Per chi come me è nata troppo tardi per conoscere in presenza il lavoro di Letizia Comba, questo libro rappresenta una strana specie di baule o di scrigno, in cui fare delle scoperte.
Non tutte le cose sono immediatamente evidenti, ma nello scavare all’interno, andando avanti e tornando indietro nella lettura, si recuperano gli elementi diversi di una personalità straordinaria. A volte il corso del suo pensiero è inaspettato, altre volte arriva proprio là dove vorremmo si soffermasse e che la sua intelligenza andasse ad illuminare quello che premeva anche a noi.
Nella prima parte del volume, Gettare lontano le chiavi, sono raccolti alcuni scritti che analizzano le dinamiche dell’internamento e si riferiscono al periodo trascorso da Comba, in qualità di psicologa, presso l’ospedale psichiatrico diretto da Franco Basaglia a Gorizia.
In questa fase, la sua indagine si concentra sul rapporto tra l’istituzione manicomiale, e le sue forme organizzative, e il malato, e anche tra questi, la psichiatria – come disciplina e insieme forma di disciplinamento – e lo psichiatra.
Ad essere interessante è però la capacità di riconoscere come le logiche che si sperimentano all’interno del manicomio non siano esclusive di un mondo separato; il pensiero di Letizia Comba è sempre verso e insieme oltre l’oggetto specifico cui si rivolge.
Nell’analizzare la contraddizione interna al manicomio tra il lavoro svolto dai malati a scopo terapeutico e la forza lavoro da loro effettivamente prestata, ad esempio, Comba intuisce le contraddizioni che attraversano il lavoro ovunque, nel suo essere al contempo “azione sociale” e “energia prodotta” a seguito di un “atto di imposizione” (p. 22).
Allo stesso modo, riflettendo sulle donne che occupano l’ultimo reparto chiuso dell’ospedale, l’autrice si interroga su come un corpo sessuato intervenga all’interno della pratica dell’internamento, su come “il processo di spoliazione segua modelli culturali diversamente adattati al diverso vissuto corporeo” (p. 35) e la passività nei confronti dell’istituzione diventi conferma “della astorica oggettualità” delle donne (p. 34), di quanto accade anche oltre le mura della struttura nei rapporti tra i sessi.
E ancora, la privazione della possibilità di attribuire ai propri gesti un significato proprio da parte delle ricoverate – poiché l’interpretazione e l’assegnazione di senso spetta invece al medico – diventa occasione per una messa in discussione della pratica medica in generale e in particolare per affrontare il tema della violenza interna al sistema psichiatrico.
Violenza che ritorna nella riflessione sulla famiglia, per cui Comba non si accontenta dell’armamentario teorico/pratico del proprio sapere specifico, ma chiama in causa ancora una volta i rapporti nella società, le condizioni materiali e sociali e appunto la violenza che continua ad attraversare le relazioni, al di là di un’apparente democratizzazione.
Così, da una parte Letizia Comba denuncia la riduzione degli psicologi a “tecnici del consenso” (p. 65), con il compito di riportare le “devianze” alla normalità, e chiama a verificare quale uso politico sia possibile fare della psicologia, dall’altra sottolinea la necessità di “un’analisi della società”, di collocare il disagio non solo rispetto a quel “complesso di norme che regolano la vita di un gruppo” (p. 77) e che producono il diverso come residuo, ma anche rispetto al contesto specifico cui appartiene, per evitare di leggere “i conflitti sociali in chiave di disagio individuale” (p. 68).
Comba ha in mente, ad esempio, i conflitti interni alla famiglia, sì scontri rispetto all’autorità che vive dentro di noi, ma soprattutto espressione del rifiuto di pensarsi funzioni, che possono entrare in opposizione ad altre solo all’interno di dialettiche dagli esiti già dati.
Le donne conoscono bene questa esperienza, come figlie e mogli, ma forse ancor più nella maternità, nel rischio di essere madri come funzione, dove il bisogno dell’altro da accudire diventa il proprio bisogno e in cambio si ha restituita un’immagine di sé come ruolo, in cui affetto e pratica di produzione possono confondersi in maniera dolorosa.
Arriviamo infine ai rapporti tra donne. Il rapporto con le studentesse che avevano occasione di entrare in relazione con Letizia Comba nello spazio dell’università, quello con la Comunità filosofica di Diotima e infine quello con le antenate.
Le storie e gli scritti delle donne del passato – tra cui Paolina Leopardi, Margherita di Savoia, Angiolina B., Maria Montessori, Ada Gobetti – vengono ripercorsi tenendo presente la parzialità della propria lettura, legata a ciò che del testo si cerca, “a ciò che si vuole dalla specifica relazione” (p. 254), ma intanto portando ad evidenza la vicenda, che le singole storie illuminano ciascuna suo modo, del sesso delle antenate.
La compravendite delle figlie, cui Paolina Leopardi si nega. Il controllo su una sessualità sempre più violentemente costretta nel rapporto matrimoniale monogamico, insieme alla rigida divisione tra donne sessualmente pericolose e donne oneste e alla crescente attenzione nei confronti della procreazione.
La “sessualità vagabonda” di Angiolina B., la cui vicenda di prostituzione e marginalità si distingue da quella delle sue coetanee non perché incontri infine la felicità, nel percorso di riabilitazione offertogli dall’asilo Mariuccia, bensì perché trova nella scrittura “un nuovo corpo simbolico” (p. 237) e nella fondatrice dell’asilo, Ersilia Majno, la madre simbolica che le restituisce un ordine in cui dire, in cui dirsi.
a cura di Angela Lamboglia