Recensione di Federica Castelli in DWF – Questo sesso che non è ilsesso. II – 90, 2 anno 2011
Amore e Violenza di Lea Melandri si inserisce nel quadro del recente dibattito sulla femminilizzazione del lavoro e della società – problematizzandone sia la questione della complementarietà e della conciliazione, sia l’illusione di una raggiunta armonia e parità di condizioni tra i sessi – radicandosi in un discorso sull’attualità della scena globale, caratterizzata da nuovi ed inediti conflitti, e proponendo pratiche e approcci che sappiano tener conto delle differenze, dell’importanza strutturale del conflitto, del corpo e della soggettività che in esso si radica.
Il dibattito sulla femminilizzazione del lavoro vede il delinearsi di una doppia lettura del rapporto tra capitalismo cognitivo e il di più della differenza femminile, come rapporto di inclusione e messa a profitto che genererebbe maggiore oppressione per le donne al lavoro oppure come occasione per la differenza di far saltare i meccanismi contemporanei di produzione e di lavoro. La riflessione di Melandri, seppur segnata dalla mancanza di un’analisi del precariato come condizione lavorativa ed esistenziale, che colpisce e orienta le vite di tutte le nuove generazioni al lavoro (soprattutto nel campo del lavoro cognitivo), si inserisce all’interno di questo dibattito mostrando come la femminilizzazione – che non coinvolge solo il mondo del lavoro, ma abbraccia l’intero sociale – conviva, nonostante si faccia carico di promesse di “parità”, “uguaglianza”, “emancipazione”, con il persistere degli stereotipi di genere e dell’idea della complementarietà dei sessi. La divisione sessuale del lavoro, così come la conflittualità tra uomini e donne, permangono nella loro evidenza, raggiungendo apici critici proprio nel momento in cui il femminile fuoriesce dal luogo dove storicamente è stato relegato, al di fuori dalla polis, nel mondo chiuso della casa e del privato. La chiave di lettura per comprendere questa contraddizione, spiega Melandri, risiede nel fatto che, nonostante il discorso circolante, il conflitto tra sessi permane irrisolto sua problematicità.
Il femminile stesso che il discorso pubblico sdogana dall’oikos (in un movimento che sembra portare drasticamente ad un dilagare informe del privato nel pubblico) è in realtà ancora l’immagine di donna che la tradizione al maschile storicamente ha costruito. L’idea di una donna al lavoro che curi le relazioni, i contatti e che concili i conflitti riprende in modo esplicito un immaginario costruito sulla base dei compiti e delle cure che l’oikos e la cura della famiglia hanno trasformato in caratteristiche del femminile idealizzato, pensato al maschile nei termini di mancanza e complementarietà. In questo senso è possibile comprendere come nonostante l’apparenza, l’idea di un attuale ammorbidimento del conflitto tra sessi e di un avvicinamento alla realizzazione dell’armonia fra uomini e donne non solo si rivela illusoria, ma portatrice, secondo Melandri, di una più profonda forma di oppressione. Il femminile che finalmente irrompe del discorso pubblico è un femminile che non parla alle donne, perché non nasce dalla loro esperienza, e a cui è possibile conformarsi se non in virtù di un misconoscimento. La donna che abbraccia l’idea della conciliazione di lavoro produttivo e riproduttivo (la cui delega al femminile non viene messa in discussione), conformandosi all’idea della donna multitasking, efficiente sul lavoro, perfetta dentro casa, eccellente nelle relazioni dentro e fuori l’ufficio, in realtà non mette in discussione nulla di un mondo produttivo storicamente al maschile ed ora capace di saper sfruttare e mettere a profitto quelle caratteristiche che l‘oikosrichiede al femminile.
In posizione critica rispetto al pensiero della differenza sessuale, Melandri sottolinea come l’idea stessa di una differenza maschile e femminile riporti sulla scena una dicotomia e un problema segnati da una logica maschile e all’interno della quale l’oppressione che si cela dietro l’idea di complementarietà si radica nella divisione sessuale del lavoro. Nel dibattito sulla lettura da dare al processo di femminilizzazione del lavoro, spiega Melandri, alcune femministe impugnano l’idea di una “natura femminile”, che produce autorevolezza per le donne anche in ambito lavorativo. In questo modo, commenta aspramente l’autrice, viene messa in ombra la questione del potere (che rimane sempre declinato al maschile) e gli interessi economici che tengono le donne in scacco, prese nel difficile e estenuante equilibrio della conciliazione. Questa armonia, questa conciliazione, sul lavoro e nell’intera società, costringono appunto la donna a guardarsi con occhi ancora maschili e ad incarnare ruoli che ne sfruttano l’immaginario.
Il libro ha il pregio di segnare il punto del misconoscimento che ha tradito il percorso e il senso delle pratiche e delle riflessioni femministe fino alla banalizzazione a cui assistiamo tutt’ora nella politica italiana del nesso corpo-sesso-politica. Una lettura del presente che problematicizza la società e l’attuale senso di armonia e conciliazione che la femminilizzazione produce, facendo sembrare risolti tutti i conflitti tra sessi, e che smaschera i dover essere che in essa vengono sottesi: dover essere madre, dover essere giovane, dover essere bella, dover essere complementare ad un uomo che a sua volta deve saper rispecchiare i canoni della mascolinità che la tradizione ha costruito. La femminilizzazione è l’estensione alla vita pubblica di quel femminile, così il corpo sulla scena è corpo oggetto, corpo merce, ben lontano da quell’Io incorporato del femminismo.
Così come il femminile, anche il corpo in questione è quello segnato dal potere sovrano, dall’esclusione dalla polis, dal maschile. Da sempre relegato fuori dal tempo e dallo spazio della politica, il corpo, così come il femminile, irrompe oggi sulla scena sociale, nel doppio movimento di un controllo e di un’azione sempre più sensibile sulle questioni della vita da parte delle istituzioni, e di un contemporaneo dilagare di questioni “private”, tradizionalmente ritenute “non politiche” nelle questioni pubbliche, che scombina e mette in crisi l’agire della sinistra italiana mentre viene raccolta dalla destra. In questo senso, il riferimento dell’autrice ai recenti avvenimenti riguardanti Silvio Berlusconi, diviene l’occasione per una chiara messa a tema della questione.
I movimenti femminili, in lotta per una politica della vita e non su di essa, hanno riportato sulla scena il rimosso della politica: il femminile, le relazioni, il corpo come luogo essenziale della soggettività. Tra lo stesso nesso individuato dal femminismo tra sessualità e politica e l’attualità della società italiana si apre un abisso che nasce dal misconoscimento, dal fraintendimento e dalla banalizzazione del senso di questo legame, di fronte alla quale si aprono due possibilità, entrambe misere: la politica come gossip e come personalismo, oppure il ritorno alla separazione dicotomica pubblico/privato, corpo/polis. Ciò a cui si assiste oggi è il trionfo non di una politica della vita ma di una politica dell’antipolitico, sistematica immissione senza resti di quel che era relegato fuori, concepito e segnato dalla logica del discorso di potere che un tempo lo escludeva. Come il femminile, il corpo che ha ottenuto la cittadinanza è quello che si pone come luogo di affermazione degli individui semplicemente attraverso la bellezza, la gioventù, l’allusione erotica.
Ben lontana dal risolvere le contraddizioni e la conflittualità tra i sessi, la società attuale ne accentua i caratteri oppressivi mascherandoli sotto il nome dell’amore, dell’a-conflittualità.
In fondo, l’amore – se ne rendeva conto già Freud – è intimamente legato alla violenza, e spesso sfocia nell’aggressività. Che si tratti di una donna, così come di una nazione. Lo stesso movimento di Eros, uno più uno, porta al sogno di una unità chiusa e non discutibile che conduce direttamente a logiche di appropriazione- protezione dell’oggetto amato imparentate con logiche di guerra; tale nesso non può che acuirsi e rendersi più consistente nel momento in cui le fondamenta sicure e rimosse della società fuoriescono dai ruoli tradizionali rivendicando una libertà e una visibilità nello spazio pubblico imprevisti. In quel momento, la libertà maschile, costruita sull’illusione dell’affrancamento dai ruoli e dalle figure del femminile, vacilla portando alle estreme conseguenze la confusione contraddittoria di amore e violenza che determina il rapporto uomo/donna.
Così come il corpo e il femminile, l’irruzione dell’alterità – culturale, sociale, nazionale- una volta assimilata o dominata scombina e rende fluido e precario il sistema, che esige dunque una nuova e chiara messa a tema. Melandri, sulla base delle riflessioni di Del Rey e Benasayag (Elogio del Conflitto, Feltrinelli 2008) sottolinea l’esigenza di ripensare la società in termini di conflitti, come processo di costruzione al di fuori delle logiche unitarie, universali, macro-partitiche. L’ottica del conflitto riesce a rendere conto delle nuove figure del disagio sociale, del dissenso e della ribellione, portando sulla scena le reti multiformi e inaspettate di cui si compone oggi lo scenario globale. In opposizione alle logiche di militanza, ai movimenti rivoluzionari che mantengono le stesse logiche di appropriazione e contenimento delle differenze, Melandri propone una radicale ridefinizione della politica attraverso la ripresa delle pratiche del femminismo, della soggettività corporea, del partire da sé e la fuoriuscita da ogni tipo di dualismo, anche quello che l’autrice rintraccia nel pensiero della differenza.
In tutto questo, va segnalata una sostanziale sfiducia dell’autrice nel pensiero e nelle pratiche relazioni delle giovani donne, descritte come imprigionate e divise tra due immagini complementari che risalgono direttamente a quel femminile costruito sulle donne dal pensiero patriarcale. Veline o aspiranti mamme conciliatrici di vita e carriera, divise tra corpo erotico e corpo materno, le giovani generazioni vengono secondo l’autrice a mancare degli strumenti, delle possibilità e soprattutto della volontà di un reale ripensamento dell’idea del femminile, adagiandosi invece in esso come fosse la naturale realizzazione delle proprie soggettività. In questo senso, si domanda Melandri, viene da chiedersi dove il femminismo si sia arrestato nel dialogo tra generazioni, e quale siano le cause di questa mancanza di analisi delle giovani donne. Questione scomoda da affrontare, soprattutto se nel discorso si punta tutto su due poli estremi ed estremizzati di immagini di vite di giovani donne, che non coglie né le sfumature, né quell’altrove che molte di noi realizzano, collocandosi fuori da quello schema. Molte giovani donne, non si rispecchiano nei due modelli che la società italiana attuale propone, non ci si ritrovano. Vi è poi il caso di chi, come me, ha incontrato nella sua vita il femminismo. Questi casi, particolari ma pur sempre presenti sulla scena, fanno necessariamente saltare il discorso nella sua rigida dicotomia, ma esigono una più ampia messa a tema del rapporto tra giovani donne e femminismo.