge il sionismo e, nel farlo, stabilisce un allontanamento necessario dall’esclusività della prospettiva ebraica come unica fonte di governo etico e politico. Questa erosione necessaria, che comprende un ripensamento della identità e della nazione come strutture determinanti, ha a che vedere con la modalità etica della dispersione perché «l’uguaglianza, la giustizia, la coabitazione e la critica alla violenza di stato possono rimanere valori ebraici solo se essi non sono esclusivamente ebraici». In Strade che divergono rafforza l’idea arendtiana di una coabitazione plurale come non scelta riguardo l’interesse politico per l’apolidicità. La filosofa dunque si fa carico di una traduzione culturale che consenta un’etica in cui trovino posto diversi discorsi. Anche l’alterità, come il soggetto, non è un’entità preesistente e senza volto. Nella trasposizione del tu e del noi, è invece l’occasione di affidarsi all’impossibile; un compito che, sostiene Butler, ha a che fare con l’esilio, la dislocazione e l’ingiunzione estetica del linguaggio poetico. Come per Mahmoud Darwish e quelle e quelli che vivono o hanno vissuto la catastrofe della spoliazione preferendo comunque – e nonostante tutto – la sovversione di sé.
[Alessandra Pigliaru, Il Manifesto 25 maggio 2013]