Come Jane Austen. Come le scrittrici dell’800 e di prima. Senza una stanza tutta per me. Dentro una stanza per tutt*.
Dal Refugia che ho scelto di raccontare ci sto scrivendo. Dal centro del salone, che fa pure da cucina, da soggiorno, da ingresso, da ritrovo.
La casa di una vita della mia bisnonna Angela e del mio bisnonno Felice e de* loro figli*, la casa dove è nata nonna Rosina, la casa delle vacanze di molte sorelle zie zii cugine e cugini. Una continuità di esistenze umane e non. Una ragnatela di affinità, di parentele, di vita e di morte. Io la conosco dal 1979, la prima volta che ci sono entrata, avevo 8 mesi.
La casa di Subiaco è costruita ai piedi della Rocca Abbaziale, antica dimora di Lucrezia Borgia. Spirito potente, ingombrante. Quando ero piccola la consideravo la mia vicina di casa famosa.
Pompusina era il soprannome della madre di mia nonna. La chiamavano così perché era bellissima e si agghindava sempre per uscire. Era vanitosa. Era nata nel 1900, ha sempre vissuto qui. E’ morta su una sedia a pochi passi da dove scrivo. Scendeva la scala di legno affannosamente perché malata di asma. 1967, compie quel gesto teatrale per l’ultima volta, si siede su quella sedia. Muore.
La casa è dei ragni che tessono meraviglie sui lampadari di ferro e metallo costruiti negli anni ’70 da mio nonno Nazzareno. E’ lui che allestisce la grande tavola blu, con i paraspigoli di gomma marrone, con la farina e le patate. Costruisce un cappello di carta da muratore per sé e uno per uno per i/le nipoti. E ci insegna a fare gli gnocchi e gli strozzapreti. Estate 1993, dorme qui accanto in un mobile letto. La malattia che lo ucciderà tra qualche mese non gli permette di fare le scale di notte per andare in bagno. Gli scorpioni adulti e cuccioli vivono sulle pareti, tra gli interstizi, spaventano gli umani nella notte.
Per entrare nella casa di Subiaco si deve restare inclinat*, cambiare postura, spostare il corpo, ci si deve ri-dimensionare. Le porte sono basse, i letti stretti, il bagno piccolo, la doccia corta. Le sedie poche e i corpi tanti, c’è sempre qualcun* che a tavola rimane su uno sgabello, all’angolo.
Quando giri la chiave nella serratura devi dare una piccola spinta con il corpo alla porta di legno chiaro per poter entrare. SOSPENSIONE. Buio, freddo, umido. Il vuoto è pieno. Gli scorpioni agitano le tenaglie e restano appiattiti nei loro pezzetti di muro. I ragni sospendono per un istante l’eterna tessitura. Le anime sono lì, ci guardano e riprendono ad animare lo spazio. L’umano non è che un pezzetto, si aggiunge al resto. Di tanto in tanto, lascia tracce volgari, rumorose, schiaccia la vita elegante delle anime passate, le ignora, scaccia la bellezza perturbante de* non uman*.
Le camere da letto sono al di sopra e al di sotto della cucina. Naturalmente si dorme tutt* insieme. Le femmine sopra i maschi sotto. Una piccola camera per mia nonna. La porta è sempre aperta, senza chiavi, senza blindature, senza cancelli, senza lucchetti, senza paure. Si sta sempre fuori. Qui fuori oggi mia figlia si è sbucciata per la prima volta il ginocchio.
La casa di Subiaco è un corpo. Pulsante, gonfio, temporalmente esploso. Un archivio di affetti. È una turba. I ricordi si urtano, perdono il margine, la linea che li colloca nel tempo e li separa gli uni dagli altri. Così mentre la mia memoria si smargina, prendono vita nuovi dettagli, particolari smarriti. Le mie prime mestruazioni una mattina d’agosto del 1991. Esco dal bagno, fuori almeno dieci persone. Lo dico in un orecchio a mia madre, dopo cinque minuti mi abbraccia mia nonna e poi mia zia e un’altra zia e ancora una zia. Mi sento una di loro. Una bambina.