Una prefazione che spiazza, quella che dà l’avvio all’ultima opera di Luisa Muraro, filosofa, mistica e femminista storica, fondatrice insieme ad altre della Libreria delle Donne di Milano. Racconta di un congedo, quello del muratore, che finito il proprio lavoro raccoglie gli attrezzi, dà un’ultima occhiata e lascia la casa a quelli che l’abiteranno. “Anch’io mi congedo, con queste parole”, dice Muraro. Si tratta di un congedo del qui e ora, e non dalle lettrici e dai lettori, quanto dalle parole dedicate nell’intero testo a “far conoscere cose in sé non nuove, anzi antiche” ma che rischiano di andare perdute “perché sono fatte di una materia finissima”. Questa materia è l’esperienza e la politica del simbolico femminili, l’esperienza dell’imparare a parlare – che il femminismo ha fatto sua –, dell’essere attivamente coinvolte nella vita dei segni, un’esperienza che nasce dall’interno del corpo femminile in contatto con il mondo, che è potere senza potere, oscurità che fa luce, piccolo che si misura con il massimamente grande. E’ il mercato della felicità, un mercato elementare che viene prima del mercato del profitto e che è molto più grande, è il mercato che facciamo a partire da dove siamo e dalla nostra esperienza, nel quotidiano, è lo scambio interminabile tra corpo e parola che produce un di più, il di più femminile, il “sopram-mercato”.
Quello che si scorge nella sequenza dei capitoli – ognuno indipendente dall’altro – e nelle storie che Muraro utilizza per raccontare dell’esperienza, è un percorso del desiderio che parte dalla passione del desiderio come contrattazione instancabile, incarnata nell’immagine della vecchia che si mette in fila al mercato per comprare lo schiavo Giuseppe con dei gomitoli di lana, consapevole di non poter competere con i gioielli offerti dagli altri compratori, ma che non si fa vincere da moderazione o rassegnazione, e al mercato ci va lo stesso, ci va in prima persona, perché è in prima persona che si desidera. Con il racconto della donna dei gomitoli Muraro ci parla della forza irrinunciabile del desiderio, di un desiderio sproporzionato che, seppur senza mezzi adeguati, va incontro alla realtà e la mette alla prova, perché “il reale non è indifferente al desiderio e non assiste indifferente alla passione del desiderare” (p. 8). La donna dei gomitoli, e come lei molte altre, è portatrice di un desiderio che non si misura con il reale realizzato, ma che va oltre, diventando un vantaggio tutto femminile, il guadagno – ci dice Muraro – di andare al mercato con la moneta di uno svantaggio storico da spendere. E’ l’invito di Carla Lonzi ad approfittare della differenza. E’ la politica delle donne che lo ha insegnato e lo insegna, con i suoi scacchi, i suoi spostamenti, i suoi passaggi.
Nella semplicità di un pensiero che si fissa nella mente “io sono una donna e non c’è da dimostrare c’è da essere”, una giovane Muraro si esonera dalla parzialità della cultura progressista, tutta risposte, razionalizzazioni e vigilanza, e si libera dalla dipendenza ad un universale e un simbolico maschili, per dire di un nuovo universale, di un pensiero femminile che, come afferma Angela Putino, non è interesse di parte, ma “pensiero per tutti”, che significa “esistere e pensare in prima persona, ed esserci come tali, pensanti a partire da sé, in presenza e in compagnia di altre, altri” (p. 46). E’ questo il femminismo di cui ci racconta Muraro, un movimento che si sgancia da quella “landa d’insensatezza nota come “emancipazione femminile”” (p. 42) e dall’uguaglianza tra i sessi come tana per gli uomini e trappola per le donne, e che si nutre della differenza, dell’altro, come alterità e come plus. E’ qui che l’impensato accade, svuotando la mente del suo patrimonio di cose già pensate, ingarbugliando il confine tra l’interno e l’esterno, rendendo inadeguate le parole. L’irrompere dell’impensato, un “trauma”, come lo definisce al negativo la psicologia scientifica, diventa la possibilità di dare luogo “a sviluppi positivi, a spostamenti liberanti, che fanno cadere i recinti isolanti e i muri separanti” (pp. 52-53), s’impone nella vita cosciente del pensiero come la sola cosa da pensare, e modifica radicalmente l’esperienza del tempo, perché spacca la continuità del tempo-che-passa. Da qui, il “da ora in avanti” – come Muraro lo definisce – appare vuoto, una pagina bianca. Ebbene, su questa pagina il femminismo ha scritto, modificato e riscritto nel corso degli anni, riconoscendosi nell’impensato che irrompe, che porta alla luce le contraddizioni di una temporalità lineare che oscura e annulla una temporalità altra, quella femminile, il tempo delle donne che riconosce la simultanea presenza di numerose e diversificate esperienze del tempo come proprio tratto caratteristico, il resto di tempo che Madame de Maintenon, sposa segreta del Re Sole, dona al collegio Saint Cyr, un tempo qualitativo che eccede il tempo ordinario del re. E’ l’esperienza soggettiva e di grande valore politico che Muraro accosta, con uno spostamento mistico, alla conversione di Paolo sulla via di Damasco, quando dopo una caduta da cavallo viene folgorato da una luce e dalla voce di Gesù Cristo che gli chiede il perché della persecuzione nei suoi confronti. Muraro lo chiama ribaltone e “ribaltone paolino” è il capitolo dedicato al repentino mutamento di Paolo, al suo incontro-scontro con un impensato, la verità di Cristo, che diventerà poi il fulcro della sua predicazione. E’ interessante come la filosofa-mistica renda conto della capacità di Paolo di dire l’indicibile attraverso le mediazioni nel passato con cui ha rotto: “della religione che professava in precedenza riprende tutto, compresa la legge e l’elezione divina del popolo ebreo, e la rimodella così come lui stesso è stato preso e rimodellato dal pensiero impensato, ora pensiero dominante” (p. 68). Oltre la mistica interpretazione, si scorge a mio avviso un simbolico forte della mediazione con il passato, non più, oggi, rigetto di una cultura – il maschile patriarcale – quale passato del primo femminismo, bensì appropriazione e riscoperta di un già pensato, il femminismo nelle sue molteplici declinazioni (i femminismi), che fa da sfondo – o da colonna portante, se rimaniamo ancorati alla figura del muratore con cui abbiamo aperto – alla pratica politica e al linguaggio simbolico femminili delle donne che andranno ad abitare questa casa. E’ forse questo lo spostamento necessario affinché si aggiri il rischio che le cose importanti, fatte di materia finissima, vadano perdute, che la libertà acquisita nel perseguire i propri desideri venga soffocata, che la forza irrinunciabile del desiderio non riesca a salvare il mondo.
C’è preoccupazione nelle pagine del libro per l’incapacità degli uomini a capire il femminismo della differenza, incapacità del pensiero e dell’essere politico maschili ad interagire con un movimento visceralmente politico che attraversa ognuna singolarmente, senza definire obiettivi, ma guidato da una “domanda di godimento”. Muraro si affida alle parole di Manuela Fraire per dire di questa differenza femminile: “La cosa importante non è il desiderio di qualcosa, ma il rapporto e la trasformazione di sé che si opera per via del desiderio” (p. 92).
Ho colto in alcune parti del testo la stessa preoccupazione in relazione alle donne, quelle a cui Muraro si rivolge mettendo per iscritto la sua esperienza femminile e femminista. E’ il rischio dell’esonero dal lavoro della necessaria mediazione:
“E così si smette semplicemente di cercare le parole che l’altro potrebbe capire e magari condividere, fino a pensarsi in termini che non comprendono il punto di vista dell’altro e neanche lo prevedono, fino a pensare il mondo come se l’altro non esistesse”(p. 119). Muraro utilizza la figura – per niente retorica – di un paese che diventa militarmente più forte dei suoi vicini e perde la capacità di fare politica estera, e racconta di essere stata colpita, dopo l’attentato dell’11 settembre 2001, da una notizia in particolare: il governo statunitense si rese conto solo allora di non avere al suo servizio traduttori dall’arabo. E lì l’impresa terroristica diventa improvvisamente meno impossibile e meno mostruosa. Cercare le parole per significare, è questo il senso della necessaria mediazione di cui parla la filosofa, è trovare le parole per dire di un’esperienza e riconoscerla come prima non si poteva, “è un disfare maglie per ricavare dal passato la materia prima per riprendere di nuovo a vivere” (p. 121), è attivare un circolo e risvegliarne un di più. Dov’è la preoccupazione verso le donne di cui dicevo? E’ il timore che non si cerchino più le parole per raccontare il sentire e l’essere femminili, che si interrompa il circolo della mediazione da cui riprendere vita, che non si disfino più maglie per ricavare materia prima. E’ – forse – un implicito invito alle donne, soprattutto le più giovani, ad abitare la casa che il muratore ha ultimato, varcare la soglia, guardarsi intorno, riconoscere segni, simboli, il già pensato, il già detto, il passato che serve a dire l’indicibile e dal quale ricavare la materia prima, per poi entrare con la propria esperienza e farne il motore del pensiero, irrompere come impensato nell’ordine simbolico in vigore, perché “al posto della regola ci siamo tu ed io, qui e ora” (p. 136).
E’ il senso della necessaria mediazione, è mediazione vivente che si rivolge al vero, al bello, all’amore, alla gioia, con la certezza che da qualche parte tutto questo si trovi, sicuramente dentro di noi, e in altre ed altri. Muraro ci invita a tenerlo presente, insieme a tutto il resto che conta e pesa, perché possa contare e pesare (anche questo) in ciò che diciamo e facciamo, perché è solo questo ciò che ha la capacità di rendere, di restituire. E’ la libertà.
Non è un caso che il libro si chiuda con l’immagine della donna gravida di mondo, “di quello che il mondo, di fatto, al momento, non è, non sa, non può”.
Recensione di Teresa Di Martino